giovedì 22 luglio 2021

SMETTO QUANDO VOGLIO, DI SYDNEY SIBILIA

Non è un segreto che il cinema italiano, in particolare la commedia, abbia subito un tracollo a dir poco drastico ultimamente. E con "ultimamente" intendo negli ultimi 40 anni o giù di lì. Ma, fortunatamente, da una decina d'anni a questa parte il cinema del nostro Paese sembra star lentamente risorgendo. Abbiamo assistito all'arrivo di nuovi autori con nuove idee e nuove forme di intendere l'intrattenimento e addirittura, a tratti, il genere. E, anche se di strada da fare ce n'è ancora molta, quest'inaspettata primavera del cinema italiano ha dato nuova linfa anche alla commedia, come la piccola perla di cui voglio parlare oggi: Smetto quando voglio, opera prima di Sydney Sibilia co-prodotta da Matteo Rovere, regista in seguito di quel Veloce come il vento anch'esso acclamato dalla critica.

Uscita nel 2014 senza troppo trambusto, questa esilarante satira sulla precarietà del lavoratore italiano e l'inefficienza del nostro sistema universitario ha raggiunto in brevissimo tempo lo status di cult, generando due fortunati sequel. Le ragioni di questo successo? Beh, cominciamo dalla storia.

Dopo decenni in cui siamo stati abituati a situazioni inverosimili fatte di equivoci improbabili e personaggi tagliati con l'accetta, la trama è qualcosa di molto più vicino alle realtà quotidiane dell'italiano medio rispetto alla solita commedia italiana: il protagonista, Pietro Zinni (Edoardo Leo), è un ricercatore universitario timoroso e succube, che una volta licenziato dal suo ateneo decide di mettere su una banda fatta di suoi ex colleghi per produrre e spacciare una smart drug. Già dal soggetto notiamo un approccio fresco e nuovo che cita realtà televisive e cinematografiche d'oltreoceano, Breaking Bad su tutte, come evidente anche dal rapporto fra Pietro e la sua fidanzata Giulia (Valeria Solarino), a cui tenta di nascondere tutto e per la quale è pronto a correre tanti e tali rischi con la legge. L'approccio poco italiano si vede anche nella regia, che cerca di osare un po' di più imitando lo stile all'americana, tanto nella colonna sonora quanto nelle inquadrature e nel montaggio, anche se Sibilia brillerà ancora di più da questo punto di vista nei seguiti Masterclass e Ad honorem.

Le tematiche affrontate dal film sono fin troppo familiari alla nostra realtà: si parla dei pochi fondi alla ricerca, delle fughe di cervelli (per carità di Dio, lasciate perdere l'omonimo film di Paolo Ruffini), delle raccomandazioni di tipo politico, e la sceneggiatura, co-scritta dallo stesso Sibilia, risulta veramente brillante e per nulla scontata o indelicata, con battute e gag
I protagonisti del film
mai buttate a caso e che colgono quasi sempre nel segno. La comicità dilagante del tutto è fornita sia dalle situazioni, a tratti surreali ma mai totalmente irrealistiche (anzi, osservando il finale viene quasi in mente il malinconico
I soliti ignoti), sia dai personaggi ritratti splendidamente e interpretati altrettanto bene da un folto cast di attori noti sicuramente al pubblico, ma non immediatamente riconoscibili dallo spettatore medio: oltre al già citato Leo, nome abbastanza di spicco lanciato ancora di più dal successo di questa pellicola, non penso sia un caso che qui si trovino ben tre interpreti di Boris, altro eclatante esempio, stavolta televisivo, di satira sferzante ai (mal)costumi del Belpaese. Per la precisione abbiamo Pietro Sermonti, Paolo Calabresi e Valerio Aprea, gli indimenticabili Stanis La Rochelle, Augusto
Biascica e sceneggiatore numero 1 di
Boris, affiancati da un esilarante Stefano Fresi che interpreta il co-protagonista Alberto, il compianto Libero De Rienzo nel ruolo del truffaldino economista Bartolomeo, Lorenzo Lavia (figlio di cotanto padre, qui nei panni di latinista improvvisato benzinaio) e un ottimo Neri Marcorè nel ruolo dell'antagonista, il temibile spacciatore rivale Er Murena.

Il grande difetto del film è solo uno, ed è piuttosto evidente: la fotografia. Costantemente patinata e saturata, con i verdi e i gialli che accecano e i bianchi praticamente inesistenti. Apprezzo il voler creare un'identità visiva riconoscibile, ma un'estetica esageratamente vistosa come questa l'avrei vista funzionare solo se usata in momenti particolari, ad esempio per dare l'idea dell'effetto della droga sui personaggi. Così sembra solamente di essere in trip di LSD per un'ora e quaranta, e dopo un po' l'occhio si stanca.

Libero De Rienzo nel ruolo di Bartolomeo
Scelte discutibili a parte, il film rimane una mosca bianca nel panorama della commedia italiana post 2000, con una critica sociale efficace e intelligente e una comicità genuinamente divertente e ponderata. I due sequel, usciti nel 2017 e sempre in mano a Sibilia, non saranno da meno, specialmente il primo, e la strampalata “banda dei ricercatori” non smetterà di divertirci e, pensate un po', persino di emozionarci.

Insomma, l'intera trilogia di Smetto quando voglio è diventata un cult personale, essendo riuscita a stupirmi e divertirmi come pochi film italiani hanno fatto nell'ultimo decennio. Momenti che preferisco: tutte le scene con Maurizio (“Grande, professore!”) quelle con Paprika, che non parla una parola di italiano per tutto il film, eppure i suoi duetti con Alberto sono fantastici, e il rapporto burrascoso di Bartolomeo con i suoi futuri parenti sinti. A chi di voi non l'ha visto consiglio di recuperarlo, il divertimento non mancherà e il cervello rimarrà acceso.


Dati tecnici

Regia: Sydney Sibilia

Anno: 2014

Paese di produzione: Italia

Casa di produzione: Fandango, Ascent Film, Rai Cinema

Fotografia: Vladan Radovic

Musiche: Andrea Farri

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