sabato 31 luglio 2021

20 ANNI DI SHREK - IL BELLO DI ESSERE SCORRETTI

“L'animazione è roba per bambini”. Tutti abbiamo sentito questa frase almeno una volta. Ed ogni volta mi chiedo come sia possibile che questo preconcetto così superficiale continui a permanere nella mente di così tante persone. L'animazione è stata utilizzata in modo “adulto” fin dall'inizio, che si tratti degli animatori sperimentali dei primi del '900 come Fishinger o Léger o dell'irriverenza di gente come Tex Avery, che fin dagli anni '30 hanno spinto la comicità a cartoni animati al limite della censura. Ma è solo negli anni '90 che l'animazione prettamente adulta riesce finalmente a imporsi sul pubblico, e per la precisione questo avviene in TV: grazie all'imprevisto successo dei Simpson (tra le serie più importanti della storia della televisione, per vari motivi) l'America ha visto nascere una vera e propria ondata di materiale animato orientato a un pubblico adulto, con serie come South Park, I Griffin, Beavis & Butthead e tantissime altre che sarebbe impossibile citare nella loro totalità e che hanno spinto ed esplorato le possibilità del mezzo animazione.

E al cinema? Beh, gli anni '90 furono il periodo del cosiddetto Rinascimento Disney, in cui l'azienda del Topo era tornata a dominare il mercato mondiale del cinema d'animazione dopo un periodo poco fiorente. Ma non tutto fu rose e fiori. La travagliata produzione del più grande successo del periodo, Il re leone, aveva causato uno scisma nella compagnia, con il responsabile del reparto animazione, l'ambizioso e irremovibile Jeffrey Katzenberg, che lasciò la Disney con risentimento e piani di vendetta verso coloro che, secondo lui, non gli avevano riconosciuto i meriti che aveva. Fu così che nel 1997 nacque la DreamWorks, fondata da Katzenberg, Steven Spielberg (scusate se è poco) e il magnate dell'industria discografica David Geffen: l'azienda fece della maturità il suo tratto distintivo, come a volersi distanziare dall'aura fiabesca e “innocente” delle pellicole targate Disney. Dopo aver messo a segno un pugno di perle che si misero senza problemi in competizione con le coeve uscite disneyane (addirittura il loro primo film, Z la formica, era un rifacimento della stessa identica premessa di A Bug's Life ed uscì nello stesso identico giorno!), nel 2001 i tempi furono maturi per la sferzata definitiva di Katzenberg e soci allo strapotere della casa del Topo.

Shrek, diretto da Andrew Adamson e Vicky Jenson, è molto più di un film. Rappresenta un grosso passo avanti nella concezione di certi topòi narrativi, di certi archetipi e di certe dinamiche tipici della concezione disneyana che raramente erano stati messi in discussione. Ma la cosa che rende Shrek così importante è che fa tutto in modo metanarrativo: lo spettatore sa perfettamente cosa il film sta parodiando, capisce senza margine di dubbio cosa la sua satira prende di mira, poiché questa gioca sapientemente su elementi a cui è stato esposto fin dall'infanzia e che quindi conosce molto bene. Del resto, chi può saperlo meglio di qualcuno che è stato capo dell'azienda che per decenni è stato il veicolo principale di tutti questi elementi?

E così, abbiamo tutte le caratteristiche della fiaba, ma ribaltate e ridicolizzate: l'eroe senza macchia e senza paura cede il posto a un antieroe che in qualsiasi altra fiaba sarebbe stato l'antagonista, un orco rozzo, egoista e scontroso; l'aiutante dell'eroe è un asino parlante che più che supportare il protagonista lo manda sui nervi con la sua logorrea; la principessa da salvare è una donna che cerca di conformarsi agli stereotipi di genere, aspettando passivamente che qualcuno la salvi nonostante, a giudicare dalle sue abilità fisiche e intellettuali, potrebbe benissimo salvarsi da sola (di certo avrebbe fatto meglio del nostro protagonista nell'esilarante scena contro il drago); e infine la ciliegina sulla torta, il principe.

Katzenberg, Spielberg e Geffen, fondatori della DreamWorks

Lord Farquaad è tutto meno che un personaggio positivo. È un subdolo, meschino approfittatore che manipola la vita delle persone esclusivamente per il potere. Sfratta i personaggi delle fiabe per impossessarsi della loro terra, ricatta Shrek convincendolo fare il lavoro faticoso per lui, cioè affrontare il drago e salvare la principessa Fiona, costringe quest'ultima a sposarlo nonostante non gli importi di lei, tutto per ottenere l'agognato potere e compensare la sua insicurezza di fondo dovuta probabilmente qualche mancanza di tipo fisico (la battuta a riguardo fatta da Shrek potrebbe riferirsi all'altezza... o a qualcos'altro). E se aggiungiamo che questo personaggio, nelle fattezze, ricorda sospettosamente Michael Eisner, CEO della Disney all'epoca, e che la sua pomposa residenza è una palese presa in giro di Disneyland, la cosa assume implicazioni ancora più sfacciate e, diciamolo, esilaranti. Shrek è prima di tutto, non dimentichiamolo, un film comico. Non una semplice parodia, come abbiamo detto, ma un'opera che abbraccia appieno quello che è pur continuando a metterlo costantemente alla berlina, un po' sulla scia di un altro cult, La storia fantastica, diretto da Rob Reiner nel 1987 e qui da noi non molto conosciuto. Ogni personaggio è una maschera comica efficacissima, da cui nascono momenti memorabili che non si fermano a flatulenze ed emissioni corporee (che sono presenti, il protagonista è pur sempre un orco), ma, in un continuo gioco con lo spettatore, esplorano le interazioni fra questi personaggi così fuori le righe, ma allo stesso tempo così amabili.

Perché, dopo tutto, Shrek è pur sempre una fiaba, post-moderna e multireferenziale, ma pur sempre una fiaba. La relazione fra Shrek e Fiona, in particolare nella sua risoluzione finale, è costruita perfettamente, ribaltando ma allo stesso tempo confermando la morale un po' più scontata di esempi come La bella e la bestia. L'antagonista è a dir poco memorabile, e la sua sconfitta forse ancora più soddisfacente rispetto a quella del classico villain fiabesco proprio perché trattata con quella dose di cattiveria che pervade e dà identità all'intera pellicola. La spalla comica, Ciuchino, funziona nella sua idiozia e petulanza perché è totalmente fuori luogo e di ben poco aiuto, per non parlare poi dei tantissimi personaggi secondari, da Pinocchio ai tre topini ciechi, dall'omino di zenzero (protagonista di una delle gag più nonsense e proprio per questo più divertenti del film) allo specchio magico, mutuato direttamente da Biancaneve. Non starò a citare tutti i momenti memorabili e tutte le citazioni presenti, mi limiterò a dire che avranno ancora più spazio nel sequel, uscito tre anni dopo e che a mio parere supera addirittura l'originale.

Il cattivo Lord Farquaad a confronto con
 lo storico presidente della Disney Michael Eisner
E non finisce qui, perché Shrek è stato influente non solo narrativamente e umoristicamente, ma ha anche cementato una pratica già esistente da tempo ma non ancora sfruttata a questi livelli: il fattore starpower. La produzione ha furbescamente puntato la stragrande maggioranza della campagna marketing sulla presenza di numerose star di Hollywood che hanno prestato la loro voce ai personaggi: da Mike Myers per Shrek, all'epoca popolarissimo per la sua saga di Austin Powers, a Cameron Diaz per Fiona, dall'incontenibile Eddie Murphy per Ciuchino a un grandissimo interprete cme John Lithgow per Lord Farquaad, e perché non inserire un veloce cameo di Vincent Cassel nel ruolo di un improbabile Robin Hood francofono? Insomma, questa pratica di infarcire i film d'animazione di nomi noti per attirare il pubblico si è diffusa a macchia d'olio proprio a partire da Shrek, a volte con risultati notevoli, molte altre come mero mezzo di autopromozione (I'm looking at you, Illumination).

Nel caso non si fosse capito, Shrek è stato un fulmine a ciel sereno nel mondo del cinema occidentale, in un periodo, quello dei primi anni 2000, in cui la stessa Disney attraversava una crisi di identità e lo scettro dell'animazione mondiale poteva essere di nuovo conteso. Certo, si potrebbe scrivere un saggio di centinaia di pagine sull'impatto di questo film, avrei potuto parlare dell'enorme lavoro svolto a livello di animazione (stiamo parlando del resto di uno dei primi lungometraggi interamente in grafica 3D), o di come gli avvocati della DreamWorks seguirono pedissequamente la produzione per evitare potenziali denunce da parte della Dismey, o ancora dell'utilizzo geniale delle musiche, in particolare le canzoni, ma ho voluto evitare di dilungarmi troppo.

L'orcone verde non solo ha modificato la concezione del pubblico di cartone animato, non solo ha influenzato le dinamiche stesse dell'intrattenimento al cinema, non solo è stato significativamente il primo vincitore dell'Oscar al miglior film d'animazione, ma ha avuto il merito di dimostrare a tutti, adulti e non, che andava ancora bene credere alle fiabe.


Shrek è amore, Shrek è vita.


Dati tecnici

Regia: Andrew Adamson, Vicky Jenson

Anno: 2001

Paese di produzione: Stati Uniti d'America

Casa di produzione: DreamWorks Animation Studios

Musiche: Harry Gregson-Williams, John Powell

giovedì 22 luglio 2021

SMETTO QUANDO VOGLIO, DI SYDNEY SIBILIA

Non è un segreto che il cinema italiano, in particolare la commedia, abbia subito un tracollo a dir poco drastico ultimamente. E con "ultimamente" intendo negli ultimi 40 anni o giù di lì. Ma, fortunatamente, da una decina d'anni a questa parte il cinema del nostro Paese sembra star lentamente risorgendo. Abbiamo assistito all'arrivo di nuovi autori con nuove idee e nuove forme di intendere l'intrattenimento e addirittura, a tratti, il genere. E, anche se di strada da fare ce n'è ancora molta, quest'inaspettata primavera del cinema italiano ha dato nuova linfa anche alla commedia, come la piccola perla di cui voglio parlare oggi: Smetto quando voglio, opera prima di Sydney Sibilia co-prodotta da Matteo Rovere, regista in seguito di quel Veloce come il vento anch'esso acclamato dalla critica.

Uscita nel 2014 senza troppo trambusto, questa esilarante satira sulla precarietà del lavoratore italiano e l'inefficienza del nostro sistema universitario ha raggiunto in brevissimo tempo lo status di cult, generando due fortunati sequel. Le ragioni di questo successo? Beh, cominciamo dalla storia.

Dopo decenni in cui siamo stati abituati a situazioni inverosimili fatte di equivoci improbabili e personaggi tagliati con l'accetta, la trama è qualcosa di molto più vicino alle realtà quotidiane dell'italiano medio rispetto alla solita commedia italiana: il protagonista, Pietro Zinni (Edoardo Leo), è un ricercatore universitario timoroso e succube, che una volta licenziato dal suo ateneo decide di mettere su una banda fatta di suoi ex colleghi per produrre e spacciare una smart drug. Già dal soggetto notiamo un approccio fresco e nuovo che cita realtà televisive e cinematografiche d'oltreoceano, Breaking Bad su tutte, come evidente anche dal rapporto fra Pietro e la sua fidanzata Giulia (Valeria Solarino), a cui tenta di nascondere tutto e per la quale è pronto a correre tanti e tali rischi con la legge. L'approccio poco italiano si vede anche nella regia, che cerca di osare un po' di più imitando lo stile all'americana, tanto nella colonna sonora quanto nelle inquadrature e nel montaggio, anche se Sibilia brillerà ancora di più da questo punto di vista nei seguiti Masterclass e Ad honorem.

Le tematiche affrontate dal film sono fin troppo familiari alla nostra realtà: si parla dei pochi fondi alla ricerca, delle fughe di cervelli (per carità di Dio, lasciate perdere l'omonimo film di Paolo Ruffini), delle raccomandazioni di tipo politico, e la sceneggiatura, co-scritta dallo stesso Sibilia, risulta veramente brillante e per nulla scontata o indelicata, con battute e gag
I protagonisti del film
mai buttate a caso e che colgono quasi sempre nel segno. La comicità dilagante del tutto è fornita sia dalle situazioni, a tratti surreali ma mai totalmente irrealistiche (anzi, osservando il finale viene quasi in mente il malinconico
I soliti ignoti), sia dai personaggi ritratti splendidamente e interpretati altrettanto bene da un folto cast di attori noti sicuramente al pubblico, ma non immediatamente riconoscibili dallo spettatore medio: oltre al già citato Leo, nome abbastanza di spicco lanciato ancora di più dal successo di questa pellicola, non penso sia un caso che qui si trovino ben tre interpreti di Boris, altro eclatante esempio, stavolta televisivo, di satira sferzante ai (mal)costumi del Belpaese. Per la precisione abbiamo Pietro Sermonti, Paolo Calabresi e Valerio Aprea, gli indimenticabili Stanis La Rochelle, Augusto
Biascica e sceneggiatore numero 1 di
Boris, affiancati da un esilarante Stefano Fresi che interpreta il co-protagonista Alberto, il compianto Libero De Rienzo nel ruolo del truffaldino economista Bartolomeo, Lorenzo Lavia (figlio di cotanto padre, qui nei panni di latinista improvvisato benzinaio) e un ottimo Neri Marcorè nel ruolo dell'antagonista, il temibile spacciatore rivale Er Murena.

Il grande difetto del film è solo uno, ed è piuttosto evidente: la fotografia. Costantemente patinata e saturata, con i verdi e i gialli che accecano e i bianchi praticamente inesistenti. Apprezzo il voler creare un'identità visiva riconoscibile, ma un'estetica esageratamente vistosa come questa l'avrei vista funzionare solo se usata in momenti particolari, ad esempio per dare l'idea dell'effetto della droga sui personaggi. Così sembra solamente di essere in trip di LSD per un'ora e quaranta, e dopo un po' l'occhio si stanca.

Libero De Rienzo nel ruolo di Bartolomeo
Scelte discutibili a parte, il film rimane una mosca bianca nel panorama della commedia italiana post 2000, con una critica sociale efficace e intelligente e una comicità genuinamente divertente e ponderata. I due sequel, usciti nel 2017 e sempre in mano a Sibilia, non saranno da meno, specialmente il primo, e la strampalata “banda dei ricercatori” non smetterà di divertirci e, pensate un po', persino di emozionarci.

Insomma, l'intera trilogia di Smetto quando voglio è diventata un cult personale, essendo riuscita a stupirmi e divertirmi come pochi film italiani hanno fatto nell'ultimo decennio. Momenti che preferisco: tutte le scene con Maurizio (“Grande, professore!”) quelle con Paprika, che non parla una parola di italiano per tutto il film, eppure i suoi duetti con Alberto sono fantastici, e il rapporto burrascoso di Bartolomeo con i suoi futuri parenti sinti. A chi di voi non l'ha visto consiglio di recuperarlo, il divertimento non mancherà e il cervello rimarrà acceso.


Dati tecnici

Regia: Sydney Sibilia

Anno: 2014

Paese di produzione: Italia

Casa di produzione: Fandango, Ascent Film, Rai Cinema

Fotografia: Vladan Radovic

Musiche: Andrea Farri

domenica 18 luglio 2021

LA NOTTE DEI MORTI VIVENTI, DI GEORGE ROMERO

L'horror: il genere controverso per eccellenza. Presente fin dagli albori del cinema, eppure costantemente censurato, condannato, o quantomeno guardato con sospetto. Parte di me non può non sospettare che all'origine di questa diffidenza ci sia una ragione molto più profonda della "pubblica decenza" o dell'ipocrisia perbenista alla "qualcuno pensi ai bambini!". Forse almeno parte di ciò è dovuto al fatto che l'horror, per sua stessa definizione, ci pone davanti quello che non vogliamo vedere. Ci costringe ad affrontare gli aspetti peggiori dell'umanità, quelli che fingiamo non esistano, lo sporco che nascondiamo sotto al tappeto. Compito del cinema di genere, a mio parere, è quello di raccontare la modernità attraverso di esso, e l'horror, proprio per la sua natura morbosa al limite del voyeurismo (per citare un certo signore che ne sapeva qualcosa, Alfred Hitchcock) molto spesso è quello che meglio si presta a tutto ciò. Magari sarà un caso, ma l'anno considerato cardine per lo sviluppo dell'horror moderno è quel 1968 noto a tutti per i cambiamenti culturali e sociali di cui è diventato simbolo. È l'anno culmine delle proteste studentesche, delle marce per i diritti civili, delle lotte per l'emancipazione, delle proteste antimilitariste.
Ma è anche l'anno in cui il pubblico occidentale, grazie a Roman Polanski e al suo
Rosemary's Baby
, apprende che il male può celarsi all'interno del proprio vicinato per bene e borghese. È l'anno in cui un giovane immigrato cubano sbatte in faccia agli americani le loro più grandi colpe mascherandole da zombie movie: sto parlando naturalmente di George A. Romero e di La notte dei morti viventi.
George A. Romero
Cult movie
per eccellenza, il film che ha inventato lo zombie moderno è frutto dell'unione di
otto squattrinati che, spinti dalla passione, mettono insieme una cifra risicata (114.000 dollari), girano in bianco e nero per convenienza, riciclano le musiche da altri film, si occupano in prima persona tanto della produzione quanto della sceneggiatura, del trucco e del montaggio e così facendo scrivono la storia del cinema.

Come ho accennato, lo zombie, non più legato alla dimensione voodoo caraibica ma qui giustificato senza troppi pensieri da fantomatiche radiazioni diffuse da una sonda della NASA tornata da Venere, viene inserito all'interno della società moderna, di cui diventa specchio e minaccia allo stesso tempo. Romero, insomma, si inserisce perfettamente nella logica caustica e straniante della Nuova Hollywood, e pensare che questo sia solo il suo primo tentativo alla sua inconfondibile critica orrorifica all'America consumista è a dir poco sorprendente.
Innanzitutto, il protagonista è un ragazzo nero, elemento ancora più significativo se pensiamo che in fase di sceneggiatura non era stato pensato come tale: l'attore Duane Jones, a detta di Romero, è stato scelto perché, semplicemente, il suo era stato il provino migliore. Questo aspetto, in relazione al finale, è forse il più decisivo, quello che più dà sostanza all'intera pellicola.
Ma ovviamente la grandezza del film non sta solo nel finale: l''introduzione magistrale col primo attacco delle creature ai danni di una coppia borghese di fratello e sorella in visita al padre al cimitero, la tensione insostenibile tra un gruppo eterogeneo di persone costrette a convivere in pochi metri quadrati (qualcuno ha detto “allegoria calzante”?), per non parlare della figlioletta dei due
redneck tramutata a sua volta in zombie, o gli arti senza vita che tentano di afferrare i protagonisti nel loro giogo mortale attraverso le fessure di porte e imposte barricate, sicuramente una delle scene più iconiche ed emulate nella storia di questo filone. La modernità dell'opera prima di Romero è intaccata esclusivamente dalla trattazione ancora stereotipica dei personaggi femminili, poco attivi e funzionali all'azione, e dal doppiaggio italiano, con una qualità audio che tradisce l'umile distribuzione del film, uscito in sordina inizialmente ma diventato nel giro di pochi anni una vera e propria icona.

Il protagonista Duane Jones
Ed infine, arrivati all'ultima scena, quel colpo di coda improvviso cancella dallo spettatore
qualunque speranza di redenzione, lasciandolo con una domanda a cui, ed è questa la cosa più inquietante, in realtà sa benissimo la risposta. Risposta lasciata non alle parole, ma alle immagini, letteralmente: una serie di fermi immagine ci conferma che quello che abbiamo visto è accaduto davvero, e nel 2021, con la brutalità della polizia, l'ascesa delle idee estremiste e la diffusione (o forse, a voler essere precisi, l'accettazione) sempre più massiccia della discriminazione di qualunque tipo, appare drammaticamente chiaro che se
La notte dei morti viventi fa paura ancora oggi forse c'è un motivo che va ben oltre lo splatter. E credetemi, le chiavi di lettura non finiscono qui.

Nel caso non si fosse capito, stiamo parlando di un autentico capolavoro, che nessun amante dell'horror dovrebbe farsi sfuggire. Tra l'altro, per un errore dei distributori dell'epoca, il film è di dominio pubblico, ed è pertanto facilmente rintracciabile in rete. Dunque non avete più scuse, fatevi un favore e guardate e riguardate questa perla più volte che potete!


Dati tecnici


Regia: George A. Romero

Anno: 1968

Casa di produzione: Image Ten

Paese di produzione: Stati Uniti d'America

Fotografia: George A. Romero, Joseph Unitas

mercoledì 14 luglio 2021

I 30 ANNI DI POINT BREAK

"Noi ci battiamo contro il sistema, quel sistema che uccide lo spirito dell'uomo. Noi siamo l'esempio per quei morti viventi che strisciano sulle autostrade nelle loro infuocate bare di metallo, noi dimostriamo con la nostra opera che lo spirito dell'uomo è ancora vivo."

Ieri abbiamo parlato di The Abyss, per cui oggi mi sembra giusto parlare di un altro cult, stavolta degli anni '90: Point Break. Perché? Per vari motivi.

Innanzitutto, perché in questi giorni ricorre il trentesimo anniversario della sua uscita nelle sale, per cui l'occasione di rispolverare questa perla era troppo ghiotta per non coglierla; secondo, perché mentre The Abyss è un film di James Cameron questo Point Break porta invece la firma di Kathryn Bygelow, ai tempi moglie dello stesso Cameron, il quale ha anche prodotto il film. Ma c'è anche un terzo motivo, molto più banale ma non meno significativo: questo film è semplicemente una bomba che dovrebbe essere visionata da tutti. Ma andiamo con ordine.


Nell'assolata California dei primi anni '90 il giovane agente dell'FBI Johnny Utah (ditemi se già il nome non è iconico) viene incaricato di indagare su una banda di rapinatori che sta svaligiando le banche della contea di Los Angeles: il suo compito è infiltrarsi all'interno di un gruppo di surfisti, sospettati di celarsi dietro le maschere dei presidenti americani che i rapinatori usano per non farsi riconoscere, ma presto si innamora di Tyler, spirito libero all'apparenza troppo distante da lui. Seguiranno rapine, inseguimenti, ostaggi, sparatorie e tutto ciò che ci si aspetterebbe da un normale poliziesco.

Kathryn Bigelow

Cosa rende, dunque, questo film migliore e unico rispetto agli altri migliaia di film d'azione americani del periodo? Per prima cosa, la tecnica è magistrale: la Bygelow, reduce dal già ottimo ma poco ricordato Blue Steel, supera se stessa, girando con una mano impressionante una sequela di scene rimaste nell'immaginario collettivo: come dimenticare l'inseguimento fra Johnny Utah (un Keanu Reeves come sempre inespressivo ma fortemente voluto dalla regista) e Bodhi, il guru del surf diventato fuorilegge interpretato da un magnifico Patrick Swayze? O la scena dell'elicottero e dei paracadute, forse il più alto momento di tensione del film. O, ancora, gli exploit del cinico veterano dell'FBI e del Vietnam Angelo Pappas (un irresistibile Gary Busey), che disintegra a parole il classico superiore ligio alle regole, che riconoscerete sicuramente come John C. McGinley, il mitico dottor Cox di Scrubs.


Ma non sono solo interpretazioni, regia e montaggio perfetti a rendere unico questo film: è lo spirito, la filosofia del surf che permea l'intera pellicola e che partendo da un gruppo di hippy scalmanati riesce a conquistare anche l'insospettabile Johnny grazie al carismatico leader Bodhi. Non a caso il suo nome è diminutivo di “Bodhisattva”, termine che nel buddhismo indica chi ha raggiunto l'illuminazione ma sceglie di non raggiungere il nirvana per poter restare tra le persone aiutandole a raggiungerlo anche loro: un po' come lo stesso Bodhi, diventato rapinatore più per esigenze spirituali che economiche, che riesce a convertire Johnny (e forse, ammettiamolo, anche noi stessi) al suo stile di vita votato alla libertà, perfettamente simboleggiato dalla splendida vastità dell'oceano e che renderà il magnifico finale ancora più emozionante e significativo.


Tutti questi elementi rendono
Point Break molto più che un semplice film action: si tratta di un percorso, che tra scene d'azione mozzafiato, una fotografia che catapulta lo spettatore nella calda estate californiana e dialoghi brillanti e profondi non può che consegnare questo film alla leggenda. Si tratta semplicemente di uno dei più grandi film d'azione degli anni '90, che l'arrivo dell'estate e il trentesimo anniversario ci danno occasione di rivedere per l'ennesima volta, sognando la California, come direbbero i Dik Dik.
Dunque godetevi l'estate e inseguite anche voi la vostra “grande onda”!


Dati tecnici


Regia: Kathryn Bigelow
Anno: 1991
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Casa di produzione: 20th Century Fox
Fotografia: Donald Peterman
Musiche: Mark Isham

THE ABYSS, DI JAMES CAMERON


Sotto le spoglie di un blockbuster fantascientifico/catastrofico si nasconde il film più politico di James Cameron, un autore la cui importanza non sarà mai abbastanza celebrata. Guardando ogni suo film, da Terminator ad Avatar, si può notare facilmente l'impatto che hanno avuto sull'intero cinema d'intrattenimento dagli anni '80 fino ad oggi. Ma The Abyss è anche e soprattutto un testamento dell'enorme avanzamento tecnologico che il regista canadese apporta con ogni suo lavoro: frutto di una delle produzioni più travagliate e costose della storia del cinema (si parla di 70 milioni di budget, anche se la somma effettiva rimane avvolta nel mistero), la storia di questo gruppo di operai subacquei (guidati da Ed Harris e una bravissima quanto sottovalutata Mary Elizabeth Mastrantonio) che mentre svolgono il loro lavoro di estrazione di petrolio si ritrovano in un incontro ravvicinato con creature aliene residenti nel fondo dell'oceano è messa in scena da Cameron con una maestria e lucidità spaventose. Le scene sott'acqua furono girate in giganteschi container per reattori nucleari profondi circa 17 m per 28.000 metri cubi d'acqua, il fluido sperimentale che permette ai nostri di respirare a lungo sott'acqua è un vero fluido sperimentale funzionante (la scena del topo è al 100% autentica) e gli effetti speciali sperimentarono con l'allora nuovissima tecnologia morphing, grazie al prezioso apporto della Industrial Light & Magic di George Lucas, la stessa tecnologia che due anni dopo avrebbe portato Cameron a risultati miracolosi in Terminator 2.
James Cameron

Ma The Abyss è molto più che tecnologia e incidenti sul set (come allagamenti vari ed Ed Harris che per poco non rischiò di soffocare): è una parabola pseudoscientifica e umanistica di matrice quasi spielberghiana, ma che contiene tutti gli elementi di critica che Cameron ha sempre inserito nei suoi film. La cupidigia delle multinazionali, pronte a sacrificare vite e addirittura la pace mondiale per i propri sporchi motivi, l'odio per qualsiasi forma di guerra e arma atomica e la comprensione e l'accettazione di ogni forma di vita, non importa quanto diversa da noi. In questo caso si parla di alieni che vivono in realtà da secoli nel fondo dell'oceano, in armonia con la Terra stessa, e che decidono di rivelarsi al tipico gruppo composito di personaggi non troppo caratterizzati ma tutti immediatamente identificabili (altro elemento tipico del cinema di Cameron) per un motivo che non svelerò per evitare spoiler. Vi basti sapere che il film uscì nel 1989, tre mesi prima della caduta del muro di Berlino e quindi della fine della Guerra Fredda. A proposito: proprio per il lieve ritardo sulla tabella di marcia, la versione uscita nelle sale vide la rimozione di tutte le scene che facevano cenno alla situazione politica dell'epoca, privando l'opera di quelle implicazioni che, a parer mio, rappresentano la sua linfa vitale. Fortunatamente, come pure fu per il lavoro precedente del regista, quell'altro filmetto di poco conto che è Aliens, esiste una versione director's cut con quasi 30 minuti in più, che è quella che consiglio indubbiamente. Insomma, The Abyss è una gioia per gli occhi, un cult degli anni '80, un'opera letteralmente fantascientifica sia a livello di genere che di tecnica e un monito antimilitarista e antinucleare che, a dispetto di cosa potessero pensare i produttori all'epoca, è sempre attuale e mai banale nelle pellicole del buon James. No, nemmeno in Avatar, ma di quello magari parlerò un'altra volta.


Insomma, se potete sparatevi questo film e, se riuscirete a guardare oltre le musiche a tratti un po' troppo pompose, opera di Alan Silvestri, e alla durata forse leggermente eccessiva, resterete a bocca aperta.

Dati tecnici

Regia: James Cameron
Anno: 1989
Casa di produzione: 20th Century Fox
Paese: Stati Uniti d'America
Direttore della fotografia: Mikael Salomon
Musiche: Alan Silvestri

Premi

  • Oscar ai miglior effetti speciali 1990