E rieccoci qui. Un anno dopo, come sempre, a stilare l'immancabile lista (è bene ribadire: NON classifica) dei migliori film dell'anno appena trascorso. È sempre una sfida per me, ogni anno, sedersi e mettersi a scrivere questo articolo, motivo per il quale quest'anno ho particolarmente tardato a pubblicarla. C'è un certo grado di pressione e anche un minimo di responsabilità nello scegliere le uscite più meritevoli di un intero anno cinematografico. Il 2024, poi, è stato particolarmente interessante dal punto di vista della settima arte, tra grandi ritorni, sorprese e anche un certo numero di delusioni.
Come al solito, però, il rimpianto maggiore è per tutti quei film che mi sono perso, per un motivo o per l'altro, e che quindi non posso includere in questa lista, titoli che sono stati sulla bocca di tutti i cinefili per mesi ma che purtroppo non sono riuscito (ancora) a vedere. Mi sembra d'uopo, dunque, fare delle menzioni onorevoli per tutti quei film che vi aspettereste probabilmente di vedere ivi inclusi ma che non troverete per questo specifico motivo: niente The Substance, Longlegs, Anora, Caracas, Godzilla Minus One, Vermiglio, Maxxxine... È anche il caso di ricordare che, come al solito, considererò anche pellicole uscite tecnicamente nel 2023 ma arrivate in Italia solo a partire da gennaio, o anche quelle arrivate nel nostro Paese negli ultimissimi mesi del 2023, a mo' di strascico dell'anno precedente.
E ora che i soliti, noiosi preamboli sono stati fatti, buttiamoci a capofitto nel mio annuale tentativo di imitare i Cahièrs du Cinéma, ovviamente con risultati ridicoli. Cominciamo!
Povere creature, di Yorgos Lanthimos
E perché non iniziare proprio da uno dei film del 2023 distribuiti nei nostri circuiti a inizio 2024? Trionfatore all'80esima Mostra internazionale del cinema di Venezia e anche agli Oscar (quattro statuette su undici candidature), Povere creature è stato il graditissimo ritorno di uno degli artisti europei più ispirati degli ultimi anni: il greco Yorgos Lanthimos, già beniamino della critica (e di me stesso) grazie a capolavori dello straniamento come Il sacrificio del cervo sacro o The Lobster, sembra aver ormai messo da parte il voto alla sobrietà delle sue prime opere, come il magistrale Dogtooth, per abbracciare appieno quell'opulenza dei sensi che aveva già impreziosito il suo precedente La favorita.
Pur smaccatamente circondato dallo sfarzo di costumi e scenografie, esaltati dalla grande fotografia di Robbie Ryan e dalla regia di un Lanthimos forse al suo apice di composizione visiva, Povere creature non perde nemmeno per un istante il focus di ciò che vuole raccontare: il percorso di nascita e crescita di Bella Baxter (forse la miglior Emma Stone mai vista finora), figlio di un ricercato e accurato intento shelleyano, è raccontato attraverso il suo svilupparsi in fasi psicologiche, geografiche e fisiche, che come unico possibile traguardo non possono che avere l'autoconsapevolezza definitiva, la quale trova realizzazione nell'emancipazione e nell'autodeterminazione.
Tra location esotiche iper-estetizzate, scene di sesso mostrate con nonchalance, quadri su pellicola di straordinaria varietà, personaggi ritratti con la solita disarmante sincerità, che arrivano in alcuni casi al patetismo, Povere creature, trasposizione dell'omonimo libro di Alasdair Gray, dipinge una grottesca versione steampunk della società vittoriana che fa da sfondo a una riflessione sull'individualismo, sulla crescita, sulla sessualità come scoperta di se stessi, sull'autodeterminazione, sull'affermazione della propria indipendenza (chiaramente, della donna in particolare) dalle gabbie sociali e culturali che ci costruiscono e ci costruiamo attorno.
Lanthimos firma forse il suo film migliore, o perlomeno quello che ho più apprezzato, un esaltante mix di suggestioni più o meno esplicite (Mary Shelley e Metropolis le più palesi) confezionato perfettamente, non solo dal punto di vista visivo ma anche grazie alle eccezionali musiche di Jerstin Fendrix, stralunate e meravigliosamente dissonanti, inscindibile completamento di questo capolavoro del grottesco che, tra l'altro, riconferma attori come Emma Stone e Willem Dafoe tra i migliori al mondo. Semplicemente ammaliante.
Beetlejuice Beetlejuice, di Tim Burton
Più di due anni fa, recensii su questo blog uno dei miei film preferiti di Tim Burton, quel Beetlejuice che nel 1988 rivoluzionò il panorama della commedia fantasy con la sua esplosiva mistura di kitsch, pop, dark e glam, lasciando un segno indelebile nell'immaginario collettivo orrorifico/soprannaturale con qualcosa che raramente si era visto prima, per lo meno in veste di commedia per il grande pubblico.
Ebbene, il 2024 ha visto il ritorno sul grande schermo del vecchio Tim proprio con un sequel di Beetlejuice, che ovviamente non potevo esimermi da inserire tra i migliori dell'anno.
Le perplessità, per quanto mi riguarda, non mancavano di certo: come sempre più spesso vediamo accadere, si tratta di un sequel uscito a decenni di distanza dall'originale, da un regista che mancava dalla sala da 5 anni e i cui ultimi lavori non mi avevano certo fatto gridare al capolavoro, menomati dal soffocamento della poetica dell'autore sotto budget colossali e obbedienze forse troppo cieche alle esigenze delle grandi major che li hanno prodotti.
Ma partiamo da una semplice definizione: Beetlejuice e il suo seguito sono a tutti gli effetti cinema d'autore. La prima lezione che la ventesima pellicola del maestro di Burbank ci insegna è vecchia, scontata e ridondante, eppure ancora oggi necessaria: autorialità e genere non sono due entità separate, sono anzi due anime della stessa arte che non potrebbero esistere l'una senza l'altra e che quando si incontrano danno vita alle migliori espressioni di cinema. E raramente questa verità è stata meglio dimostrata che in questo ispiratissimo sequel, ben lungi dall'essere l'ennesima auto-cannibalizzazione nostalgica, quanto più che altro una decisa e aggressiva dichiarazione di autoaffermazione da parte di un autore (ribadiamolo) finalmente privo di restrizioni, che riesuma, ed è proprio il caso di dirlo, una delle sue opere più fondative per riapplicarla ai tempi odierni, estremamente diversi da quelli del 1988.
Ma non fraintendete: questa profanazione della tomba degli anni '80 non è votata a una sterile e morbosa necrofilia, tutt'altro; perché la seconda lezione che apprendiamo è che il Burton riesumato non ha perso un'oncia della vitalità che ha caratterizzato i suoi lavori migliori. Tutto ciò che, consapevolmente o meno, ci ha sempre fatto amare il Burton artista si dimostra qui più immortale che mai, ed ecco che Mario Bava, la musica, pop, il gotico, l'Espressionismo, i bellicosi scontri generazionali si applicano perfettamente e sorprendentemente anche al 2024 d.C., in un modo che solo qualcuno con una visione decisa e incorrotta può orchestrare.
Il fan-service è senz'altro presente, come del resto è inevitabile, e il vecchio Tim gestisce alla perfezione anche questo, tra citazioni non solo al primo Beetlejuice, tutte perfettamente contestualizzate e mai fini a se stesse, ma anche ad altri capitoli della sua filmografia e ad altri maestri che solo un vero amante della Settima Arte potrà riconoscere, apprezzare e godersi appieno (impossibile non citare in particolare un sentitissimo omaggio a un grande maestro italiano di cui non farò il nome). Piccole chicche che rendono ancora più gradevole la fruizione di un'opera d'arte, perché questo è, che non vive in funzione del capolavoro che l'ha preceduto, ma che si regge in tutta la sua grandiosità visiva, narrativa e sotto-narrativa, riprendendo vecchi temi mentre ne sviluppa altri, nuovi, adatti sia a questi personaggi invecchiati e non completamente identici a quelli che conoscevamo, sia a quelli nuovi, attuali, specchio di nuove generazioni che Burton tratteggia al tempo stesso con una dolcezza e una cattiveria talmente ispirate da sembrare quasi inconcepibili per un regista di 66 anni.
La sceneggiatura è di Alfred Gough e Miles Millar, già con Burton al timone della chiacchieratissima serie Mercoledì, ed è un perfetto punto di partenza per la lucida follia di un Burton più giovane che mai, tra soluzioni registiche e di fotografia che restano impresse nelle retine dello spettatore esattamente come fu per quelle di Edward mani di forbice, Ed Wood o Batman Returns, quest'ultimo unico altro sequel diretto da Burton e, anche questo, tra i migliori e più rappresentativi esponenti della sua arte. Ed anche gli interpreti sono eccellenti, dalle redivive Winona Ryder e Catherine O'Hara alle new entry Monica Bellucci, Jenna Ortega e Justin Theroux, calati con naturalezza in personaggi non solo coerenti all'interno del mondo che conoscevamo e che qui ritroviamo, ma coerenti con l'impronta visiva e filosofica del regista in generale; Delores, Astrid e Rory potrebbero essere di casa in qualsiasi produzione burtoniana dei suoi anni d'oro, con la loro presenza scenica, le loro idiosincrasie, le loro forze e debolezze; sono anche loro delle meravigliose contraddizioni, riflesso di quella gigantesca contraddizione che è il nostro mondo e che il nostro Burton non si stanca mai di sottolineare.
Farei un grande torto a Michael Keaton se non citassi il suo sfavillante ritorno nei panni del demone che dà il titolo al film, anche se suona quasi superfluo: cosa si può dire su un grande interprete come Keaton che riprende quello che è probabilmente il ruolo più iconico della sua carriera? Immagino che il miglior complimento che potrei fargli sia questo: dimenticate lo stanco e pietoso "Batman" ripreso per The Flash di Andy Muschietti, quello a cui assistiamo qui è un Keaton completamente all'opposto, vibrante ed estroso come non mai. È il Beetlejuice che conosciamo, né più né meno, e il meraviglioso climax nel terzo atto del film ne è l'inconfutabile dimostrazione.
Beetlejuice Beetlejuice non è solo un ottimo sequel, il che sarebbe già un risultato più che notevole di questi tempi, è molto, molto di più. È un'opera di grande ispirazione scenica, narrativa e musicale, ed è soprattutto una grande eredità. Un'eredità di un artista ancora in attività e che si spera (almeno da parte mia) resti in attività ancora per molto tempo, un artista che si presenta in questo momento storico con una perfetta sintesi del suo cinema, un cinema che da oltre quarant'anni è manifesto di creatività, vivacità e amore per tutto ciò che è strano e oscuro.
Quello di Tim Burton è stato decisamente il ritorno per me più gradito dell'anno, e noi reietti siamo pronti a seguirlo di nuovo.
Civil War, di Alex Garland
Altro grande ritorno è quello di Alex Garland, già fautore di uno dei migliori horror del 2022 con Men (che non inclusi nella classifica di quell'anno perché... non l'avevo ancora visto). Civil War è probabilmente la sua opera più politica, almeno tra quelle da lui dirette; non dimentichiamoci infatti che il regista inglese aveva esordito come sceneggiatore per uno dei migliori film di zombi di sempre, quel 28 giorni dopo che nel 2002 aveva riportato l'attenzione delle masse a quello che è probabilmente il filone orrorifico più storicamente fertile di sottotesti e riflessioni sulla società, ancora prima che il grande Edgar Wright firmasse un'altra pietra miliare del genere con il suo comico (ma non parodistico) L'alba dei morti dementi.
In Civil War l'orrore è quello della guerra, quello a cui assistiamo tutti i giorni al telegiornale e che non possiamo fermare da soli, e che proprio per questo risulta molto più terrorizzante di qualsiasi mostro o serial killer che possiamo vedere sul grande schermo. I protagonisti sono, non a caso, dei giornalisti, tra cui una fotografa di guerra (Kirsten Dunst) con anni di esperienza sul campo, che compiono un viaggio verso Wahsington D.C. per documentare una sanguinosa guerra civile che ha diviso gli Stati Uniti in varie, bellicose fazioni in costante lotta tra di loro.
Garland, come spesso accade, è avaro di spiegazioni, e non sono completamente chiare le motivazioni che hanno portato alla drammatica situazione dipinta nel film. Ma il punto, sembra volerci dire l'autore, è che non importa realmente.
Il film si guarda bene dal tracciare una linea netta tra buoni e cattivi, e la sensazione che si ha per tutta la pellicola è che gli Stati Uniti narrati dall'inglese Garland siano in guerra esclusivamente contro loro stessi, e non solo nel senso superficiale della guerra civile: quella che sobriamente viene suggerita è in realtà una probabile deriva della società statunitense attuale tra qualche anno, una distopia resa spaventosamente realistica dalla sempre più radicata diffusione delle armi, ombra di un patriottismo degenerato e nazionalista che nessun governo, repubblicano o democratico, ha mai realmente contribuito a estirpare.
Le assurde carneficine tra civili brutalmente mostrate nel film, la miseria, la devastazione, potrebbero essere un commento tanto sull'amministrazione Trump quanto su quella Biden, Obama, Bush ecc., nessuno escluso.
Gli stimoli intellettuali sono talmente tanti e interessanti che non basterebbero dieci visioni ad elaborarli tutti, ed è proprio questa profondità che rende imperdibile ogni opera di Alex Garland, compreso quell'Annientamento che personalmente non mi ha mai convinto troppo (urge decisamente rewatch). Garland ha dichiarato la volontà di abbandonare la macchina da presa dopo il prossimo Warfare, altro film sulla guerra co-prodotto dalla A24, e la speranza, da parte mia, è che cambi idea, visto che anche solo questo Civil War è stato senza dubbio uno dei titoli più rappresentativi dell'anno.
Il robot selvaggio, di Chris Sanders
Ah, la DreamWorks... Forse lo studio d'animazione più incostante di sempre. Con l'eccezione dei primissimi anni di grazia, lo studio fondato da Jeffrey Katzenberg si è sempre barcamenato tra prodotti validi e a tratti persino sperimentali e mediocri tentativi di fare facile breccia sul pubblico generale, per lo più infantile. E, fino a qualche anno fa, la sorte di uno studio pieno di potenzialità sembrava essere ormai segnata da quest'ultima tendenza, con sequel sfornati a catena di montaggio alternati a titoli originali spesso dimenticabili e abbassati ai minimi standard per un prodotto vendibile al grande pubblico. Fu proprio questo senso di inerzia e l'ormai perduta fiducia nei confronti dello studio a farmi sottovalutare, corrotto dal pregiudizio, quel Gatto con gli Stivali 2 che nel 2022 lasciò a bocca aperta qualsiasi amante dell'animazione, e che qualche tempo dopo avrebbe fatto ricredere anche me sul futuro dello studio. Poi, insieme ai Trolls 3 e ai Kung Fu Panda 4, ecco spuntare dei piccoli barlumi di speranza come Troppo cattivi (2022) e soprattutto Il robot selvaggio.
Un progetto che aveva rapito la mia curiosità fin dal suo annuncio, specialmente una volta rivelato il nome del regista, quel Chris Sanders che, insieme al socio Dean DeBlois, aveva firmato delle vere perle dell'animazione come Lilo & Stitch per la Disney e la trilogia di Dragon Trainer sempre per la DreamWorks. Tutte pellicole di grande valore, non canoniche e fuori dagli schemi in modi tutti loro.
E in un periodo in cui l'animazione mainstream offre sempre meno spunti e creatività (quest'anno, non a caso, ha visto l'uscita di almeno tre grossi sequel di film d'animazione di successo, tutti altrettanto fortunati al botteghino), Il robot selvaggio è un'oasi di originalità, immaginazione e ricerca artistica.
Basata sul libro illustrato di Peter Brown, l'ultima fatica della DreamWorks dimostra che è ancora possibile trattare temi importanti e difficili in un film per bambini. La nascita, la crescita, la maternità, l'adozione, la necessità di adattarsi e persino la morte sono parte dell'ossatura del racconto, indubbiamente e inevitabilmente ispirato al classico Bambi, ancora oggi tra le opere più essenziali e seminali della storia dell'animazione, e non solo.
L'influenza del classico della Disney si avverte prima di tutto sul piano visivo, con la fauna e la flora della foresta americana come centro dell'azione, ma è la riflessione sulla vita che accomuna maggiormente le due opere, che attraverso le interazioni di un cerbiatto, nel caso della Disney, e di un robot, nel caso della DreamWorks, con quello che li circonda esplora il significato dell'umanità stessa, secondo dinamiche semplici ma mai banali.
Impossibile non citare le ottime musiche di Kris Bowers e il suggestivo comparto visivo, con uno stile a metà tra il 3D e il 2D che, seppur leggermente tenuto a freno rispetto all'estrosissimo Gatto con gli Stivali 2, non lascia troppo rimpiangere la splendida animazione tradizionale che diede vita alle prime storiche produzioni dello studio di Katzenberg a cavallo tra gli anni '90 e 2000, per la quale provo una grande nostalgia.
Fa davvero molto piacere che un'opera inaspettatamente matura come Il robot selvaggio abbia avuto un ottimo successo al botteghino, e la speranza è che uno studio dalle grandi potenzialità come la DreamWorks continui ad alternare le sue tipiche, mere operazioni commerciali a prodotti all'altezza dei grandi talenti che ha a disposizione.
Perfect Days, di Wim Wenders
Sarò sincero con voi: Perfect Days è stato il mio primo film di Wim Wenders, e per quanto sarebbe stato più appropriato avvicinarsi alla sua arte attraverso classici come Alice nella città o Il cielo sopra Berlino, posso sostenere con soddisfazione che il mio primo incontro col cineasta tedesco è stato più che positivo. E come poteva essere altrimenti, con un film come questo?
Prodotta e girata in Giappone (e in lingua giapponese), quest'intensa, delicata parabola sul senso della vita segue la routine di un addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo, che tra un lavoro l'altro riempie le sue giornate coltivando le sue passioni: una vita semplice, in cui i giorni si susseguono apparentemente tutti uguali e le sorprese sono poche, un'esistenza scandita dai ritmi di un lavoro umile e dalle piccole cose che le assicurano leggerezza. La fotografia analogica, la lettura assidua, la musica rock vecchio stile ascoltata con le musicassette: le riservate e timide abitudini di Hirayama (interpretato da un perfetto Kōji Yakusho), raramente perturbate dal mondo esterno, ci ricordano di quanto siano le piccole cose, i piccoli piaceri quotidiani a rendere la vita degna di tale nome e di essere vissuta.
Quella che Wenders ci regala è una ricetta contro l'alienazione, contro la velocità e caoticità di un mondo che ha sempre meno tempo di essere compreso e che abbiamo sempre meno tempo di assaporare. Non a caso, il film è ambientato in una grande metropoli, tra le più frenetiche al mondo, dove il nostro protagonista riesce a condurre la sua pacata esistenza nonostante tutto, immune al cambiamento in costante divenire intorno a lui. Una resistenza al nuovo perfettamente rappresentata dalla colonna sonora, rigorosamente diegetica, quel rock "da papà" a cui Hirayama si abbandona ogni giorno, fruito attraverso un mezzo altrettanto vetusto come le musicassette.
La filosofia di vita del protagonista non è presentata come "perfetta" in sé, bensì coem perfetta per lui, come a rappresentare un promemoria per il pubblico che il segreto per la felicità, molto spesso, si cela dietro le cose che diamo per scontate, apparentemente insignificanti, eppure fondamentali.
Pefect Days non è, suppongo, tra i lavori più degni di nota di Wim Wenders, forse nemmeno tra i più rappresentativi, ma si è rivelato, per un totale neofita come me, un ottimo spunto per iniziare a esplorare la sua filmografia.
E quale miglior merito può avere l'ultima pellicola di un regista attivo da oltre cinquant'anni?
Kinds of Kindness, di Yorgos Lanthimos
Ebbene sì, quest'anno Lanthimos fa doppietta! Dopo il trionfo a Venezia con Povere creature, Kinds of Kindness rappresenta il ritorno dell'autore greco, stavolta nella cornice del Festival di Cannes, al suo stile più asciutto, più astratto, più incomunicabile. Un'opera composta da tre episodi, accomunati quasi esclusivamente da un personaggio identificato come R. M. F., il quale peraltro non ha nemmeno una battuta in tutto il film. Tre episodi assurdi e criptici come le prime opere del regista, prima della sua scoperta da parte del grande pubblico e della critica d'oltreoceano. Tre storie all'insegna del grottesco, ai limiti del comprensibile, imperniate sulle interpretazioni (ispiratissime) di sempre gli stessi attori, che rivestono ruoli diversi in ogni episodio: Emma Stone, Willem Dafoe e Margaret Qualley vengono "riciclati" dal cast di Povere creature e, insieme a Jesse Plemons, danno vita a personaggi imperscrutabili, misteriosi, apparentemente privi di qualsiasi qualità positiva, nonché di qualsiasi aspetto che li renda inequivocabilmente umani.
Il pubblico non ha perdonato a Lanthimos questo brusco ritorno alla sua poetica primigenia, seppur impreziosito come sempre da un comparto tecnico-visivo notevole e dalle musiche di Jerskin Fendrix, e anche la critica non è stata altrettanto generosa come con le sue opere immediatamente precedenti.
Ma se Kind of Kindness ci insegna qualcosa, è che apprezzare Lanthimos vuol dire apprezzarlo anche nei suoi momenti più idiosincratici, non solo nello sfarzo e nell'orgia di temi e sensazioni di Povere creature, ma anche e soprattutto nella semplicità e aridità di opere come questa, forse meno eclatanti ma non per questo meno curate.
Furiosa, di George Miller
Questo prequel sul personaggio più affascinante del precedente film del 2015 si impone a pieno titolo come un vero e proprio capitolo della saga, molto più di una semplice inferiore propaggine che poco aggiunge alla lore di un mondo che già conoscevamo. Tutt'altro.
In un presente in cui sequel, prequel, spin-off e compagnia cantante sono sempre più dei riflessi della crisi d'idee che impera da anni ad Hollywood, un film come Furiosa è un mezzo miracolo, per il modo in cui esplora le origini del personaggio interpretato originariamente da Charlize Theron (e qui da Anya Taylor-Joy, tra i più grandi talenti della sua generazione) ed espande e costruisce su ciò che già conoscevamo, o pensavamo di conoscere.
Niente, tanto sul piano visivo quanto su quello puramente narrativo, fa rimpiangere i capitoli precedenti, l'azione è ancora splendidamente fluida ed esteticamente appagante (al netto di un utilizzo leggermente più invasivo della computergrafica, ridotta al minimo indispensabile in Fury Road). Le musiche, pur non raggiungendo l'epicità adrenalinica di quelle di Junkie XL, fanno il loro ottimo lavoro nell'esaltare la tensione, mentre nel cast, oltre alla Taylor-Joy, spicca un istrionico Chris Hemsworth, nell'ennesima dimostrazione del suo valore al di fuori del Thor marvelliano.
Questa magnifica parentesi su Furiosa, purtroppo un flop al botteghino, è forse la definitiva testimonianza di quanto poco il pubblico odierno si meriti un artista come Miller, che al pari di altri "grandi vecchi" come Cameron, Spielberg o Scott, continua a rappresentare un'oasi di ristoro di cui il cinema d'intrattenimento anglosassone ha sempre più bisogno.
E a proposito di grandi vecchi, questo 2025 segna anche il ritorno di Robert Zemeckis, alle prese con lo sperimentale e interessante Here, che peraltro lo vede tornare a lavorare con Tom Hanks dopo il disastroso remake del Pinocchio disneyano... Facciamoci il segno della croce.
Il ragazzo e l'airone, di Hayao Miyazaki
Il fatto è che stavolta, con Il ragazzo e l'airone (con un titolo originale che si avvicina più a qualcosa come "Scegli la tua vita"), Miyazaki sceglie di aprirsi più di quanto abbia mai fatto: noi spettatori abbiamo il privilegio di osservare i punti salienti della sua vita personale, inevitabili punti cardine della sua vita artistica, svolgersi di fronte a noi, pur sempre mascherati e filtrati da quella miriade di allegorie, simbologie e parallelismi che da sempre sono parte integrante della poetica di uno dei più importanti artisti del cinema orientale, uno dei più compositi, uno dei più autentici.
Mille grazie, Maestro.
Dune - Parte 2, di Denis Villeneuve
Denis Villeneuve, tra i più talentuosi e ispirati autori del genere (e non solo), entra finalmente nel vivo dell'azione in questa parte 2, dopo il lento, intrigante world-building riservato al primo tempo. La visione di uno dei più ambiziosi progetti fantascientifici degli ultimi anni, perlomeno in termini di grande schermo, è finalmente completa, e oltre alla sua ambizione ciò appare chiaro è la sua complessità, la sua cura nei dettagli, nei costumi, negli effetti visivi, nella colonna sonora: tutti elementi che confluiscono accuratamente nella costruzione di una cosmologia complessa e spesso poco tangibile che, grazie alla sapiente mano di Villeneuve, prende vita con risultati che superano ogni più rosea aspettativa.
Pare che un terzo capitolo, che sarà tratto dal secondo libro della saga, Messia di Dune, sia all'orizzonte e, se piove di quel che tuona, sarà un altro evento imperdibile.
Coup de Chance, di Woody Allen
Non posso farci niente, ragazzi. Esce un film Woody Allen, lo metto tra i migliori dell'anno. È praticamente un riflesso incondizionato, sintomo del mio personale amore per uno degli autori più importanti della mia vita, tra quelli che più mi hanno cresciuto e formato nella mia passione per la Settima Arte.
Praticamente impossibilitato sfornare prodotti mediocri (se si tralascia la triste parentesi di To Rome with Love, di cui meno si parla, meglio è), il Maestro di New York continua a cavalcare la sua seconda (o terza?) giovinezza artistica con il suo primo film girato non in lingua inglese.
Già le precedenti, ispiratissime pellicole dell'ultimo decennio, da La ruota delle meraviglie a Rifkin's Festival, passando per il sottovalutato e malinconico Un giorno di pioggia a New York, testimoniavano un ritrovato stato di grazia, merito anche di collaboratori di altissimo livello come Vittorio Storaro, ed è innegabile che rimangano obiettivamente superiori a quest'ultima esperienza francese, in cui comunque il senso di già visto si fa un po' sentire.
Orion e il buio, di Sean Charmatz
Come siamo arrivati a questo? Com'è possibile che lo stesso studio che ha sfornato Trolls e Baby Boss nel giro di un anno, abbia inanellato ben due filmoni entro lo stesso periodo di un anno solare?
Eppure, è esattamente quello che è successo, ed è la mente geniale dietro alcuni degli script più originali e innovativi degli ultimi trent'anni, come Essere John Malkovich e Eternal Sunshine of a Spotless Mind, a firmare quest'adattamento del libro illustrato omonimo di Emma Yarlett.
Charmatz e Kaufman sembrano seguire l'antica lezione di Walt Disney, accompagnando il bambino per mano ma allo stesso tempo mettendolo davanti a situazioni emotivamente più complesse, spaventandolo e mettendolo in dubbio quando serve; la morale e il lieto fine passano attraverso le difficoltà e i momenti cupi, e nonostante si parli letteralmente (ma non solo) di luci e ombre, niente e nessuno è mai completamente bianco o completamente nero.
E proprio quando ci sembra di aver decifrato la formula narrativa e di aver compreso dove il film ci sta portando, ecco che la sceneggiatura prende la forma inconfondibile, ma mai prevedibile, dei migliori lavori di Kaufman.
Orion e il buio non è altro che una grande, necessaria dimostrazione dell'enorme potenziale dell'animazione, una tecnica e non un genere, né tantomeno un target.
La zona d'interesse, di Jonathan Glazer
A riuscire in un'impresa del genere è Jonathan Glazer, autore britannico già dietro la macchina da presa per cult come Sexy Beast e Under the Skin (quest'ultimo una sofisticatissima ed ermetica fantascienza con Scarlett Johnasson) e per videoclip tra i più riusciti della storia della musica (uno su tutti, il meraviglioso video di Karma Police dei Radiohead). Per l'occasione, il regista si affida all'infallibile A24 e si sposta in Polonia per la sua anticonvenzionale rappresentazione del genocidio ebraico da parte del regime nazista: piuttosto che indugiare sul patetismo, la clinica regia di Glazer si concentra la vita quotidiana di una famiglia di nazisti, il cui capofamiglia si dà il caso essere il supervisore del campo di concentramento di Auschiwitz, Rudolf Höß, tratteggiando la propria tranquilla esistenza nella loro ben curata villa confinante col campo.
Proprio in funzione di ciò, è quello che non vediamo a scioccarci di più, unito alla frivolezza e alla tranquillità che possono coesistere fianco a fianco coi loro esatti opposti, al paradiso che coesiste fianco a fianco con l'inferno.
Giurato numero 2, di Clint Eastwood
Ispirandosi a La parola ai giurati, il classico di Sidney Lumet del 1957 che ha perfezionato il court drama, Eastwood mette in scena un dramma legale ed etico, costruito su una sceneggiatura di ferro che aggiorna ai nostri tempi i dilemmi morali sollevati illo tempore dal capolavoro di Lumet. I classici, contorti temi sociali messi in scena da film di questo tipo assumono stavolta una piega nettamente più umana che meramente legale, come riflesso in maniera impeccabile anche dalle perfette interpretazioni dell'infallibile Toni Colette, di J. K. Simmons, di Zoey Deutsch e soprattutto di un clamoroso Nicholas Hoult (che quest'anno, peraltro, ha inanellato un altro grande ruolo da prptagonista con il Nosferatu di Robert Eggers, ma di questo ne parleremo l'anno prossimo...).
Megalopolis, di Francis Ford Coppola
Chiudiamo la lista con quello che è probabilmente il film più controverso dell'anno.
A dire il vero, attualmente è forse Emilia Pérez a potersi fregiare di questo poco lusinghiero titolo, anche se più che "controverso" l'aggettivo che meglio si confà all'ultima fatica di Jacques Audiard pluricandidata agli Oscar è "odiato", e non senza giusto merito aggiungerei.
Ma non è di quel disastro che stiamo per parlare, bensì di Megalopolis. Uno di quei film da cui non si può scappare.
Che si ami o si odi, l'ultimo sforzo dell'ottantacinquenne Francis Ford Coppola è una di quelle entità pachidermiche e polarizzanti talmente fuori dall'ordinario da essere impossibili da ignorare, una di quelle bestie rare che nel safari della cinematografia si avvistano raramente.
Le sue caratteristiche lo rendono una specie incredibilmente affascinante: un progetto personale di uno degli autori più importanti della storia del cinema, scritto, diretto e prodotto dalla stessa persona che ne ha portato avanti il concepimento tra mille vicissitudini per oltre 40 anni, osteggiato da ogni grande casa di produzione e da ogni logica e portato a termine con un budget mastodontico messo insieme solo grazie alla determinazione del regista che ha finanziato la sua visione di tasca propria, vendendo persino parte della sua amata azienda vinicola pur di portare a termine il progetto di una vita. In altre parole, un epico trionfo dell'arte sull'inamovibilità del tempo e delle avversità, oppure un imbarazzante fallimento di proporzioni bibliche, senza alcuna possibilità di mezzi termini.
E in un'epoca, poi, in cui la grande potenzialità di internet riduce spesso le argomentazioni a piatte e sterili sentenze virate ad un estremo o ad un altro, una bestia come Megalopolis non può che infuocare gli animi, in sensi diametralmente opposti dello spettro del gradimento.
Il sottoscritto, da umile recensore della domenica, non può certo accollarsi il basto di decretare quale parte ha ragione e quale no, se questo nuovo agnello sacrificale delle masse cinefile sia oggettivamente grandioso o indiscutibilmente aberrante.
L'unica cosa in mio potere è limitarmi a sottolineare l'ovvio, ovvero come la regia di Coppola, le scenografie, i costumi, la fotografia, il montaggio, le interpretazioni siano tutte di livello altissimo, come tutti questi elementi contribuiscano alla costruzione di un mondo e della "fiaba" (così viene chiamata fin dall'inizio del film) concepita dal suo autore, della grande allegoria portata avanti per quasi due ore e mezza.
L'epopea di questi personaggi dai nomi molto familiari, specialmente per gli
spettatori europei e ancor più specialmente per gli spettatori italiani (Catilina, Cicero, Crasso), si svolge non a caso nella distopica megalopoli di Nuova Roma, centro di un impero a metà tra l'idealizzazione del sogno Americano e l'opulenza dell'Antica Roma, due facce della stessa medaglia secondo il regista, due volti dello stesso male che risponde al nome di edonismo.
Una fiaba che ha un che di Esopo, dunque, o di Fedro, una storia che ha una morale piuttosto chiara, ma tutt'altro che semplicistica: l'ambizione, il potere, l'avidità, l'aspirazione a uno status divino e immortale portano paradossalmente l'uomo all'estinzione, all'annullamento di sé, al fallimento in quanto essere umano.
Tutte le altre implicazioni, sottotrame e metafore lascio a voi lettori il piacere di scoprirle. Perché, ed è questo il messaggio che più ci tengo a trasmettere, Megalopolis è un'opera assolutamente da vedere, e da vedere rigorosamente sul grande schermo, a dispetto di qualunque cosa possano dirvi le recensioni su Letterboxd o le candidature ai Razzie. Per quanti possano essere i suoi difetti, che a mio parere si riducono fondamentalmente a una mera questione di gusti personali e poco altro, perdersi un'opera d'arte come questa, creata con così tanta fatica da un artista così ispirato, sarebbe un crimine contro voi stessi.
Megalopolis è un film difficile, lungo, sovraccarico di dialoghi, personaggi e simbologie... ed è esattamente questo che lo rende un'esperienza unica.
La discussione sull'ultima opera di Francis Ford Coppola durerà probabilmente per anni, forse per decenni. Se sarà ricordato come un Quarto potere o come un I cancelli del cielo, sarà il tempo a dirlo. In ogni caso, sarà ricordato come un grande film.
Si chiude qui la mia rassegna annuale dei migliori film dell'anno (secondo me). Un anno che per quanto mi riguarda ha riservato molte sorprese positive e poche delusioni, e che mi ha lasciato anche molta roba da recuperare nel corso del 2025, che, chissà, potrebbe anche finire nella lista dell'anno prossimo.
Vi do appuntamento dunque al prossimo articolo, che spero arrivi non troppo tardi.
A presto, e come sempre: w il cinema!
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