venerdì 18 luglio 2025

SUPERMAN, DI JAMES GUNN

È un aereo? È un uccello? È il primo film su Superman decente in oltre quarant'anni?
Personalmente, mi sento di dire di sì.

Superman
di James Gunn è una specie di miracolo, in tempi in cui le più note e discusse (sia positivamente che negativamente) trasposizioni del supereroe più famoso e importante al mondo sono state L'uomo d'acciaio e Justice League.
Abbiamo vissuto in tempi oscuri, in cui l'ego e il delirio di onnipotenza del tiranno malvagio Zack Snyder hanno offuscato il cielo e le speranze di vedere una trasposizione di Supes sul grande schermo che fosse fedele allo spirito del personaggio creato da Jerry Siegel e Joe Shuster ormai quasi 90 anni fa.
Si potrebbero passare ore ed ore ad elencare i crimini contro il cinema e contro la credibilità del media fumetto compiuti dalla Warner negli ultimi 15 anni, anche perché eccedono i semplici confini della travagliata gestione dei personaggi DC, ma non è quello che faremo oggi. 
Perché oggi, per una volta, è un giorno in cui possiamo gioire. Oggi è il giorno in cui finalmente sia l'amante del fumetto supereroistico, sia il cinefilo possono guardare al cielo e non vedere una desolante distesa di CGI dozzinale, color correction da video dei My Chemical Romance e fotografia virata sul grigio.
No. A partire dal 9 luglio, il mondo del cinema ha finalmente un Superman degno di tale nome, un nome sempre più svalutato negli anni ma che porta su di sé decenni di storia, mitologia, influenza e rilevanza nella cultura pop che pochi altri supereroi possono vantare.

James Gunn, già pupillo della Troma di Lloyd Kaufman e adesso riconosciuto re Mida del cinema d'intrattenimento, non è nuovo a miracoli del genere.
Suo è il merito di aver diffuso presso il grandissimo pubblico personaggi di nicchia del fumetto Marvel come i Guardiani della Galassia, protagonisti di una trilogia tra le più riuscite degli ultimi vent'anni e picco indiscusso del Marvel Cinematic Universe, progetto sempre più in decadenza (la parte cinica di me esclama "finalmente!") e risollevato occasionalmente proprio dai tre capitoli su Starlord e compagnia.
Ma l'impresa che è riuscito a compiere con questo Superman è di tutt'altra pasta.
A differenza dei Guardiani, il figlio di Krypton è letteralmente uno dei simboli più diffusi e riconoscibili dell'intera cultura pop: il suo simbolo, quella S rossa su sfondo blu, è comparso in pubblicità, tatuaggi, merchandise, magliette; si parla del primo, più importante e più potente supereroe di tutti i tempi, del letterale emblema della DC Comics e, che lo si ami o lo si odi, del personaggio che rappresenta al 100% l'intero significato che sta dietro al genere fumettistico dei supereroi.
Rendere giustizia ad una tale, complessa eredità in un film, che peraltro si pone come nuovo punto di partenza dell'universo condiviso DC al cinema (facciamoci il segno della croce), era un'impresa di proporzioni titaniche, una di quelle che giusto un eroe come il "big blue" poteva affrontare. E, come nelle più classiche delle storie della golden age, il nostro eroe ne esce vincitore.

La tipica attitudine sprezzante e maleducata a cui il buon James ci ha fin da sempre abituati viene qui leggermente stemperata, forse proprio in virtù dell'immaginario quasi sacro che si trova a maneggiare, ma se le battute scorrette e quel velo di volgarità anche implicita sono in parte sacrificate (o per meglio dire, moderate), quello che ci troviamo davanti è comunque un film di Gunn al 100%, ed è questo l'ingrediente che ne decreta il successo.
A differenza di uno Zack Snyder, Gunn non si crede un autore, lo è, e, a differenza di un Richard Lester, Gunn è molto più di un "semplice" artigiano; la sua autorialità non viene a mancare né nella cristallinità delle scene d'azione, fra fish-eye e slow motion adoperati con saggezza e parsimonia e mai abusati, né soprattutto in sede di sceneggiatura, di cui è ancora una volta autore unico.

Mi sentirei di dire, a tal proposito, che la vera arma segreta di questa nuova incarnazione di Supes sul grande schermo sono le neanche troppo velate allusioni al mondo reale, contemporaneo, di cui le vignette sono sempre state uno specchio: vediamo un Superman costantemente visto dalle lenti dei terrestri, ovvero, fondamentalmente, come un immigrato. Il regista si ricorda di questo aspetto fondativo della mitologia dell'ultimo figlio di Krypton, interpretato qui dall'ottimo David Corenswet, e lo pone in contrasto con un tronfio e machiavellico Lex Luthor che potrebbe tranquillamente essere sostituito con un Elon Musk, o un Jeff Bezos... o un Donald Trump. Un Luthor, incarnato dallo straordinario Nicholas Hoult, un po' più distante dal pazzoide megalomane interpretato da Gene Hackman e molto più vicino a un vero, moderno villain del terzo millennio: un miliardario con a disposizione abbastanza denaro e potere per influenzare l'opinione pubblica, per smuovere governi ed eserciti, per controllare, di fatto, gli equilibri mondiali come in una perversa partita di Risiko.
Tutto ciò fa molta più paura, allo stato attuale delle cose, di qualsiasi kaijū, minaccia aliena o metaumano che sono all'ordine del giorno per qualsiasi supereroe. Questo James Gunn lo sa benissimo, e lo sfrutta saggiamente per mettere in chiaro il valore di Superman come simbolo di speranza in una società devastata da confusione, cinismo e distruzione: esemplare in questi termini, oltre che davvero toccante, una scena riguardante una certa zona di guerra con un certo personaggio senza nome che innalza una certa bandiera. I Paesi coinvolti nei giochi politici di Luthor e simili hanno nomi inventati, ma ricorderebbero a chiunque abbia un cervello funzionante realtà decisamente attuali che prendono il nome di Palestina, Ucraina, Israele, Russia.
Quello di James Gunn è chiaramente un Superman che viene sulla nostra Terra per proteggere i più deboli dalle ingiustizie che ci circondano e a cui ci siamo forse troppo abituati. Ingiustizie che solo un supereroe come lui potrebbe davvero risolvere.

Com'era forse inevitabile, il film non è perfetto, e lo considero (relativamente) il meno riuscito dell'autore: le musiche del pur bravo John Murphy non restano particolarmente nella memoria (tolte le tipiche canzoni di terze parti che il buon Gunn si diverte sempre a inserire, anche se qui meno del solito), e alcuni personaggi come Hawk Girl vengono lasciati un po' in secondo piano, mentre spiccano più che altro Krypto, tra le mie maggiori preoccupazioni prima della visione e rivelatosi invece molto divertente, e una Lois Lane caratterizzata in modo particolarmente efficace dalla bravissima Rachel Brosnahan.
Mi auguro che l'idea di vedere maggiormente sviluppati questi personaggi dal grande potenziale, in particolare Mr. Terrific, si realizzi con i prossimi film, e se questo neonato DCU continuerà a giocherà bene le sue carte quella di assistere a una nuova ondata di buoni film di supereroi sarà ben più che una flebile speranza.

Perché in fondo Superman questo è: speranza. La speranza in un mondo migliore, la speranza nel bene del prossimo, la speranza che forse, uniti, potremmo farcela.
Quando la gente mette in dubbio la validità di un personaggio percepito come troppo potente e troppo perfetto, io rispondo: Superman non rappresenta ciò che siamo, non l'ha mai fatto. Superman rappresenta ciò che potremmo essere, ciò a cui dovremmo aspirare, ciò che ognuno di noi avrebbe il potenziale per essere, se solo lo volesse davvero.

Alzate lo sguardo al cielo, dunque.
Quello che vedrete vi farà ricredere, sia su Superman che sul mondo.

Dati tecnici

Regia: James Gunn

Anno: 2025

Paese di produzione: Stati Uniti d'America

Casa di produzione: DC Studios, Warner Bros.

Fotografia: Henry Braham

Montaggio: William Hoy, Craig Alpert

Musiche:  John Murphy, David Fleming

venerdì 7 marzo 2025

I MIGLIORI FILM DEL 2024


E rieccoci qui. Un anno dopo, come sempre, a stilare l'immancabile lista (è bene ribadire: NON classifica) dei migliori film dell'anno appena trascorso. È sempre una sfida per me, ogni anno, sedersi e mettersi a scrivere questo articolo, motivo per il quale quest'anno ho particolarmente tardato a pubblicarla. C'è un certo grado di pressione e anche un minimo di responsabilità nello scegliere le uscite più meritevoli di un intero anno cinematografico. Il 2024, poi, è stato particolarmente interessante dal punto di vista della settima arte, tra grandi ritorni, sorprese e anche un certo numero di delusioni.
Come al solito, però, il rimpianto maggiore è per tutti quei film che mi sono perso, per un motivo o per l'altro, e che quindi non posso includere in questa lista, titoli che sono stati sulla bocca di tutti i cinefili per mesi ma che purtroppo non sono riuscito (ancora) a vedere. Mi sembra d'uopo, dunque, fare delle menzioni onorevoli per tutti quei film che vi aspettereste probabilmente di vedere ivi inclusi ma che non troverete per questo specifico motivo: niente The Substance, Longlegs, Anora, CaracasGodzilla Minus OneVermiglio, Maxxxine... È anche il caso di ricordare che, come al solito, considererò anche pellicole uscite tecnicamente nel 2023 ma arrivate in Italia solo a partire da gennaio, o anche quelle arrivate nel nostro Paese negli ultimissimi mesi del 2023, a mo' di strascico dell'anno precedente.

E ora che i soliti, noiosi preamboli sono stati fatti, buttiamoci a capofitto nel mio annuale tentativo di imitare i Cahièrs du Cinéma, ovviamente con risultati ridicoli. Cominciamo!


Povere creature, di Yorgos Lanthimos


E perché non iniziare proprio da uno dei film del 2023 distribuiti nei nostri circuiti a inizio 2024? Trionfatore all'80esima Mostra internazionale del cinema di Venezia e anche agli Oscar (quattro statuette su undici candidature), Povere creature è stato il graditissimo ritorno di uno degli artisti europei più ispirati degli ultimi anni: il greco Yorgos Lanthimos, già beniamino della critica (e di me stesso) grazie a capolavori dello straniamento come Il sacrificio del cervo sacro o The Lobster, sembra aver ormai messo da parte il voto alla sobrietà delle sue prime opere, come il magistrale Dogtooth, per abbracciare appieno quell'opulenza dei sensi che aveva già impreziosito il suo precedente La favorita.


Pur smaccatamente circondato dallo sfarzo di costumi e scenografie, esaltati dalla grande fotografia di Robbie Ryan e dalla regia di un Lanthimos forse al suo apice di composizione visiva, Povere creature non perde nemmeno per un istante il focus di ciò che vuole raccontare: il percorso di nascita e crescita di Bella Baxter (forse la miglior Emma Stone mai vista finora), figlio di un ricercato e accurato intento shelleyano, è raccontato attraverso il suo svilupparsi in fasi psicologiche, geografiche e fisiche, che come unico possibile traguardo non possono che avere l'autoconsapevolezza definitiva, la quale trova realizzazione nell'emancipazione e nell'autodeterminazione.
Tra location esotiche iper-estetizzate, scene di sesso mostrate con nonchalance, quadri su pellicola di straordinaria varietà, personaggi ritratti con la solita disarmante sincerità, che arrivano in alcuni casi al patetismo, Povere creature, trasposizione dell'omonimo libro di Alasdair Gray, dipinge una grottesca versione steampunk della società vittoriana che fa da sfondo a una riflessione sull'individualismo, sulla crescita, sulla sessualità come scoperta di se stessi, sull'autodeterminazione, sull'affermazione della propria indipendenza (chiaramente, della donna in particolare) dalle gabbie sociali e culturali che ci costruiscono e ci costruiamo attorno.

Lanthimos firma forse il suo film migliore, o perlomeno quello che ho più apprezzato, un esaltante mix di suggestioni più o meno esplicite (Mary Shelley e Metropolis le più palesi) confezionato perfettamente, non solo dal punto di vista visivo ma anche grazie alle eccezionali musiche di Jerstin Fendrix, stralunate e meravigliosamente dissonanti, inscindibile completamento di questo capolavoro del grottesco che, tra l'altro, riconferma attori come Emma Stone e Willem Dafoe tra i migliori al mondo. Semplicemente ammaliante.


Beetlejuice Beetlejuice, di Tim Burton


Più di due anni fa, recensii su questo blog uno dei miei film preferiti di Tim Burton, quel Beetlejuice che nel 1988 rivoluzionò il panorama della commedia fantasy con la sua esplosiva mistura di kitsch, pop, dark e glam, lasciando un segno indelebile nell'immaginario collettivo orrorifico/soprannaturale con qualcosa che raramente si era visto prima, per lo meno in veste di commedia per il grande pubblico.
Ebbene, il 2024 ha visto il ritorno sul grande schermo del vecchio Tim proprio con un sequel di Beetlejuice, che ovviamente non potevo esimermi da inserire tra i migliori dell'anno.

Le perplessità, per quanto mi riguarda, non mancavano di certo: come sempre più spesso vediamo accadere, si tratta di un sequel uscito a decenni di distanza dall'originale, da un regista che mancava dalla sala da 5 anni e i cui ultimi lavori non mi avevano certo fatto gridare al capolavoro, menomati dal soffocamento della poetica dell'autore sotto budget colossali e obbedienze forse troppo cieche alle esigenze delle grandi major che li hanno prodotti.
Ma partiamo da una semplice definizione
: Beetlejuice e il suo seguito sono a tutti gli effetti cinema d'autore. La prima lezione che la ventesima pellicola del maestro di Burbank ci insegna è vecchia, scontata e ridondante, eppure ancora oggi necessaria: autorialità e genere non sono due entità separate, sono anzi due anime della stessa arte che non potrebbero esistere l'una senza l'altra e che quando si incontrano danno vita alle migliori espressioni di cinema. E raramente questa verità è stata meglio dimostrata che in questo ispiratissimo sequel, ben lungi dall'essere l'ennesima auto-cannibalizzazione nostalgica, quanto più che altro una decisa e aggressiva dichiarazione di autoaffermazione da parte di un autore (ribadiamolo) finalmente privo di restrizioni, che riesuma, ed è proprio il caso di dirlo, una delle sue opere più fondative per riapplicarla ai tempi odierni, estremamente diversi da quelli del 1988.

Ma non fraintendete: questa profanazione della tomba degli anni '80 non è votata a una sterile e morbosa necrofilia, tutt'altro; perché la seconda lezione che apprendiamo è che il Burton riesumato non ha perso un'oncia della vitalità che ha caratterizzato i suoi lavori migliori. Tutto ciò che, consapevolmente o meno, ci ha sempre fatto amare il Burton artista si dimostra qui più immortale che mai, ed ecco che Mario Bava, la musica, pop, il gotico, l'Espressionismo, i bellicosi scontri generazionali si applicano perfettamente e sorprendentemente anche al 2024 d.C., in un modo che solo qualcuno con una visione decisa e incorrotta può orchestrare.

Il fan-service è senz'altro presente, come del resto è inevitabile, e il vecchio Tim gestisce alla perfezione anche questo, tra citazioni non solo al primo Beetlejuice, tutte perfettamente contestualizzate e mai fini a se stesse, ma anche ad altri capitoli della sua filmografia e ad altri maestri che solo un vero amante della Settima Arte potrà riconoscere, apprezzare e godersi appieno (impossibile non citare in particolare un sentitissimo omaggio a un grande maestro italiano di cui non farò il nome). Piccole chicche che rendono ancora più gradevole la fruizione di un'opera d'arte, perché questo è, che non vive in funzione del capolavoro che l'ha preceduto, ma che si regge in tutta la sua grandiosità visiva, narrativa e sotto-narrativa, riprendendo vecchi temi mentre ne sviluppa altri, nuovi, adatti sia a questi personaggi invecchiati e non completamente identici a quelli che conoscevamo, sia a quelli nuovi, attuali, specchio di nuove generazioni che Burton tratteggia al tempo stesso con una dolcezza e una cattiveria talmente ispirate da sembrare quasi inconcepibili per un regista di 66 anni. 

La sceneggiatura è di Alfred Gough e Miles Millar, già con Burton al timone della chiacchieratissima serie Mercoledì, ed è un perfetto punto di partenza per la lucida follia di un Burton più giovane che mai, tra soluzioni registiche e di fotografia che restano impresse nelle retine dello spettatore esattamente come fu per quelle di Edward mani di forbice, Ed Wood o Batman Returns, quest'ultimo unico altro sequel diretto da Burton e, anche questo, tra i migliori e più rappresentativi esponenti della sua arte. Ed anche gli interpreti sono eccellenti, dalle redivive Winona Ryder e Catherine O'Hara alle new entry Monica Bellucci, Jenna Ortega e Justin Theroux, calati con naturalezza in personaggi non solo coerenti all'interno del mondo che conoscevamo e che qui ritroviamo, ma coerenti con l'impronta visiva e filosofica del regista in generale; Delores, Astrid e Rory potrebbero essere di casa in qualsiasi produzione burtoniana dei suoi anni d'oro, con la loro presenza scenica, le loro idiosincrasie, le loro forze e debolezze; sono anche loro delle meravigliose contraddizioni, riflesso di quella gigantesca contraddizione che è il nostro mondo e che il nostro Burton non si stanca mai di sottolineare. 
Farei un grande torto a Michael Keaton se non citassi il suo sfavillante ritorno nei panni del demone che dà il titolo al film, anche se suona quasi superfluo: cosa si può dire su un grande interprete come Keaton che riprende quello che è probabilmente il ruolo più iconico della sua carriera? Immagino che il miglior complimento che potrei fargli sia questo: dimenticate lo stanco e pietoso "Batman" ripreso per The Flash di Andy Muschietti, quello a cui assistiamo qui è un Keaton completamente all'opposto, vibrante ed estroso come non mai. È il Beetlejuice che conosciamo, né più né meno, e il meraviglioso climax nel terzo atto del film ne è l'inconfutabile dimostrazione.

Beetlejuice Beetlejuice non è solo un ottimo sequel, il che sarebbe già un risultato più che notevole di questi tempi, è molto, molto di più. È un'opera di grande ispirazione scenica, narrativa e musicale, ed è soprattutto una grande eredità. Un'eredità di un artista ancora in attività e che si spera (almeno da parte mia) resti in attività ancora per molto tempo, un artista che si presenta in questo momento storico con una perfetta sintesi del suo cinema, un cinema che da oltre quarant'anni è manifesto di creatività, vivacità e amore per tutto ciò che è strano e oscuro.

Quello di Tim Burton è stato decisamente il ritorno per me più gradito dell'anno, e noi reietti siamo pronti a seguirlo di nuovo.


Civil War, di Alex Garland


Altro grande ritorno è quello di Alex  Garland, già fautore di uno dei migliori horror del 2022 con Men (che non inclusi nella classifica di quell'anno perché... non l'avevo ancora visto). Civil War è probabilmente la sua opera più politica, almeno tra quelle da lui dirette; non dimentichiamoci infatti che il regista inglese aveva esordito come sceneggiatore per uno dei migliori film di zombi di sempre, quel 28 giorni dopo che nel 2002 aveva riportato l'attenzione delle masse a quello che è probabilmente il filone orrorifico più storicamente fertile di sottotesti e riflessioni sulla società, ancora prima che il grande Edgar Wright firmasse un'altra pietra miliare del genere con il suo comico (ma non parodistico) L'alba dei morti dementi.

In Civil War l'orrore è quello della guerra, quello a cui assistiamo tutti i giorni al telegiornale e che non possiamo fermare da soli, e che proprio per questo risulta molto più terrorizzante di qualsiasi mostro o serial killer che possiamo vedere sul grande schermo. I protagonisti sono, non a caso, dei giornalisti, tra cui una fotografa di guerra (Kirsten Dunst) con anni di esperienza sul campo, che compiono un viaggio verso Wahsington D.C. per documentare una sanguinosa guerra civile che ha diviso gli Stati Uniti in varie, bellicose fazioni in costante lotta tra di loro.
Garland, come spesso accade, è avaro di spiegazioni, e non sono completamente chiare le motivazioni che hanno portato alla drammatica situazione dipinta nel film. Ma il punto, sembra volerci dire l'autore, è che non importa realmente.
Il film si guarda bene dal tracciare una linea netta tra buoni e cattivi, e la sensazione che si ha per tutta la pellicola è che gli Stati Uniti narrati dall'inglese Garland siano in guerra esclusivamente contro loro stessi, e non solo nel senso superficiale della guerra civile: quella che sobriamente viene suggerita è in realtà una probabile deriva della società statunitense attuale tra qualche anno, una distopia resa spaventosamente realistica dalla sempre più radicata diffusione delle armi, ombra di un patriottismo degenerato e nazionalista che nessun governo, repubblicano o democratico, ha mai realmente contribuito a estirpare. 
Le assurde carneficine tra civili brutalmente mostrate nel film, la miseria, la devastazione, potrebbero essere un commento tanto sull'amministrazione Trump quanto su quella Biden, Obama, Bush ecc., nessuno escluso.

Gli stimoli intellettuali sono talmente tanti e interessanti che non basterebbero dieci visioni ad elaborarli tutti, ed è proprio questa profondità che rende imperdibile ogni opera di Alex Garland, compreso quell'Annientamento che personalmente non mi ha mai convinto troppo (urge decisamente rewatch). Garland ha dichiarato la volontà di abbandonare la macchina da presa dopo il prossimo Warfare, altro film sulla guerra co-prodotto dalla A24, e la speranza, da parte mia, è che cambi idea, visto che anche solo questo Civil War è stato senza dubbio uno dei titoli più rappresentativi dell'anno.


Il robot selvaggio, di Chris Sanders


Ah, la DreamWorks... Forse lo studio d'animazione più incostante di sempre. Con l'eccezione dei primissimi anni di grazia, lo studio fondato da Jeffrey Katzenberg si è sempre barcamenato tra prodotti validi e a tratti persino sperimentali e mediocri tentativi di fare facile breccia sul pubblico generale, per lo più infantile. E, fino a qualche anno fa, la sorte di uno studio pieno di potenzialità sembrava essere ormai segnata da quest'ultima tendenza, con sequel sfornati a catena di montaggio alternati a titoli originali spesso dimenticabili e abbassati ai minimi standard per un prodotto vendibile al grande pubblico. Fu proprio questo senso di inerzia e l'ormai perduta fiducia nei confronti dello studio a farmi sottovalutare, corrotto dal pregiudizio, quel Gatto con gli Stivali 2  che nel 2022 lasciò a bocca aperta qualsiasi amante dell'animazione, e che qualche tempo dopo avrebbe fatto ricredere anche me sul futuro dello studio. Poi, insieme ai Trolls 3 e ai Kung Fu Panda 4, ecco spuntare dei piccoli barlumi di speranza come Troppo cattivi (2022) e soprattutto Il robot selvaggio.

Un progetto che aveva rapito la mia curiosità fin dal suo annuncio, specialmente una volta rivelato il nome del regista, quel Chris Sanders che, insieme al socio Dean DeBlois, aveva firmato delle vere perle dell'animazione come Lilo & Stitch per la Disney e la trilogia di Dragon Trainer sempre per la DreamWorks. Tutte pellicole di grande valore, non canoniche e fuori dagli schemi in modi tutti loro. 
E in un periodo in cui l'animazione mainstream offre sempre meno spunti e creatività (quest'anno, non a caso, ha visto l'uscita di almeno tre grossi sequel di film d'animazione di successo, tutti altrettanto fortunati al botteghino), Il robot selvaggio è un'oasi di originalità, immaginazione e ricerca artistica.
Basata sul libro illustrato di Peter Brown, l'ultima fatica della DreamWorks dimostra che è ancora possibile trattare temi importanti e difficili in un film per bambini. La nascita, la crescita, la maternità, l'adozione, la necessità di adattarsi e persino la morte sono parte dell'ossatura del racconto, indubbiamente e inevitabilmente ispirato al classico Bambi, ancora oggi tra le opere più essenziali e seminali della storia dell'animazione, e non solo.
L'influenza del classico della Disney si avverte prima di tutto sul piano visivo, con la fauna e la flora della foresta americana come centro dell'azione, ma è la riflessione sulla vita che accomuna maggiormente le due opere, che attraverso le interazioni di un cerbiatto, nel caso della Disney, e di un robot, nel caso della DreamWorks, con quello che li circonda esplora il significato dell'umanità stessa, secondo dinamiche semplici ma mai banali. 

Impossibile non citare le ottime musiche di Kris Bowers e il suggestivo comparto visivo, con uno stile a metà tra il 3D e il 2D che, seppur leggermente tenuto a freno rispetto all'estrosissimo Gatto con gli Stivali 2, non lascia troppo rimpiangere la splendida animazione tradizionale che diede vita alle prime storiche produzioni dello studio di Katzenberg a cavallo tra gli anni '90 e 2000, per la quale provo una grande nostalgia.

Fa davvero molto piacere che un'opera inaspettatamente matura come Il robot selvaggio abbia avuto un ottimo successo al botteghino, e la speranza è che uno studio dalle grandi potenzialità come la DreamWorks continui ad alternare le sue tipiche, mere operazioni commerciali a prodotti all'altezza dei grandi talenti che ha a disposizione. 


Perfect Days, di Wim Wenders


Come non includere uno dei film più poetici dell'anno, firmato da un grande maestro e premiato a Cannes?
Sarò sincero con voi: Perfect Days è stato il mio primo film di Wim Wenders, e per quanto sarebbe stato più appropriato avvicinarsi alla sua arte attraverso classici come Alice nella città o Il cielo sopra Berlino, posso sostenere con soddisfazione che il mio primo incontro col cineasta tedesco è stato più che positivo. E come poteva essere altrimenti, con un film come questo?

Prodotta e girata in Giappone (e in lingua giapponese), quest'intensa, delicata parabola sul senso della vita segue la routine di un addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo, che tra un lavoro l'altro riempie le sue giornate coltivando le sue passioni: una vita semplice, in cui i giorni si susseguono apparentemente tutti uguali e le sorprese sono poche, un'esistenza scandita dai ritmi di un lavoro umile e dalle piccole cose che le assicurano leggerezza. La fotografia analogica, la lettura assidua, la musica rock vecchio stile ascoltata con le musicassette: le riservate e timide abitudini di Hirayama (interpretato da un perfetto Kōji Yakusho), raramente perturbate dal mondo esterno, ci ricordano di quanto siano le piccole cose, i piccoli piaceri quotidiani a rendere la vita degna di tale nome e di essere vissuta.

Quella che Wenders ci regala è una ricetta contro l'alienazione, contro la velocità e caoticità di un mondo che ha sempre meno tempo di essere compreso e che abbiamo sempre meno tempo di assaporare. Non a caso, il film è ambientato in una grande metropoli, tra le più frenetiche al mondo, dove il nostro protagonista riesce a condurre la sua pacata esistenza nonostante tutto, immune al cambiamento in costante divenire intorno a lui. Una resistenza al nuovo perfettamente rappresentata dalla colonna sonora, rigorosamente diegetica, quel rock "da papà" a cui Hirayama si abbandona ogni giorno, fruito attraverso un mezzo altrettanto vetusto come le musicassette.
La filosofia di vita del protagonista non è presentata come "perfetta" in sé, bensì coem perfetta per lui, come a rappresentare un promemoria per il pubblico che il segreto per la felicità, molto spesso, si cela dietro le cose che diamo per scontate, apparentemente insignificanti, eppure fondamentali.

Pefect Days non è, suppongo, tra i lavori più degni di nota di Wim Wenders, forse nemmeno tra i più rappresentativi, ma si è rivelato, per un totale neofita come me, un ottimo spunto per iniziare a esplorare la sua filmografia.
E quale miglior merito può avere l'ultima pellicola di un regista attivo da oltre cinquant'anni?


Kinds of Kindness, di Yorgos Lanthimos



Ebbene sì, quest'anno Lanthimos fa doppietta! Dopo il trionfo a Venezia con Povere creature, Kinds of Kindness rappresenta il ritorno dell'autore greco, stavolta nella cornice del Festival di Cannes, al suo stile più asciutto, più astratto, più incomunicabile. Un'opera composta da tre episodi, accomunati quasi esclusivamente da un personaggio identificato come R. M. F., il quale peraltro non ha nemmeno una battuta in tutto il film. Tre episodi assurdi e criptici come le prime opere del regista, prima della sua scoperta da parte del grande pubblico e della critica d'oltreoceano. Tre storie all'insegna del grottesco, ai limiti del comprensibile, imperniate sulle interpretazioni (ispiratissime) di sempre gli stessi attori, che rivestono ruoli diversi in ogni episodio: Emma Stone, Willem Dafoe e Margaret Qualley vengono "riciclati" dal cast di Povere creature e, insieme a Jesse Plemons, danno vita a personaggi imperscrutabili, misteriosi, apparentemente privi di qualsiasi qualità positiva, nonché di qualsiasi aspetto che li renda inequivocabilmente umani.

Il pubblico non ha perdonato a Lanthimos questo brusco ritorno alla sua poetica primigenia, seppur impreziosito come sempre da un comparto tecnico-visivo notevole e dalle musiche di Jerskin Fendrix, e anche la critica non è stata altrettanto generosa come con le sue opere immediatamente precedenti.
Ma se Kind of Kindness ci insegna qualcosa, è che apprezzare Lanthimos vuol dire apprezzarlo anche nei suoi momenti più idiosincratici, non solo nello sfarzo e nell'orgia di temi e sensazioni di Povere creature, ma anche e soprattutto nella semplicità e aridità di opere come questa, forse meno eclatanti ma non per questo meno curate.


Furiosa, di George Miller



Questo 2025 segna i 10 anni di Mad Max: Fury Road, a mani basse il capitolo più amato della saga nata nel 1979 dal genio spartano di George Miller; l'anno scorso il maestro australiano, dopo averci deliziati con quella perla sottovalutata che è Tremila anni di attesa, ha rimesso mano alla sua gallina dalle uova d'oro portando finalmente a termine uno spin-off che stava ormai diventando più famoso per il suo lungo development hell che per essere il primo spin-off ufficiale della saga che a suo tempo lanciò Mel Gibson. Fury Road si dimostrò all'epoca un inaspettato trionfo, un film quasi teorico sul cinema d'azione generosamente elargito da un regista che di esperienza ne aveva ormai tanta: Furiosa: A Mad Max Saga è, parimenti, una lezione su come sfruttare un franchise di successo senza snaturarne l'essenza, mantenendo intatti stile, spirito e identità visiva e sonora.

Questo prequel sul personaggio più affascinante del precedente film del 2015 si impone a pieno titolo come un vero e proprio capitolo della saga, molto più di una semplice inferiore propaggine che poco aggiunge alla lore di un mondo che già conoscevamo. Tutt'altro. 
In un presente in cui sequel, prequel, spin-off e compagnia cantante sono sempre più dei riflessi della crisi d'idee che impera da anni ad Hollywood, un film come Furiosa è un mezzo miracolo, per il modo in cui esplora le origini del personaggio interpretato originariamente da Charlize Theron (e qui da Anya Taylor-Joy, tra i più grandi talenti della sua generazione) ed espande e costruisce su ciò che già conoscevamo, o pensavamo di conoscere.
Niente, tanto sul piano visivo quanto su quello puramente narrativo, fa rimpiangere i capitoli precedenti, l'azione è ancora splendidamente fluida ed esteticamente appagante (al netto di un utilizzo leggermente più invasivo della computergrafica, ridotta al minimo indispensabile in Fury Road). Le musiche, pur non raggiungendo l'epicità adrenalinica di quelle di Junkie XL, fanno il loro ottimo lavoro nell'esaltare la tensione, mentre nel cast, oltre alla Taylor-Joy, spicca un istrionico Chris Hemsworth, nell'ennesima dimostrazione del suo valore al di fuori del Thor marvelliano.

Questa magnifica parentesi su Furiosa, purtroppo un flop al botteghino, è forse la definitiva testimonianza di quanto poco il pubblico odierno si meriti un artista come Miller, che al pari di altri "grandi vecchi" come Cameron, Spielberg o Scott, continua a rappresentare un'oasi di ristoro di cui il cinema d'intrattenimento anglosassone ha sempre più bisogno.
E a proposito di grandi vecchi, questo 2025 segna anche il ritorno di Robert Zemeckis, alle prese con lo sperimentale e interessante Here, che peraltro lo vede tornare a lavorare con Tom Hanks dopo il disastroso remake del Pinocchio disneyano... Facciamoci il segno della croce.


Il ragazzo e l'airone, di Hayao Miyazaki


Al momento in cui sto scrivendo, è passato un anno dalla mia visione al cinema dell'ultimo (forse) capolavoro del maestro Miyazaki, eppure le parole per descriverlo ancora mi sfuggono dalle labbra. È sempre così con le opere come Il ragazzo e l'airone. Come per tanti altri lavori di Miyazaki sensei e degli altri straordinari artisti del Ghibli, guardare (o meglio, vivere) un film come questo è stata un'esperienza, fatta di suggestioni, viaggi, sensazioni. In buona sostanza, qualcosa di sentitamente e inevitabilmente etereo, che rifugge qualsiasi razionalità per trovare il suo luogo naturale tra le pieghe delle emozioni, nel fluire incessante delle stesse che investono autore e spettatore come un fiume in piena.

L'elemento autobiografico è quasi sempre presente nelle opere del Maestro; persino nell'unico suo film basato su una storia vera, Si alza il vento, non è difficile riconoscere nel suo protagonista caratteristiche, passioni e idiosincrasie del suo autore, in bilico tra un appassionato amore per l'aviazione e un forte, irresistibile impeto antimilitarista. 
Il fatto è che stavolta, con Il ragazzo e l'airone (con un titolo originale che si avvicina più a qualcosa come "Scegli la tua vita"), Miyazaki sceglie di aprirsi più di quanto abbia mai fatto: noi spettatori abbiamo il privilegio di osservare i punti salienti della sua vita personale, inevitabili punti cardine della sua vita artistica, svolgersi di fronte a noi, pur sempre mascherati e filtrati da quella miriade di allegorie, simbologie e parallelismi che da sempre sono parte integrante della poetica di uno dei più importanti artisti del cinema orientale, uno dei più compositi, uno dei più autentici.
Il tutto, naturalmente accompagnato dall'apporto di un altro grande maestro, stavolta nel campo musicale, quel Joe Hisaishi sempre presente in tutte le opere non solo di Miyazaki, ma anche di un altro grande artista come Takeshi Kitano. Forse tra le sue colonne sonore più delicate e semplici, ma non per questo meno potenti.

Ho ancora bisogno di tempo per processare il presunto addio al cinema di uno dei miei registi preferiti, anche considerando il fatto che finora ho avuto modo di vederlo solo una volta, ormai più di un anno fa.
L'unica cosa per me certa una volta uscito da quel cinema (e, se devo essere sincero, anche prima di entrarci) era la consapevolezza di aver appena assistito all'evento cinematografico dell'anno, e in quanto tale non posso che includerlo in questa lista e, soprattutto, consigliarvelo calorosamente (come se ce ne fosse bisogno).
Mi dispiace di non essere in grado di dirvi di più, ma chissà... Potrei ritrovarmi un giorno, dopo molteplici e ripetute visioni, a discuterne nuovamente in questa sede, con molti più spunti a disposizione. In ogni caso, spero come tutti che questo ennesimo canto del cigno si riveli solo un altro capitolo di una delle filmografie più perfette della storia del cinema.

Mille grazie, Maestro.


Dune - Parte 2, di Denis Villeneuve


A tre anni dalla sua prima parte, già presente nella mia lista dei migliori film del 2021, abbiamo potuto finalmente ammirare la continuazione dell'imponente space opera tratta dal capolavoro di Frank Herbert che negli anni '60 cambiò per sempre la storia della fantascienza.
Denis Villeneuve, tra i più talentuosi e ispirati autori del genere (e non solo), entra finalmente nel vivo dell'azione in questa parte 2, dopo il lento, intrigante world-building riservato al primo tempo. La visione di uno dei più ambiziosi progetti fantascientifici degli ultimi anni, perlomeno in termini di grande schermo, è finalmente completa, e oltre alla sua ambizione ciò appare chiaro è la sua complessità, la sua cura nei dettagli, nei costumi, negli effetti visivi, nella colonna sonora: tutti elementi che confluiscono accuratamente nella costruzione di una cosmologia complessa e spesso poco tangibile che, grazie alla sapiente mano di Villeneuve, prende vita con risultati che superano ogni più rosea aspettativa.

Le enormi difficoltà a cui si incorre nel mettere in scena un romanzo impalpabile e molto sensoriale come quello di Herbert sono innumerevoli, e se già col primo tempo il regista canadese si era dimostrato brillantemente in grado di superarle, l'inventiva tecnica e la magnificenza visiva di questo secondo dimostrano che una delle più ardue imprese della storia delle trasposizioni dalla carta allo schermo è stata portata a termine con successo. Il risultato è un'esperienza che trascende il semplice concetto di azione fantascientifica, prendendo la forma di un viaggio, interiore ed esteriore, tra l'epico e il lisergico.

È difficile immaginare se Herbert in persona avrebbe apprezzato il lavoro di Villeneuve, considerato il suo carattere a quanto pare difficile (stiamo parlando della stessa persona che impedì agli Iron Maiden di chiamare un loro brano Dune, costringendoli ad intitolarlo con un più generico To Tame a Land), ma data la portata colossale di un'opera di questo tipo, tra le più complesse e riuscite della fantascienza blockbuster degli ultimi dieci anni, mi auguro almeno che il pubblico non la dimentichi presto.
Pare che un terzo capitolo, che sarà tratto dal secondo libro della saga, Messia di Dune, sia all'orizzonte e, se piove di quel che tuona, sarà un altro evento imperdibile.

Coup de Chance, di Woody Allen



Non posso farci niente, ragazzi. Esce un film Woody Allen, lo metto tra i migliori dell'anno. È praticamente un riflesso incondizionato, sintomo del mio personale amore per uno degli autori più importanti della mia vita, tra quelli che più mi hanno cresciuto e formato nella mia passione per la Settima Arte.
Praticamente impossibilitato sfornare prodotti mediocri (se si tralascia la triste parentesi di To Rome with Love, di cui meno si parla, meglio è), il Maestro di New York continua a cavalcare la sua seconda (o terza?) giovinezza artistica con il suo primo film girato non in lingua inglese. 
Rivoltosi a un Paese che, a differenza degli States, ama ancora il cinema e gli autori, Allen gira Coup de Chance (Un colpo di fortuna) in Francia. Non è certo la prima volta che un film del Maestro viene girato e finanziato da un Paese europeo, si pensi anche solo allo splendido Midnight in Paris, la differenza è che questa volta il film è girato interamente in francese, con attori francesi e ambientazioni francesi.

Coincidenza vuole che questo primato abbia conciso un altro: Coup de Chance è il cinquantesimo capitolo della filmografia di Allen, frutto di quasi 60 anni di attività come regista e sceneggiatore. Alla veneranda età di 87 anni e con un'autobiografia di successo (A proposito di niente, che consiglio caldamente), zio Woody è tra i pochi esponenti della vecchia Hollywood ancora in fervente attività, incedibile al passare degli anni e dotato di una lucidità impressionante.
Già le precedenti, ispiratissime pellicole dell'ultimo decennio, da La ruota delle meraviglie a Rifkin's Festival, passando per il sottovalutato e malinconico Un giorno di pioggia a New York, testimoniavano un ritrovato stato di grazia, merito anche di collaboratori di altissimo livello come Vittorio Storaro, ed è innegabile che rimangano obiettivamente superiori a quest'ultima esperienza francese, in cui comunque il senso di già visto si fa un po' sentire.
Chi ha familiarità con la filmografia di Allen non può non riconoscere temi e snodi di trama ricorrenti nelle sue opere almeno a partire da Crimini e misfatti (uno dei suoi capolavori, datato 1989). Non ci si discosta molto dalla tipica commedia nera con riflessioni sul fato e il senso di colpa sulla falsa riga di Match Point o Irrational Man, ma una leggera ripetitività è qualcosa che si può perdonare a un veterano con cinquanta film all'attivo.

Del resto, la freschezza dei movimenti di macchina, il gusto nelle inquadrature, la perizia della fotografia, la brillantezza della sceneggiatura, esaltata da interpreti di ottimo livello, rimangono quelli di sempre, e alla fine della visione non si può che restare soddisfatti da un'ora e mezza di risate, mai sguiaiate, e di riflessioni (nonché, perché no, dalla bellezza della protagonista Lou de Laâge).
Coup de Chance non sarà tra le pellicole più innovative dell'anno, ma è una perla che risalta particolarmente nel panorama della commedia americana, come tutte le commedie firmate da uno dei più grandi autori in attività.


Orion e il buio, di Sean Charmatz


Incredibile ma vero, anche la DreamWorks quest'anno fa doppietta! 
Come siamo arrivati a questo? Com'è possibile che lo stesso studio che ha sfornato Trolls e Baby Boss nel giro di un anno, abbia inanellato ben due filmoni entro lo stesso periodo di un anno solare?
Forse è proprio vero, alla luce di questi numeri inaspettati, che stiamo vivendo quello che molti, secondo una nomenclatura che suona familiare a ogni amante dell'animazione, stanno chiamando "Rinascimento DreamWorks".

Speriamo di non star cantando vittoria troppo presto, anche se la linea quasi ininterrotta di ottimi film di cui Orion e il buio è forse il culmine va avanti ormai da due anni. Due anni prima dei quali un film prodotto da questo studio basato su una sceneggiatura di Charlie Kaufman sarebbe apparso a molti come un'eventualità a dir poco improbabile, se non impossibile.
Eppure, è esattamente quello che è successo, ed è la mente geniale dietro alcuni degli script più originali e innovativi degli ultimi trent'anni, come Essere John Malkovich e Eternal Sunshine of a Spotless Mind, a firmare quest'adattamento del libro illustrato omonimo di Emma Yarlett. 
Non è la prima volta che Kaufman mette il suo genio visionario al servizio dell'arte dell'animazione, come ci ricorda quella perla che fu l'esistenziale e poco chiacchierato Anomalisa, datato 2015 e animato con una splendida, straniante stop-motion. Tuttavia, stavolta Kaufman lascia la regia alla mano di Sean Charmatz, animatore fin dagli anni d'oro di Spongebob e da circa un decennio in DreamWorks, mentre al posto della plastilina si opta per un più tradizionale e rassicurante stile in 3D.

E rassicurante è l'intento a cui si dedica il film, fiaba meta-narrativa sulla paura e sul superamento della stessa dal chiaro intento pedagogico. Una vera e propria parabola, che parte dalla base estremamente comune e relazionabile della nantofobia (volgarmente, quella "paura del buio" così comune a tanti di noi nel periodo dell'infanzia) per trattare il timore e le fobie in più di una forma, quelle fobie di cui il passaggio tra infanzia ed età adulta è costellato. 
Charmatz e Kaufman sembrano seguire l'antica lezione di Walt Disney, accompagnando il bambino per mano ma allo stesso tempo mettendolo davanti a situazioni emotivamente più complesse, spaventandolo e mettendolo in dubbio quando serve; la morale e il lieto fine passano attraverso le difficoltà e i momenti cupi, e nonostante si parli letteralmente (ma non solo) di luci e ombre, niente e nessuno è mai completamente bianco o completamente nero.
E proprio quando ci sembra di aver decifrato la formula narrativa e di aver compreso dove il film ci sta portando, ecco che la sceneggiatura prende la forma inconfondibile, ma mai prevedibile, dei migliori lavori di Kaufman.
Non mi dilungherò in spoiler, e mi limiterò ad assicurarvi che il tipo di pubblico radicalmente diverso dal solito a cui Kaufman si rivolge non allontana affatto quest'opera dalla poetica di Synecdoche, New York o di Il ladro di orchidee, anzi.
Orion e il buio non è altro che una grande, necessaria dimostrazione dell'enorme potenziale dell'animazione, una tecnica e non un genere, né tantomeno un target.

Per riassumere, questo doppio centro della DreamWorks è stata una delle più grandi e gradite sorprese dell'anno, anno che tra l'altro ha coinciso con il trentesimo anniversario dello studio. Speriamo dunque in altri trent'anni di film come questi!


La zona d'interesse, di Jonathan Glazer


Il 2024 (almeno per quanto riguarda l'uscita italiana) ci ha regalato anche uno dei migliori film sull'Olocausto di sempre.
A riuscire in un'impresa del genere è Jonathan Glazer, autore britannico già dietro la macchina da presa per cult come Sexy Beast e Under the Skin (quest'ultimo una sofisticatissima ed ermetica fantascienza con Scarlett Johnasson) e per videoclip tra i più riusciti della storia della musica (uno su tutti, il meraviglioso video di Karma Police dei Radiohead). Per l'occasione, il regista si affida all'infallibile A24 e si sposta in Polonia per la sua anticonvenzionale rappresentazione del genocidio ebraico da parte del regime nazista: piuttosto che indugiare sul patetismo, la clinica regia di Glazer si concentra la vita quotidiana di una famiglia di nazisti, il cui capofamiglia si dà il caso essere il supervisore del campo di concentramento di Auschiwitz, Rudolf Höß,
 tratteggiando la propria tranquilla esistenza nella loro ben curata villa confinante col campo. 
I riferimenti espliciti alle atrocità che avvengono a pochissimi metri dall'idilliaca dimora della famiglia Höß sono ridotti all'osso, sinistramente evocati dai suoni che pervadono tutto il film, come una presenza opprimente, costante, continuamente ignorata ma incancellabile. Questo peculiare utilizzo del sonoro, unito alle scene girate in negativo, distinguono un film che, forse più di ogni altro, rappresenta in maniera pressocché perfetta il noto concetto di "banalità del male" postulato da Hannah Arendt.
Proprio in funzione di ciò, è quello che non vediamo a scioccarci di più, unito alla frivolezza e alla tranquillità che possono coesistere fianco a fianco coi loro esatti opposti, al paradiso che coesiste fianco a fianco con l'inferno.
Sconcertante tanto nei suoi contenuti quanto nella sua bellezza.


Giurato numero 2, di Clint Eastwood


Alla veneranda età di 94 anni, l'inossidabile Clint Eastwood ci regala nientemeno che uno dei migliori thriller dell'anno. E no, non sto affatto esagerando!

Verrebbe da chiedersi che tipo di patto con il diavolo abbia stretto il mitico Clint per mantenere tutta la lucidità che serve per sfornare film straordinari come questo, o come i precedenti Richard Jewell e The Mule (ahimè, non ho ancora visto Cry Macho, che segna al momento la sua ultima interpretazione davanti alla macchina da presa).
Quale che sia il suo segreto, parliamo indubbiamente di uno dei registi più longevi di sempre, con tra l'altro una delle filmografie più perfette, raramente scalfita da film considerabili minori (tra queste rarità, non me ne vogliate, inserisco anche il discusso American Sniper, di cui sono a mio agio nel definirmi un detrattore).


È sempre un piacere ammirare un'opera nuova del maestro di San Francisco, e soprattutto lo è constatarne l'immensa qualità, come in questo caso.
Ispirandosi a La parola ai giurati, il classico di Sidney Lumet del 1957 che ha perfezionato il court drama, Eastwood mette in scena un dramma legale ed etico, costruito su una sceneggiatura di ferro che aggiorna ai nostri tempi i dilemmi morali sollevati illo tempore dal capolavoro di Lumet. I classici, contorti temi sociali messi in scena da film di questo tipo assumono stavolta una piega nettamente più umana che meramente legale, come riflesso in maniera impeccabile anche dalle perfette interpretazioni dell'infallibile Toni Colette, di J. K. Simmons, di Zoey Deutsch e soprattutto di un clamoroso Nicholas Hoult (che quest'anno, peraltro, ha inanellato un altro grande ruolo da prptagonista con il Nosferatu di Robert Eggers, ma di questo ne parleremo l'anno prossimo...).

Nonostante la sua indiscussa pregevolezza, tanto visiva quanto narrativa, il film è stato purtroppo sottovalutato sia dal pubblico, con un incasso inferiore ai costi di produzione, che nella stagione dei premi, con nemmeno una nomination importante a qualsiasi grande premiazione o festival. 
Un vero crimine che quest'opera straordinaria sia passata così inosservata.
Non possiamo sapere quanto ancora potrà darci un grandioso autore come Clint Eastwood, ma il monito che sembra darci con questa sua ultima fatica è "godetevela finché potete".


Megalopolis, di Francis Ford Coppola


Chiudiamo la lista con quello che è probabilmente il film più controverso dell'anno.
A dire il vero, attualmente è forse Emilia Pérez a potersi fregiare di questo poco lusinghiero titolo, anche se più che "controverso" l'aggettivo che meglio si confà all'ultima fatica di Jacques Audiard pluricandidata agli Oscar è "odiato", e non senza giusto merito aggiungerei.

Ma non è di quel disastro che stiamo per parlare, bensì di Megalopolis. Uno di quei film da cui non si può scappare. 

Che si ami o si odi, l'ultimo sforzo dell'ottantacinquenne Francis Ford Coppola è una di quelle entità pachidermiche e polarizzanti talmente fuori dall'ordinario da essere impossibili da ignorare, una di quelle bestie rare che nel safari della cinematografia si avvistano raramente.
Le sue caratteristiche lo rendono una specie incredibilmente affascinante: un progetto personale di uno degli autori più importanti della storia del cinema, scritto, diretto e prodotto dalla stessa persona che ne ha portato avanti il concepimento tra mille vicissitudini per oltre 40 anni, osteggiato da ogni grande casa di produzione e da ogni logica e portato a termine con un budget mastodontico messo insieme solo grazie alla determinazione del regista che ha finanziato la sua visione di tasca propria, vendendo persino parte della sua amata azienda vinicola pur di portare a termine il progetto di una vita. In altre parole, un epico trionfo dell'arte sull'inamovibilità del tempo e delle avversità, oppure un imbarazzante fallimento di proporzioni bibliche, senza alcuna possibilità di mezzi termini.
E in un'epoca, poi, in cui la grande potenzialità di internet riduce spesso le argomentazioni a piatte e sterili sentenze virate ad un estremo o ad un altro, una bestia come Megalopolis non può che infuocare gli animi, in sensi diametralmente opposti dello spettro del gradimento.

Il sottoscritto, da umile recensore della domenica, non può certo accollarsi il basto di decretare quale parte ha ragione e quale no, se questo nuovo agnello sacrificale delle masse cinefile sia oggettivamente grandioso o indiscutibilmente aberrante.
L'unica cosa in mio potere è limitarmi a sottolineare l'ovvio, ovvero come la regia di Coppola, le scenografie, i costumi, la fotografia, il montaggio, le interpretazioni siano tutte di livello altissimo, come tutti questi elementi contribuiscano alla costruzione di un mondo e della "fiaba" (così viene chiamata fin dall'inizio del film) concepita dal suo autore, della grande allegoria portata avanti per quasi due ore e mezza. 
L'epopea di questi personaggi dai nomi molto familiari, specialmente per gli
spettatori europei e ancor più specialmente per gli spettatori italiani (Catilina, Cicero, Crasso), si svolge non a caso nella distopica megalopoli di Nuova Roma, centro di un impero a metà tra l'idealizzazione del sogno Americano e l'opulenza dell'Antica Roma, due facce della stessa medaglia secondo il regista, due volti dello stesso male che risponde al nome di edonismo.
Una fiaba che ha un che di Esopo, dunque, o di Fedro, una storia che ha una morale piuttosto chiara, ma tutt'altro che semplicistica: l'ambizione, il potere, l'avidità, l'aspirazione a uno status divino e immortale portano paradossalmente l'uomo all'estinzione, all'annullamento di sé, al fallimento in quanto essere umano. 

Tutte le altre implicazioni, sottotrame e metafore lascio a voi lettori il piacere di scoprirle. Perché, ed è questo il messaggio che più ci tengo a trasmettere, Megalopolis è un'opera assolutamente da vedere, e da vedere rigorosamente sul grande schermo, a dispetto di qualunque cosa possano dirvi le recensioni su Letterboxd o le candidature ai Razzie. Per quanti possano essere i suoi difetti, che a mio parere si riducono fondamentalmente a una mera questione di gusti personali e poco altro, perdersi un'opera d'arte come questa, creata con così tanta fatica da un artista così ispirato, sarebbe un crimine contro voi stessi. 

Megalopolis è un film difficile, lungo, sovraccarico di dialoghi, personaggi e simbologie... ed è esattamente questo che lo rende un'esperienza unica.
La discussione sull'ultima opera di Francis Ford Coppola durerà probabilmente per anni, forse per decenni. Se sarà ricordato come un Quarto potere o come un I cancelli del cielo, sarà il tempo a dirlo. In ogni caso, sarà ricordato come un grande film.


Si chiude qui la mia rassegna annuale dei migliori film dell'anno (secondo me). Un anno che per quanto mi riguarda ha riservato molte sorprese positive e poche delusioni, e che mi ha lasciato anche molta roba da recuperare nel corso del 2025, che, chissà, potrebbe anche finire nella lista dell'anno prossimo. 
Vi do appuntamento dunque al prossimo articolo, che spero arrivi non troppo tardi.
A presto, e come sempre: w il cinema!


sabato 26 ottobre 2024

MEGALOPOLIS, DI FRANCIS FORD COPPOLA


Megalopolis è uno di quei film da cui non si può scappare. 
Che si ami o si odi, è una di quelle entità pachidermiche e polarizzanti talmente fuori dall'ordinario da essere impossibili da ignorare, una di quelle bestie rare che nel safari della cinematografia si avvistano raramente.
Le sue caratteristiche lo rendono una specie incredibilmente affascinante: un progetto personale di uno degli autori più importanti della storia del cinema, scritto, diretto e prodotto dalla stessa persona che ne ha portato avanti il concepimento tra mille vicissitudini per oltre 40 anni, osteggiato da ogni grande casa di produzione e da ogni logica e portato a termine con un budget mastodontico messo insieme solo grazie alla determinazione del regista che ha finanziato la sua visione di tasca propria, vendendo persino parte della sua amata azienda vinicola. In altre parole, un epico trionfo dell'arte sull'inamovibilità del tempo e delle avversità, oppure un imbarazzante fallimento di proporzioni bibliche, senza alcuna possibilità di mezzi termini.
E in un'epoca, poi, in cui la grande potenzialità di internet riduce spesso le argomentazioni a piatte e sterili sentenze virate ad un estremo o ad un altro, una bestia come Megalopolis non può che infuocare gli animi, in sensi diametralmente opposti dello spettro del gradimento.

Il sottoscritto, da umile recensore della domenica, non può certo accollarsi il basto di decretare quale parte ha ragione e quale no, se questo nuovo agnello sacrificale delle masse cinefile sia oggettivamente grandioso o indiscutibilmente aberrante.
L'unica cosa in mio potere è limitarmi a sottolineare l'ovvio, ovvero come la regia di Coppola, le scenografie, i costumi, la fotografia, il montaggio, le interpretazioni siano tutte di livello altissimo, come tutti questi elementi contribuiscano alla costruzione di un mondo e della "fiaba" (così viene chiamata fin dall'inizio del film) concepita dal suo autore, della grande allegoria portata avanti per quasi due ore e mezza. 
L'epopea di questi personaggi dai nomi molto familiari, specialmente per gli
spettatori europei e specialmente per gli spettatori italiani (Catilina, Cicero, Crasso), si svolge non a caso nella distopica megalopoli di Nuova Roma, centro di un impero a metà tra l'idealizzazione del sogno Americano e l'opulenza dell'Antica Roma, due facce della stessa medaglia secondo il regista, due volti dello stesso male che risponde al nome di edonismo.
Una fiaba che ha un che di Esopo, dunque, o di Fedro, una storia che ha una morale piuttosto chiara, ma tutt'altro che semplicistica: l'ambizione, il potere, l'avidità, l'aspirazione a uno status divino e immortale portano paradossalmente l'uomo all'estinzione, all'annullamento di sé, al fallimento in quanto essere umano. 
Francis Ford Coppola

Tutte le altre implicazioni, sottotrame e metafore lascio a voi lettori il piacere di scoprirle. Perché, ed è questo il messaggio che più ci tengo a trasmettere, Megalopolis è un'opera assolutamente da vedere, e da vedere rigorosamente sul grande schermo. Per quanti possano essere i suoi difetti, che a mio parere si riducono fondamentalmente a una mera questione di gusti personali e poco altro, perdersi un'opera d'arte come questa, creata con così tanta fatica da un artista così ispirato, sarebbe un crimine contro voi stessi. 

Megalopolis è un film difficile, lungo, sovraccarico di dialoghi, personaggi e simbologie... ed è esattamente questo che lo rende un'esperienza unica.
La discussione sull'ultima opera di Francis Ford Coppola durerà probabilmente per anni, forse per decenni. Se sarà ricordato come un Quarto potere o come un I cancelli del cielo, sarà il tempo a dirlo. In ogni caso, sarà ricordato come un grande film.


Dati tecnici


Regia: Francis Ford Coppola

Anno: 2024

Paese di produzione: Stati Uniti d'America

Casa di produzione: American Zoetrope, Lionsgate

Fotografia: Mihai Mălaimare Jr.

Montaggio: Cam McLauchlin, Glen Scantlebury, Robert Schafer

Musiche:  Osvaldo Golijov, Grace VanderWaal

martedì 8 ottobre 2024

BEETLEJUICE BEETLEJUICE: TIM BURTON È ANCORA RILEVANTE



Salve a tutti gente, e bentornati! È da un po' che non ci vediamo su questi lidi... 
Di questo mi scuso, ma questi mesi sono stati per me un turbinio di impegni e cose da fare, tra esami, laurea e la sempre impigrente estate. Nel darvi il bentornato, ci tengo a informarvi che se il mio tempo a disposizione per scrivere su questo blog è scarseggiato, la mia attività da cinefilo ha continuato a proliferare come sempre.
Ed è stato l'assistere al grande ritorno di uno dei miei artisti preferiti ("regista" suona fin troppo limitante e ordinario) che mi ha concesso di ritrovare la voglia e la spinta per sproloquiare sulla nostra amatissima Settima Arte.

Più di due anni fa, recensii su questo blog uno dei miei film preferiti di Tim Burton, quel Beetlejuice che nel 1988 rivoluzionò il panorama della commedia fantasy con la sua esplosiva mistura di kitsch, pop, dark e glam, lasciando un segno indelebile nell'immaginario collettivo orrorifico/soprannaturale con qualcosa che raramente si era visto prima, per lo meno in veste di commedia per il grande pubblico.
Ebbene, quest'ultimo periodo ha visto il ritorno sul grande schermo del vecchio Tim proprio con un sequel di Beetlejuice, e ovviamente non potevo tirarmi indietro.
Le perplessità, per quanto mi riguarda, non mancavano di certo: come sempre più spesso vediamo accadere, si tratta di un sequel uscito a decenni di distanza dall'originale, da un regista che mancava dalla sala da 5 anni e i cui ultimi lavori non mi avevano certo fatto gridare al capolavoro, menomati dal soffocamento della poetica dell'autore sotto budget colossali e obbedienze forse troppo cieche alle esigenze delle grandi major che li hanno prodotti. Tuttavia, l'insaziabile appetito di cinema d'autore ha avuto la meglio, e mi sono recato al cinema, pur con colpevole ritardo, a svolgere il mio dovere di cinefilo.

E partiamo da questa definizione: Beetlejuice e il suo seguito sono a tutti gli effetti cinema d'autore. La prima lezione che la ventesima pellicola del maestro di Burbank ci insegna è vecchia, scontata e ridondante, eppure ancora oggi necessaria: autorialità e genere non sono due entità separate, sono anzi due anime della stessa arte che non potrebbero esistere l'una senza l'altra e che quando si incontrano danno vita alle migliori espressioni di cinema. 
E raramente questa verità è stata meglio dimostrata che in questo ispiratissimo sequel, ben lungi dall'essere l'ennesima auto-cannibalizzazione nostalgica, quanto più che altro una decisa e aggressiva dichiarazione di autoaffermazione da parte di un autore (ribadiamolo) finalmente privo di restrizioni, che riesuma, è proprio il caso di dirlo, una delle sue opere più fondative per riapplicarla ai tempi odierni, estremamente diversi da quelli del 1988.
Ma non fraintendete: questa profanazione della tomba degli anni '80 non è votata a una sterile e morbosa necrofilia, tutt'altro; perché la seconda lezione che apprendiamo è che il Burton riesumato non ha perso un'oncia della vitalità che ha caratterizzato i suoi lavori migliori. Tutto ciò che, consapevolmente o meno, ci ha sempre fatto amare il Burton artista si dimostra qui più immortale che mai, ed ecco che Mario Bava, la musica, pop, il gotico, l'Espressionismo, i bellicosi scontri generazionali si applicano perfettamente e sorprendentemente anche al 2024 d.C., in un modo che solo qualcuno con una visione decisa e incorrotta può orchestrare.

Il fan-service è senz'altro presente, come del resto è inevitabile, e il vecchio Tim
gestisce alla perfezione anche questo, tra citazioni non solo al primo Beetlejuice, tutte perfettamente contestualizzate e mai fini a se stesse, ma anche ad altri capitoli della sua filmografia e ad altri maestri che solo un vero amante della Settima Arte potrà riconoscere, apprezzare e godersi appieno (impossibile non citare in particolare un sentitissimo omaggio a un grande maestro italiano di cui non farò il nome). Piccole chicche che rendono ancora più gradevole la fruizione di un'opera d'arte, perché questo è, che non vive in funzione del capolavoro che l'ha preceduto, ma che si regge in tutta la sua grandiosità visiva, narrativa e sotto-narrativa, riprendendo vecchi temi mentre ne sviluppa altri, nuovi, adatti sia a questi personaggi invecchiati e non completamente identici a quelli che conoscevamo, sia a quelli nuovi, attuali, specchio di nuove generazioni che Burton tratteggia al tempo stesso con una dolcezza e una cattiveria talmente ispirate da sembrare quasi inconcepibili per un regista di 66 anni. 
La sceneggiatura è di Alfred Gough e Miles Millar, già con Burton al timone della serie Mercoledì, ed è un perfetto punto di partenza per la lucida follia di un Burton che sembra più giovane che mai, tra soluzioni registiche e di fotografia che restano impresse nelle retine dello spettatore esattamente come fu per quelle di Edward mani di forbice, Ed Wood o Batman Returns, quest'ultimo unico altro sequel diretto da Burton e, anche questo, tra i migliori e più rappresentativi esponenti della sua arte.

Ed anche gli interpreti sono eccellenti, dalle redivive Winona Ryder e Catherine O'Hara alle new entry Monica Bellucci, Jenna Ortega e Justin Theroux, calati con naturalezza in personaggi non solo coerenti all'interno del mondo che conoscevamo e che qui ritroviamo, ma coerenti con l'impronta visiva e filosofica del regista in generale; Delores, Astrid e Rory potrebbero essere di casa in qualsiasi produzione burtoniana dei suoi anni d'oro, con la loro presenza scenica, le loro idiosincrasie, le loro forze e debolezze; sono anche loro delle meravigliose contraddizioni, riflesso di quella gigantesca contraddizione che è il nostro mondo e che il nostro Burton non si stanca mai di sottolineare.

Monica Bellucci nei panni
della mefistofelica Delores
Farei un grande torto a Michael Keaton se non citassi il suo sfavillante ritorno nei panni del demone che dà il titolo al film, anche se suona quasi superfluo: cosa si può dire su un grande interprete come Keaton che riprende quello che è probabilmente il ruolo più iconico della sua carriera? Immagino che il miglior complimento che potrei fargli sia questo: dimenticate lo stanco e pietoso "Batman" ripreso per The Flash di Andy Muschietti, qui assistiamo a un Keaton completamente all'opposto, vibrante, estroso; è il Beetlejuice che conosciamo, né più né meno, e il meraviglioso climax nel terzo atto del film ne è l'inconfutabile dimostrazione.

Beetlejuice Beetlejuice non è solo un ottimo sequel, il che sarebbe già un risultato più che notevole di questi tempi, è molto, molto di più. È un'opera di grande ispirazione scenica, narrativa e musicale, ed è soprattutto una grande eredità. Un'eredità di un artista ancora in attività e che si spera (almeno da parte mia) resti in attività ancora per molto tempo, un artista che si presenta in questo momento storico con una perfetta sintesi del suo cinema, un cinema che da oltre quarant'anni è manifesto di creatività, vivacità e amore per tutto ciò che è strano e oscuro.

Tim Burton è tornato, e noi reietti siamo pronti a seguirlo di nuovo.


Dati tecnici


Regia: Tim Burton

Anno: 2024

Paese di produzione: Stati Uniti d'America

Casa di produzione: Warner Bros.

Fotografia: Haris Zambarloukos

Montaggio: Jay Prychidny

Musiche: Danny Elfman