Da un
po' di anni si ha la sensazione che il cinema, nato a fine '800 come
meraviglia avveniristica al limite del fantascientifico, sia
diventato un'arte rivolta più verso il passato che verso il futuro.
Stiamo vivendo un'epoca di nostalgia, di passatismo e di
rivalutazione a tutti i costi, in cui franchise
morti da anni vengono riesumati e le posizioni più alte nelle
classifiche degli incassi sono riservate spesso a sequel come Top
Gun: Maverick, concepiti e
percepiti alla stregua di veri e propri manifesti di apologia nei
confronti di contesti culturali (e superficiali) a cui guardare
indietro con una glorificata nostalgia e un velo di malinconico
rimpianto. Una tendenza, questa, sempre più opprimente, che non
accenna a cedere il passo, che continua a catalizzare l'attenzione di
un pubblico sempre più impigrito e sempre più a suo agio
nell'inerzia in cui il cinema di largo consumo sembra essersi
rifugiato, refrattario come mai prima d'ora a quella spinta
innovativa così tanto presente ai suoi esordi.
Fortunatamente,
come per tutte le cose, anche all'interno di questo panorama
stagnante c'è spazio per un rovescio della medaglia. Artisti che si
distinguono guardando al passato per costruire il futuro, che
imparano dalla tradizione per inventare i se stessi che sono e
saranno. Persino autori navigati come Quentin Tarantino, Martin
Scorsese, Woody Allen, David Cronenberg hanno tirato fuori, con le
loro ultime opere, qualcosa che va ben oltre il semplice rivangare un
passato glorioso, che si rifanno sì al (auto)citazionismo ma che
funzionano prima di tutto come potenti rivendicazioni delle
rispettive poetiche in un'epoca moderna completamente diversa da
quelle da cui provengono, poetiche che nonostante, anzi, grazie al
passare decenni, durante i quali sono maturate ed evolute, risultano
ancora più che mai attuali e di rilievo.
Ciò
che è interessante riguardo Il sol dell'avvenire,
ultima fatica di Nanni Moretti presentata a Cannes, è come si
inserisca perfettamente in questo stesso contesto, con in più un che
di sognante che la rende vicina ad uno spirito che oserei definire
tarantiniano.
A 70 anni di età e dopo quasi 50 anni di carriera,
l'autoreferenzialità che Moretti inserisce immancabilmente nelle sue
opere raggiunge forse il culmine: il metacinema, la disillusa critica
politica di sinistra, le idiosincrasie, l'amore per la musica pop
italiana, tutto ritorna prepotentemente, ma mai con lo stesso
identico spirito visto in pellicole precedenti. Le autocitazioni a
Moretti stesso e al suo cinema sono parte integrante dello spirito
dell'opera, negli attori feticcio (Silvio Orlando e Margherita Buy
in primis), nelle tematiche, nella stessa presenza in scena del
regista, che torna ad essere protagonista al 100% svestendosi di
vecchi alias come quello di Michele Apicella, e presentandosi con il
suo nome di battesimo, Giovanni, e la sua personalità.
Non è
certo la prima volta, nella pluridecennale filmografia del regista,
che tutto ciò avviene, ma qui sembra acquisire una valenza
profondamente diversa.
Nella storia di un regista (naturalmente)
che cerca di girare un film pessimista e polemico spinto da forti
ideali politici si intravede l'eredità di opere precedenti come Il
caimano o Aprile,
riemerge la visione spassionata e di poche speranze di Ecce
bombo, permane la sferzante
ironia autocritica di Caro diario,
ma il tutto non è semplicemente messo in scena in virtù di una
sterile retroattività. Moretti guarda dentro se stesso e dentro il
suo cinema come non aveva mai fatto, e arrivati alle battute finali
del film, dopo aver toccato forse il fondo con una delle scene più
drammatiche ma allo stesso tempo sobrie dell'intera filmografia del
regista, tutto si ribalta completamente, le carte in tavola vengono
rimescolate e da un'amara riflessione sulle sconfitte, sia personali
che di una grossa fetta della generazione italiana figlia degli anni
di piombo, si passa improvvisamente a quello che meno ci si
aspetterebbe da un artista di questo tipo, di quest'età e di questa
formazione artistica e politica: un inaspettato inno di speranza, una
sorta di bagliore in fondo al tunnel che rende Il sol
dell'avvenire (e da qui il
titolo particolarmente azzeccato) l'opera forse più positiva mai
girata da Moretti.
Ed è così che alla fine, dopo un'ora e mezza pregna di riflessioni, eppure tutt'altro che pesante, il film assume un valore testamentario, si trasforma in una summa della poetica e della filosofia di una persona, prima che di un artista, una persona che mi sembra ormai di conoscere più di quanto avrei mai immaginato, nonostante lo segua da pochissimi anni.
Potrà risultarvi molto strano, e risulta strano anche a me, quanto io mi senta rappresentato dalla poetica di un uomo con più del doppio dei miei anni, ma è anche questa la bellezza del cinema di Moretti: parlando di sé, parla un po' di tutti noi, e questo è forse l'aspetto del suo cinema che meno è cambiato in tutti questi decenni.
Tutte queste mie righe e tutto il testamento cinematografico di questo autore si materializzano magnificamente nel finale del film, felliniano fino al midollo e di fronte al quale tanto gli ex ventenni che erano presenti fin dai tempi di Io sono un autarchico, sia i molti ventenni di adesso che hanno scoperto da poco la sua filmografia e che vi si riconoscono, non potranno non commuoversi ripensando ad uno dei percorsi artistici più sinceri e unici dell'intero panorama cinematografico italiano. Un percorso che ci ha dato davvero tanto e che, speriamo, non sia ancora finito.
Grazie, Nanni.
Grazie di tutto.
Dati tecnici
Regia: Nanni Moretti
Anno: 2023
Paese di produzione: Italia, Francia
Casa di produzione: Sacher Film, Fandango, Rai Cinema, Le Pacte
Fotografia: Michele D'Attanasio
Montaggio: Clelio Benevento
Musiche: Franco Piersanti
Bello il film e bellissima l'analisi!
RispondiEliminaGrazie mille! 🙏
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