Credo sia stato il 2017 quando mi
approcciai per la prima volta a Breaking Bad. Di serie ero
ancora praticamente a digiuno e, salvo una manciata di sit-com qua e
là, non avevo ancora fatto il grande salto. Quel salto che ti fa
passare dalla normale programmazione Mediaset del pomeriggio alle
Serie, quelle con la S maiuscola.
Non sono sicuro se il
capolavoro televisivo di Vince Gilligan fu effettivamente il mio
primo grande salto o se fu preceduto da un'altra pietra miliare come
Twin Peaks o da una Game of Thrones ancora sopra la
soglia del guardabile. In ogni caso, credo di poter dire con
tranquillità che il mio rapporto iniziale con Breaking Bad è
stato lo stesso di tutti voi che state leggendo: attirato dalle lodi,
l'ho cominciata (con colpevole ritardo) e già dopo pochi episodi non
riuscivo a staccarmene. I personaggi, la regia, la fotografia, la
scrittura assolutamente perfetta ne facevano una delle storie meglio
raccontate che, ancora oggi, io abbia mai fruito.
Morale della favola: in pochi mesi
l'avevo vista tutta, ed è entrata a pieno diritto tra le mie serie
preferite in assoluto. In questi anni ho recuperato molte altre perle
televisive che ho adorato, dai Soprano a Lost, da
Scrubs a The Office, ma nessuna di queste ha mai
scalzato Breaking Bad dal suo podio.
Poi, nel 2020, mi decisi finalmente a
cominciare Better Call Saul, perplesso come tutti della buona
riuscita di uno spin-off tratto da una serie così perfetta e con
un'attenzione così maniacale alla sua narrazione. Il mio tipico
scetticismo nei confronti di operazioni del genere mi faceva temere
che sarebbe stata una semplice spremitura di un franchise di
successo, come in parte era stato con El Camino, film
televisivo sul personaggio di Jesse Pinkman tanto godibile quanto non
necessario.
E adesso, dopo due anni di visione, due
anni intensi fatti di tensione da pelle d'oca costante, fragorose
risate e pugni allo stomaco, dopo sei stagioni di (de)costruzione di
un personaggio di cui pensavo di sapere già tutto ciò che avevo
bisogno di sapere, posso affermarlo con assoluta e risoluta certezza:
non solo Better Call Saul, co-creata da Gilligan insieme a
Peter Gould, è uno spin-off perfettamente degno dell'originale, ma è
probabilmente uno dei migliori spin-off della storia della
televisione.
Prima di motivare questa mia forte
affermazione, c'è una domanda inevitabile da porci: cosa rende uno
spin-off qualcosa di valido? La storia della televisione non manca
certo di esempi, la maggior parte dei quali tristemente noti, ma se
pensiamo che serie come I Jefferson, Star Trek - The Next
Generation e Otto sotto un tetto sono tutte spin-off di
altri prodotti di successo di altrettanta importanza, è facile
rendersi conto di come in realtà siamo circondati da questo fenomeno
fin dagli albori della televisione.
Per rispondere alla domanda, la prima
qualità che uno spin-off dovrebbe avere per quanto mi riguarda è
chiara: uno scopo.
Per quanto ne sapevamo, quello che
vedevamo del carismatico Saul Goodman in Breaking Bad
poteva tranquillamente bastare: un furbo e truffaldino avvocato
dedito ad affari con personaggi non esattamente limpidi, che si
associa a Walter e Jesse aiutandoli a gestire la loro attività
criminale, naturalmente dietro lauto compenso. Un personaggio che
svolgeva perfettamente, all'interno del microcosmo televisivo creato
da Gilligan, un ruolo tipico non solo del linguaggio televisivo, ma
spesso anche di quello cinematografico, a cui più volte BB è stata
accostata: quello della spalla comica. Il comic relief
ha un ruolo fondamentale nella finzione drammatica, serve a spezzare
la tensione, a risollevare gli animi quando le situazioni si fanno
troppo estreme e gli spettatori hanno bisogno di una boccata d'aria,
e Saul, seppur intriso della nera ironia tipica della scrittura di
Gilligan e soci, era in questo senso un pezzo essenziale e funzionale di questo
fantastico mosaico. Insomma, il poco che sapevamo sul suo conto
bastava eccome a renderlo uno dei personaggi più amati dal pubblico,
nonché, tra l'altro, il mio preferito dell'intera serie.
Tra le
leggi della televisione più sacre, ma anche tra le più violate, c'è
quella secondo la quale porre il comic relief
al centro dell'azione, facendolo protagonista anziché comprimario, sarebbe un madornale errore, poiché estrapolandolo dal suo contesto di
secondarietà e di supporto rischierebbe facilmente di risultare snaturato
e fastidioso. Pensate a quello che è successo a Joey Tribbiani, tra
i personaggi più amati di Friends,
fonte inesauribile di gag ma al tempo stesso dolce, sensibile e
leale, trasformato in una rozza parodia di se stesso nello spin-off a
lui dedicato, Joey.
Ma ciò che salva
Better Call Saul dalla mediocrità è, appunto, il suo scopo:
non è un sottoprodotto di Breaking Bad, ne è una naturale
propaggine narrativa. In un mondo in cui sembra non esserci spazio
per nient'altro che “universi” narrativi, dall'apparentemente
infinita epopea Marvel a realtà simili del piccolo schermo (pensiamo
al cosiddetto Arrowverse della CW, scaturito da serie come
Arrow e The Flash), una serie come questa, che si incastra
(quasi) perfettamente come il pezzo di un puzzle all'interno del
tessuto narrativo del suo illustre predecessore, senza mai apparire
forzata o ingiustificata, non è altro che un vero e proprio
miracolo. Piuttosto che un claudicante castello di carte sempre più
a rischio di crollare ad ogni aggiunta abusiva alla sua precaria
struttura, situazione a cui il pubblico di massa si sta sempre più
abituando, Better Call Saul rappresenta un capitolo in più,
delle pagine nascoste fra le pieghe di una storia ancora non
raccontate, ancora tutte da scoprire. Che un personaggio come Saul
Goodman nascondesse molta storia non detta si intuiva fin da subito,
grazie alla scrittura densa di sottotesti a cui Gilligan e il suo
team ci avevano abituato fin da subito, ma nessuno di noi poteva
immaginare quanto quel terreno inesplorato della continuity fosse
vasto, e sopratutto quanto valesse la pena di essere raccontato. Il
personaggio di Saul, quel simpatico comprimario che pensavamo di
conoscere così bene, viene sviscerato a fondo, prima di tutto
svelandone la sua vera identità, quella di Jimmy McGill:
carismatico, azzardato e sicuro di sé quando è camuffato da una
miriade di identità fittizie (da Slippin' Jimmy a Gene Takavic,
passando addirittura per Kevin Costner), Jimmy non è altro che un
uomo insicuro, fragile, incapace di essere soddisfatto di se stesso,
costantemente dipendente dall'approvazione delle persone che più
hanno segnato la sua vita.
Nel magnifico cult Trainspotting
di Danny Boyle, il sociopatico Frank Bagbie veniva descritto con
questa frase: “Bagbie non si faceva di droga; lui si faceva di
gente”. Lo stesso potremmo dire di Jimmy, visti i rapporti
turbolenti e insani che costellano la sua esistenza e che lo hanno
portato alla sua “onorata” carriera: dal perenne muro di rivalità
e rancore fra lui e suo fratello maggiore Chuck (interpretato da
Michael McKean, comico rivelatosi grandioso in un ruolo
drammaticissimo) alla relazione tossica al limite della co-dipendenza
che lo lega alla sua amica, poi fidanzata e infine moglie Kim Wexler
(una straordinaria Rhea Seehorn), Jimmy sembra destinato non solo
all'autodistruzione, ma alla disintegrazione di tutto ciò che tocca,
di tutto ciò che nella vita potrebbe renderlo felice.
Potrei
andare avanti per pagine e pagine a descrivere la psicologia di Jimmy
McGill e dei fantastici personaggi che lo circondano, tanto quelli
nuovi quanto quelli già conosciuti in Breaking Bad (Mike
Ehrmantraut in primis, di cui scopriamo molto di più), ma il punto a
cui voglio arrivare è questo: Jimmy/Saul è un personaggio dallo stesso
spessore di Walter White, di cui, anzi, costituisce il perfetto
contraltare. Se Jesse Pinkman era fondamentalmente una vittima degli
eventi, Walt rappresentava la discesa volontaria di un uomo nel
baratro dell'illegalità, arrivando a rivelare il peggior lato di se
stesso, sepolto da tempo immemore ma sempre presente, in attesa che
la vita gli serva l'occasione giusta per fuoriuscire; Jimmy, dal
canto suo, sembra una figura molto più innocente, che si macchia di
reati molto gravi ma che non supera mai una certa linea di
demarcazione, linea che Walter White, barricato dietro la scusa di
voler aiutare la sua famiglia, calpesta e supera più volte,
mostrando sempre meno scrupoli. Jimmy fa quello che fa perché non ha
altra scelta, perché la vita “civile” l'ha sempre preso a pesci
in faccia, e l'unico modo per sentirsi vivo è vivere sul filo del
rasoio, al limite della legalità.
Al contrario di Walt, con cui
lo spettatore empatizza all'inizio ma che si ritrova spesso a odiare,
Jimmy non è mai completamente colpevole delle sue malefatte: molte
volte, nel corso delle sei stagioni della serie, cerca di cambiare,
di redimersi, di prendere la decisione giusta, ma ogni volta che si
mostra un minimo vulnerabile ecco che la vita torna a pugnalarlo alle
spalle, che sia sottoforma di suo fratello, o del suo capo, o di chiunque altro. Al punto
che quando le sue azioni superano veramente il limite, arrivando a
causare inavvertitamente la morte di un personaggio innocente, più
che un senso di odio quello che si prova è un senso di impotenza, di
disperazione, di riluttante rassegnazione per una tragedia che, ne
siamo certi, poteva tranquillamente essere evitata. L'odio si avverte
più che altro per le ingiuste implicazioni che hanno trascinato
Jimmy nella posizione in cui si trova, che lo ha reso una vittima, un
fuscello in balìa del vento.
La sorte sua, di Chuck, di Nacho
Varga, di Howard Hamlin e di tutti i personaggi che incontra sul suo
cammino, è frutto non di una sua deliberata meschinità, ma del suo
tentativo di avere un proprio riscatto, una consolazione per non
essere riuscito a dimostrare, a se stesso prima di tutto, di essere
molto più di quello che gli altri hanno sempre dipinto,
rappresentato da elementi iconici come i completi variopinti e i macchinosi spot
pubblicitari destinati alle TV locali del New Mexico.
E così,
una volta arrivati al finale di serie, tra i più intensi che io
abbia mai visto, è impossibile non rendersi conto di come uno scopo,
Better Call Saul, l'abbia avuto eccome. A rimanere con noi,
una volta conclusa la visione, è la consapevolezza di aver assistito
ad una tragicommedia umana che forse, per certi versi, è ancora più
amara di quella grandiosamente narrata in Breaking Bad, perché
non meritata, non giustificata, ingiusta. Sia Walt che Jimmy, alla
fine, hanno avuto quello che si meritavano, pagando per le proprie
colpe ognuno a modo loro, in modo equo.
Ma, laddove Walter White
ha avuto una fine ingloriosa, ormai estraniato dai suoi affetti e con
il peso insostenibile di decine di morti e altre nefandezze sulla
coscienza, la fine riservata a Jimmy ha un che di eroico. Quando i
crediti iniziano a scorrere sul bianco e nero di quell'ultimo
episodio, quella che ci accoglie è una sensazione sì di amarezza,
ma anche, incredibilmente, di ottimismo. Una speranza che forse, al
contrario In quello che si poteva trarre da Breaking Bad, le
persone possono cambiare, anche quando non ce l'aspettiamo.