mercoledì 6 dicembre 2023

SPECIALE HALLOWEEN (IN RITARDO): SUSPIRIA, DI DARIO ARGENTO

Amici e amiche, bentornati su questi spettrali lidi, come ogni ottobre, per la recensione di Halloween. Come? È già dicembre e quest'introduzione è datata? Beh, vi chiedo scusa per questo ritardo e spero che mi perdonerete per essermi abbandonato alla mia tipica procrastinazione. Dunque... buona Halloween in ritardo!

Se due anni fa vi ho parlato del capolavoro di John Carpenter che di questa festività anglosassone porta il nome, mentre l'anno scorso  del suo remake di Rob Zombie, quest'anno restiamo a casa, con un classico dell'horror nostrano.
Perché sì, come vi dissi in questa sede due anni orsono Halloween è la pellicola che più associo al 31 ottobre e all'autunno in generale, ma un altro capostipite del genere che ogni anno non può mancare nella mia maratona dello spooktober è Suspiria, di Dario Argento, 1977. Non si tratta solo di uno degli horror che preferisco in assoluto, ma di uno dei miei film italiani preferiti di sempre, testimone e caposaldo di un'epoca in cui l'Italia era ancora al centro dello scacchiere mondiale per quanto riguarda la settima arte.

Reduce dall'ottima trilogia degli animali, che riportò alla ribalta quel thriller/giallo all'italiana già innalzato da maestri come Mario Bava, e dal travolgente successo di Profondo rosso, che segnò la vera svolta horror al 100%, Argento tocca con Suspiria l'apice della sua carriera a livello artistico.
Ispirato da decine di influenze diverse, che vanno dalla lettura di fiabe all'Espressionismo tedesco, passando per la dichiarata ispirazione al Biancaneve e i sette nani di Disney, è l'opera di Argento che più si avvicina alla perfezione, l'unica o una delle poche in cui ogni singolo elemento filmico si incastra perfettamente l'uno con l'altro per andare a creare un'esperienza sensoriale di rara bellezza nel panorama del genere. 

L'ottima Jessica Harper, che interpreta l'aspirante ballerina Susy Benner, è stata scelta dal regista dopo averla apprezzata nel Fantasma del palcoscenico del maestro Brian De Palma, forse il primo dei tanti botta e risposta tra i due autori, che spesso si influenzeranno a vicenda. L'ambientazione è una prestigiosa accademia a Friburgo, ricostruita tra la vera Friburgo, Monaco di Baviera e la Foresta Nera in Germania, non a caso la patria dei fratelli Grimm, ispiratori con le loro fiabe di una gigantesca fetta dell'immaginario gotico che permea questa e altre opere del cinema horror. Il soggetto, suggerito dall'allora compagna del regista Daria Nicolodi, coinvolge una congrega di streghe nascosta in un luogo apparentemente normale, e una nuova arrivata che se ne ritroverà senza volerlo al centro.
La fotografia del grande Luciano Tovoli è espressionista nel senso più letterale, con rossi, blu e ocra estremamente accesi per dare allo spettatore sensazioni sempre diverse, esattamente come si faceva ai tempi del muto con la colorazione delle pellicole. Il suggestivo risultato dato da questo uso delle luci è stato ottenuto anche grazie a un fantastico impiego del Technicolor, ai tempi già caduto in disuso e che qui vede uno dei suoi ultimi utlizzi. Il risultato, lo ribadisco, è grandioso, con i colori che riempiono lo schermo e fanno brillare ogni splendida, ardita inquadatura.

Anche per quanto riguarda le musiche, Suspiria batte tutte le altre composte per i film del regista romano prima e dopo: Claudio Simonetti e i suoi Goblin superano se stessi con un capolavoro di colonna sonora, suggestiva ancor di più dei pur splendidi temi di Profondo rosso. Si tratta di una di quelle musiche in grado di trasportarti con la mente a un particolare momento nel tempo o nello spazio, non è un caso infatti che ogni volta che mi entrano nelle orecchie non posso non pensare all'autunno, ai cieli nuvolosi e alle foreste dagli alberi spogli, ed un brivido freddo mi scorre sempre sulla schiena, a prescindere che sia ottobre o agosto.

Jessica Harper nel ruolo di Susy Benner

Le scene clou sono troppe per citarle tutte, ed oguna di esse trasuda una creatività che raramente si vedrà più nella filmografia di Argento, e in generale nel cinema di genere italiano tutto. Mi sento in dovere di menzionare quantomeno la scena del filo di ferro, per la quale fu usato del vero fil di ferro e dovette essere girata in un solo take per evitare che l'attrice Stefania Casini si facesse troppo male, e soprattutto la famosa scena dell'omicidio alla Königsplatz di Monaco, un capolavoro di tecnica e inventiva che non mi azzarderò a rivelare in questa sede nel caso qualcuno non avesse ancora recuperato questa perla.

Suspiria uscì nelle sale italiane il 1° febbraio 1977, con critiche tiepide a fronte dell'ottimo successo al botteghino, e aprì la strada a una trilogia che forse sarebbe dovuta non essere tale, ma di questo magari vi parlerò in futuro. 
Mi limito a congedarmi sentenziando che sì, Suspiria è decisamente il capolavoro che tutti dicono, a mio parere la miglior opera mai partorita da Dario Argento, tra gli autori più amati e criticati dello Stivale. E se per caso siete tra quelli che hanno apprezzato l'ottimo remake realizzato da Luca Guadagnino nel 2018, vi consiglio di tornare alle radici ed unirvi anche voi alla congrega delle streghe di Friburgo.

Buon dicembre!

Dati tecnici

Regia: Dario Argento

Anno: 1977

Paese di produzione: Italia

Casa di produzione: SEDA Spettacoli

Fotografia: Luciano Tovoli

Montaggio: Franco Fraticelli

Musiche: Goblin


martedì 24 ottobre 2023

FRESCO DI CELLULOIDE: KILLERS OF THE FLOWER MOON, DI MARTIN SCORSESE

È sorpredente constatare come alla veneranda età di 80 anni un autore con decenni di attività sulle spalle come Martin Scorsese abbia ancora voglia di sperimentare, di mettersi in gioco, di affrontare generi e stili mai toccati prima. A molti spettatori della domenica la cosa sfugge, ma quando parliamo di Scorsese parliamo di un autore estremamente versatile e completo, capace di gestire con uguale maestria il dramma, la commedia, il film sportivo, il musical e persino il film per ragazzi, come dimostrato dal magnifico Hugo Cabret. Insomma, il suo contributo alla settima arte va ben oltre il gangster movie, filone a cui viene sempre associato e che ha impreziosito con capolavori di cui non penso sia necessario fare i nomi in questa sede.

Con Killers of the Flower Moon il maestro italoamericano tocca per la prima volta il western, ma ovviamente lo tocca a modo suo: come fu per il Tarantino di Django e The Hateful Eight, Scorsese si appropria dell'ambientazione western per marchiarla a fuoco con la sua impronta, adattandosi alle esigenze narrative e stilistiche della vicenda che vuole raccontare senza perdere un briciolo della sua poetica. La base del soggetto è quella di un reale fatto di cronaca risalente ai primi del '900, da cui Scorsese prende spunto per firmare una vera e propria apologia, una sorta di scusa collettiva nei confronti di un popolo, anzi dei popoli, che l'America ha sterminato e perseguitato per secoli. Un genocidio il cui sangue macchia le mani di tutti gli americani, o almeno è questo che sembra voler dirci il regista: nessuno è totalmente innocente, finché fatti come la serie di omicidi che negli anni '20 ha interessato la comunità di nativi Osage dell'Oklahoma rimarranno nell'ombra.
È un film che prosegue un fil rouge che lo lega ad altre grandi opere come Gangs of New York, attraverso il quale si narra di come la storia degli Stati Uniti in realtà non sia poi così gloriosa, di come le sue fondamenta siano state costruite sulla violenza, sulla prevaricazione, su una minoranza che schiaccia tutte le altre nascondendosi dietro concetti altisonanti come la libertà, l'autodeterminazione, l'unione. Particolarmente efficace in questo senso è il finale, dove Scorsese mette a nudo se stesso quanto lo spettatore, e lo pone di fronte alla sua storia, al suo presente, alle sue responsabilità.

Certo, Killers of the Flower Moon, dall'omonimo saggio del giornalista David Grann, è un film molto lungo: quasi tre ore e mezza di cui forse almeno una ventina si poteva fare a meno, ma sono convinto che sia anche una scelta consapevole da parte del regista e della sua storica montatrice, la leggendaria Thelma Schoonmaker: in un'epoca di consumo rapido e insapore, l'ultima fatica di Martin Scorsese rappresenta un necessario slow food, un'esperienza da subire (rigorosamente davanti al grande schermo) fino in fondo, senza scorciatoie o mezze misure. Persino i protagonisti, i divi Di Caprio e De Niro, vengono calati in ruoli insoliti per le rispettive carriere. Quasi che l'autore volesse 
sottolineare ancora di più  la sua emancipazione da ciò che su di lui viene solitamente proiettato, da quegli stereotipi che gli vengono affibbiati quando i più pretenziosi decidono di additarlo come "stanco", "vecchio" e "obsoleto".

Killers of the Flower Moon non è forse un capolavoro, e del resto è ancora presto per dirlo, ma è l'ennesima dimostrazione che, nonostante l'età, Scorsese e il suo cinema sono più vivi che mai.

Dati tecnici

Regia: Martin Scorsese

Anno: 2023

Paese di produzione: Stati Uniti d'America

Casa di produzione: Paramount Pictures, Apple TV+

Fotografia: Rodrigo Prieto

Montaggio: Thelma Schoonmaker

Musiche: Robbie Robertson


mercoledì 4 ottobre 2023

FRESCO DI CELLULOIDE: ASTEROID CITY, DI WES ANDERSON

Sono sempre elettrizzato quando esce un nuovo film di Wes Anderson. Non solo perché è uno dei miei registi preferiti e uno degli autori più interessanti e riconoscibili degli ultimi anni, ma perché sono sempre molto interessato alle impressioni nettamente discordanti che i suoi lavori lasciano immancabilmente su pubblico e critica. Credo che sia dai tempi dell'Isola dei cani, seconda incursione del regista nell'animazione, che un suo film non veniva universalmente osannato tanto dalla critica che dai suoi (pochi) spettatori. The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun, da me molto apprezzato, aveva già fatto alzare qualche sopracciglio e storcere qualche naso, e sicuramente gli innumerevoli meme e parodie che ironizzano sul peculiare e distintivo stile dell'autore texano hanno aiutato a cementificare una sorta di stanchezza collettiva nei confronti dei suoi colori pastello, delle sue inquadrature simmetriche e della sue colonne sonore dal sapore vintage.

Ebbene, se appartenete a questo gruppo di detrattori, o anche solo se tutte queste caratteristiche vi hanno semplicemente stancati, probabilmente non apprezzerete più di tanto questo Asteroid City, undicesima fatica di Anderson presentata come sempre a Cannes.
Gli elementi incriminati ci sono tutti: fotografia calda quasi da cartolina, in cui la fanno da padroni l'azzurro limpido del cielo e il marrone chiaro del deserto e delle rocce, geometrie precisissime (e kubrickiane) che descrivono con attenzione maniacale gli ambienti, un cast stellare estremamente vasto e variegato e canzoni che accompagnano il tutto che sembrano uscire da una radiolina anni '60 (tanto quelle di repertorio quanto la canzone originale del film, Dear Alien, che vede tra l'altro lo zampino di Jarvis Cocker).

La vera domanda da porsi è: può l'identità di questo film, così come di tutte le altre opere di quest'autore, essere interamente riassunta in questi elementi superficiali? 
La risposta, a mio modesto parere, è un grosso no.
Se Asteroid City non rientra certo fra i 5 migliori film di Anderson, e indubbiamente già a partire dal succitato The French Dispatch è possibile intravedere un po' di maniera, entrambi portano avanti la poetica di quello che, è sempre d'uopo ricordarlo, non è un mero esecutore, ma un artista e un autore completo, che, come ogni artista/autore, porta avanti le sue solite tematiche e le sue solite scelte estetiche per metterle in pratica.

La pellicola, divisa in tre atti, è teatro che si fa cinema e viceversa, una commedia singolare che mette in scena una storia corale densa di soluzioni metanarrative, ma allo stesso tempo carica della tipica, sottile ironia che in questo caso attacca (forse non con abbastanza forza) il governo degli Stati Uniti in un'epoca di guerra fredda. La vicenda si svolge nel 1955 in un immaginarioa zona, denominata appunto Asteroid City, in cui il cratere lasciato dalla caduta di un asteroide millenni prima attira tutta una serie di personaggi tra i più disparati, fra turisti, comitive di ragazzi prodigio che partecipano a un convegno di astronomia, e un uomo he si ritrova con l'auto in panne insieme alle tre figlie piccole e le ceneri della moglie appena defunta. Le storie di tutti questi personaggi, più o meno ben delineate, si intrecciano fra di loro in un groviglio apparentemente intricato, come si intrecciano i tre piani narrativi del film, ovvero la preparazione della commedia, che vediamo in bianco e nero e in 4:3, la commedia stessa, per cui si passa al colore e al widescreen, e il narratore, impersonato da un ottimo Bryan Cranston.

Entrare nel dettaglio sarebbe a mio parere inutile, perché Asteroid City è uno di quei film che parlano da sé. Uno di quei film a cui si potrebbe pensare per mesi o anni senza giungere a un'interpretazione univoca, ma l'unica certezza che si ha giunti ai titoli di coda è che Wes Anderson sta continuando imperterrito per la sua strada portando avanti il suo stile, insofferente alle reazioni confuse degli spettatori e ai lamentosi dissensi dei critici della domenica: la sua ultima fatica, checché se ne dica, dimostra che il suo cinema è più vivo che mai, ed è proprio di questa creatività e originalità che la settima arte ha bisogno.
Andate dunque al cinema e date una possibilità a questo film, e decidete voi se avrete assistito a un colpo di genio o ad una stanca opera di maniera. La mia opinione, seppur non totalmente netta, tende decisamente per la prima ipotesi.

Dati tecnici

Regia: Wes Anderson

Anno: 2023

Paese di produzione: Stati Uniti d'America

Casa di produzione: Indian Paintbrush, Universal Pictures

Fotografia: Robert D. Yeoman

Montaggio: Barney Pilling

Musiche: Alexandre Desplat

domenica 3 settembre 2023

FRESCO DI CELLULOIDE: OPPENHEIMER, DI CHRISTOPHER NOLAN

Ci risiamo. 
Rieccoci su questo blog a parlare di cinema, dopo l'inevitabile pausa estiva durante la quale avrei potuto parlare di molte cose (l'ultimo Indiana Jones, magari, o l'ottantesimo Festival di Venezia... o di Barbie...), se non fosse che, con la sorpresa di nessuno, la pigrizia ha avuto la meglio.
E così eccomi qui, con il solito leggero ritardo che mi contraddistingue, a parlare dell'evento cinematografico dell'anno per rimediare alla carenza di post degli ultimi due mesi.

Naturalmente, è il momento di dire due parole su Oppenheimer, il ritorno dietro la macchina da presa di uno dei registi più polarizzanti degli ultimi anni, Christopher Nolan.
Quel Christopher Nolan che tre anni fa aveva insistito a far uscire il suo Tenet in tutte le sale nonostante la pandemia mondiale, portando la sua casa di produzione a perdite non indifferenti, ma di fatto dimostrandosi definitivo nella riapertura delle sale di tutto il mondo, a cui fortunatamente oggi ci siamo (forse) riabituati.
E al di là della riuscita o meno del film (personalmente non l'ho apprezzato), l'odissea di Nolan del 2020 ha dimostrato definitivamente qualcosa che non per tutti era chiaro: nel bene o nel male, Christopher Nolan è un autore che fa sempre e comunque quello che vuole, pur al netto di alcuni compromessi materializzati in lavori su commissione come il remake di Insomnia o in incursioni fumettistiche più o meno riuscite come la comunque interessante trilogia del Cavaliere Oscuro.

E così, nel 2023, esce quello che per certi versi è il film meno commerciale del regista inglese. Un documento di tre ore sull'agonizzante dimensione interiore dell'uomo che ha contribuito a creare la bomba atomica, J. Robert Oppenheimer, a capo nel 1942 del Progetto Manhattan. 
Il film è girato in buona parte in bianco e nero, i dialoghi sono molto fitti, le implicazioni serissime e l'accusa nei confronti del governo degli Stati Uniti urticante e inequivocabile.

Ed è questo che vorrei sottolineare in questa sede: in un'epoca post-COVID, in cui il sistema cinematografico mondiale sembra essersi lasciato andare a una sorta di sfrenata oclocrazia artistica che tutto poggia sulla soddisfazione del pubblico, a livelli che nemmeno la Hollywood reaganiana anni '80 aveva mai osato raggiungere, uno dei registi più pop del panorama contemporaneo, che egli stesso aveva sguazzato con successo nella forma di cinema mainstream più remunerativa del momento, il cinecomic, sceglie di riaffermarsi come autore con un'opera cupa, per niente ruffiana, che riflette sull'autodistruzione dell'umanità in nome di una pretesa di superiorità (su se stessa!) e che inserisce due interpreti molto associati al cinema d'evasione (Cillian Murphy e soprattutto Robert Downey Jr.) in un contesto in cui non solo brillano come raramente hanno fatto nelle loro carriere, ma in cui sono demitizzati, così come lo è lo stesso Robert Oppenheimer e come lo è la strapotenza atomica che ha portato gli Stati Uniti a vincere una guerra mondiale.
O meglio, come la sceneggiatura firmata dallo stesso Nolan ci tiene a ricordare più volte, una guerra già vinta che l'amministrazione Truman (rappresentato in modo devastante, anche grazie a un interprete a sorpresa straordinario) ha usato come scusa per un volgare sfoggio di potenza fine a se stesso, costato il sacrificio di centinaia di migliaia di vite civili.
Non solo, dunque, il film meno commerciale di Nolan, ma anche il suo più politico, in cui la figura di Oppenheimer e il suo tormento interiore funge da catalizzatore per temi per niente semplici che coinvolgono direttamente la coscienza, morale e politica, di tutti i personaggi e di tutti gli spettatori.

Christopher Nolan
Naturalmente, Nolan non smette di essere Nolan, e il film è curato con attenzione maniacale in ogni suo aspetto tecnico: la grandeur della messa in scena, il montaggio che accavalla più piani temporali con una gestione impeccabile, la fotografia che alterna suggestivamente colore e bianco e nero e gli effetti speciali, in cui la CGI è ridotta al minimo e le esplosioni (compresa quella atomica) sono ricreate davvero, con tanto di ricostruzione dal vero del sito in cui si svolsero i primi test a Ghost Ranch. 
Insomma, la solita cura che Nolan riserva in modo ossessivo ad ogni sua pellicola; e non uso il termine a caso, visto che il tutto è stato girato in pellicola IMAX 70mm, a dimostrazione di quanto l'aspetto visivo venga sempre per primo nel suo cinema.

In passato, quest'ultima caratteristica si è spesso rivelata un'arma a doppio taglio, ma non è il caso di Oppenheimer. Semmai, qui come mai prima d'ora la forma è al servizio della sostanza, una sostanza finalmente esplicita nel suo messaggio e nelle sue prese di posizione.

Tirando le somme, se Oppenheimer, tra i tre migliori film del suo autore e uno dei migliori dell'ultimo decennio, rappresenta il futuro del cinema nolaniano, io sarò sempre in prima fila e in trepidante attesa ogni volta che una sua nuova produzione comparirà all'orizzonte.


Dati tecnici

Regia: Christopher Nolan

Anno: 2023

Paese di produzione: Stati Uniti d'America, Regno Unito

Casa di produzione: Universal Pictures

Fotografia: Hoyte van Hoytema

Montaggio: Jennifer Lame

Musiche: Ludwig Göransson


martedì 11 luglio 2023

SOLDI SPORCHI, DI SAM RAIMI

 Chi è Sam Raimi?


Una domanda semplice ma a cui risponderemmo tutti in modo diverso a seconda della generazione a cui apparteniamo. Per alcuni, è il grande inventore che da un budget ridicolo e una produzione indipendente ha tirato fuori la trilogia della Casa, tra le più iconiche della storia dell'horror; per altri, me compreso, è prima di tutto il regista dei tre Spider-Man con Tobey Maguire, con cui negli anni 2000 ha settato i canoni per un altro genere, quello supereroistico, firmando con Spider-Man 2 uno dei migliori titoli del filone; altri ancora, addirittura, potrebbero associare il suo nome a quello di serie televisive cult degli anni '90 come Hercules e Xena – Principessa guerriera, da lui prodotte e che, nel bene e nel male, hanno segnato l'immaginario televisivo di molti di noi nati negli anni '90.

Ma quando si dà un'occhiata alla sua intera filmografia e si osserva la grande quantità di generi da lui affrontata in quarant'anni di carriera, ci si rende conto che la vera risposta alla domanda di cui sopra non può che essere una e una soltanto: Sam Raimi è un artista.

Ciò che spesso ci si dimentica, infatti, è che dopo aver mosso i primi passi nell'horror e prima di trovarsi a capo di produzioni milionarie da parte di Sony e Disney (sempre e comunque con un certo gusto) il regista del Michigan si è destreggiato con abilità nei generi più disparati, dalla commedia (l'indipendente I due criminali più pazzi del mondo, inaspettato successore del primo La casa) al western (Pronti a morire), dal thriller (The Gift) al dramma sportivo (Gioco d'amore), passando per un cinecomic di nome ma non di fatto come Darkman, pioniere e anticipatore degli exploit ragneschi del nostro negli anni 2000, anche se molto più cupo e... raimiano, passatemi il neologismo.
E tra tutte queste opere, alcune più riuscite di altre ma sempre degne di almeno una visione, quella su cui mi soffermerò oggi è quel dramma del 1998 che risponde al titolo di A Simple Plan e che noi italiani conosciamo come Soldi sporchi.

In un'atmosfera nevosa che rimanda al capolavoro Fargo dei fratelli Coen (amici di vecchia data e collaboratori di Raimi ai tempi delle sue prime regie indipendenti) il settimo film del regista ruota intorno a due fratelli e un loro amico che, durante una camminata in un bosco innevato alla ricerca di una volpe che minaccia il pollaio della fattoria di Hank, il secondogenito, trovano una borsa piena zeppa di banconote all'interno di un aereo precipitato da poco in quella zona. L'intreccio ruota attorno alla decisione da prendere, se tenersi i soldi o denunciare tutto alla polizia, e la crescente preoccupazione e tensione fra i tre non tarderà a ingigantirsi e a trasformare i loro rapporti, specialmente quello fra Hank e suo fratello maggiore Jacob, affetto da una leggera forma di disturbo dell'apprendimento.

Sam Raimi
Per la prima volta alle prese con un soggetto calato in un contesto particolarmente sobrio, Raimi si dimostra ancora una volta perfettamente in grado di adattare il proprio stile alla storia che deve raccontare, facendo per la prima volta un uso massiccio della camera fissa e affidandosi al massimo a lenti movimenti di macchina che si attaccano ai personaggi, alle loro espressioni, e descrivono perfettamente gli ambienti, mentre l'ottimo montaggio di Eric L. Beason e Arthur Coburn fa il resto.
Il tema centrale del denaro e le ambientazioni invernali non possono che far pensare a Fargo, ma un aspetto fondamentale è che qui l'ironia che permeava la pellicola dei Coen anche nei risvolti più drammatici e truculenti è completamente assente: Soldi sporchi è meno una satira nera di stampo poliziesco e più uno studioantropologico , un'analisi su come l'avidità e l'attaccamento al denaro porti inevitabilmente alla corruzione della mente umana e al deteriorarsi sempre più della propria coscienza, tanto da condurre anche il più onesto degli uomini a compiere il più immondo degli atti.
Alla fine, la borsa di soldi è un mcguffin necessario all'autore per focalizzarsi più che altro sulle azioni verso cui i soldi spingono i personaggi, in quella feroce critica allo strapotere del dio denaro sempre presente nelle opere di Raimi. Contribuisce al tutto la bravura degli attori, con un ottimo Bill Paxton in un raro ruolo da protagonista (molti di voi lo ricorderanno per i suoi ruoli secondari in molti film di James Cameron), una convincente Bridget Fonda e soprattutto un memorabile Billy Bob Thornton nel complesso e sfaccettato ruolo di Jacob, premiato giustamente con una candidatura all'Oscar come miglior attore non protagonista.
Il tutto è infiocchetatto alla perfezione dalle ottime musiche di Danny Elfman, tra i principali collaboratori del regista fin dai tempi di Darkman e una delle firme più talentuose nel campo della musica per il cinema, come avrà modo di dimostrare con le sue colonne sonore per i primi due Spider-Man.

Insomma, Soldi sporchi è un neo-noir da antologia che il buon Sam Raimi gestisce con una grazia impeccabile, e, pur essendo forse tra i suoi film meno conosciuti, è uno dei tanti testamenti della sua poliedricità e del suo enorme talento, purtroppo sempre più soffocati sotto lavori su commissione e produzioni mastodontiche che piegano un autore di grande spessore alle brutali logiche del mercato.
Nella speranza in un futuro con più Soldi sporchi, Darkman, e Drag Me to Hell e meno Doctor Strange nel multiverso della follia, vi esorto a recuperare questa piccola perla, dimenticata dai più come molte altre opere del maestro.

Dati tecnici

Regia: Sam Raimi

Anno: 1998

Paese di produzione: Regno Unito, Germania, Stati Uniti d'America, Francia, Giappone

Casa di produzione: Paramount Pictures

Fotografia: Alar Kivilo

Montaggio: Eric L. Beason, Arthur Coburn

Musiche: Danny Elfman

sabato 1 luglio 2023

FRESCO DI CELLULOIDE: IL SOL DELL'AVVENIRE, DI NANNI MORETTI

Benvenuti, amici e amiche, ad una nuova puntata di Fresco di celluloide, la rubrica in cui vi parlo di film appena usciti al cinema. Sì, lo so, ci vuole coraggio da parte mia per includere in questa rubrica un film presente nelle sale già da quasi tre mesi, ma sono riuscito a recuperarlo al cinema solo pochi giorni fa, quindi meglio tardi che mai. E poi, francamente, non vedevo l'ora di farvi sapere il mio parere sull'ultimo lavoro di uno degli autori del nostro Paese che più stimo e a cui sono più affezionato, il buon vecchio Nanni Moretti.

Da un po' di anni si ha la sensazione che il cinema, nato a fine '800 come meraviglia avveniristica al limite del fantascientifico, sia diventato un'arte rivolta più verso il passato che verso il futuro. Stiamo vivendo un'epoca di nostalgia, di passatismo e di rivalutazione a tutti i costi, in cui franchise morti da anni vengono riesumati e le posizioni più alte nelle classifiche degli incassi sono riservate spesso a sequel come Top Gun: Maverick, concepiti e percepiti alla stregua di veri e propri manifesti di apologia nei confronti di contesti culturali (e superficiali) a cui guardare indietro con una glorificata nostalgia e un velo di malinconico rimpianto. Una tendenza, questa, sempre più opprimente, che non accenna a cedere il passo, che continua a catalizzare l'attenzione di un pubblico sempre più impigrito e sempre più a suo agio nell'inerzia in cui il cinema di largo consumo sembra essersi rifugiato, refrattario come mai prima d'ora a quella spinta innovativa così tanto presente ai suoi esordi.
Fortunatamente, come per tutte le cose, anche all'interno di questo panorama stagnante c'è spazio per un rovescio della medaglia. Artisti che si distinguono guardando al passato per costruire il futuro, che imparano dalla tradizione per inventare i se stessi che sono e saranno. Persino autori navigati come Quentin Tarantino, Martin Scorsese, Woody Allen, David Cronenberg hanno tirato fuori, con le loro ultime opere, qualcosa che va ben oltre il semplice rivangare un passato glorioso, che si rifanno sì al (auto)citazionismo ma che funzionano prima di tutto come potenti rivendicazioni delle rispettive poetiche in un'epoca moderna completamente diversa da quelle da cui provengono, poetiche che nonostante, anzi, grazie al passare decenni, durante i quali sono maturate ed evolute, risultano ancora più che mai attuali e di rilievo.

Ciò che è interessante riguardo Il sol dell'avvenire, ultima fatica di Nanni Moretti presentata a Cannes, è come si inserisca perfettamente in questo stesso contesto, con in più un che di sognante che la rende vicina ad uno spirito che oserei definire tarantiniano.
A 70 anni di età e dopo quasi 50 anni di carriera, l'autoreferenzialità che Moretti inserisce immancabilmente nelle sue opere raggiunge forse il culmine: il metacinema, la disillusa critica politica di sinistra, le idiosincrasie, l'amore per la musica pop italiana, tutto ritorna prepotentemente, ma mai con lo stesso identico spirito visto in pellicole precedenti. Le autocitazioni a Moretti stesso e al suo cinema sono parte integrante dello spirito dell'opera, negli attori feticcio (Silvio Orlando e Margherita Buy in primis), nelle tematiche, nella stessa presenza in scena del regista, che torna ad essere protagonista al 100% svestendosi di vecchi alias come quello di Michele Apicella, e presentandosi con il suo nome di battesimo, Giovanni, e la sua personalità.
Non è certo la prima volta, nella pluridecennale filmografia del regista, che tutto ciò avviene, ma qui sembra acquisire una valenza profondamente diversa.
Nella storia di un regista (naturalmente) che cerca di girare un film pessimista e polemico spinto da forti ideali politici si intravede l'eredità di opere precedenti come
Il caimano o Aprile, riemerge la visione spassionata e di poche speranze di Ecce bombo, permane la sferzante ironia autocritica di Caro diario, ma il tutto non è semplicemente messo in scena in virtù di una sterile retroattività. Moretti guarda dentro se stesso e dentro il suo cinema come non aveva mai fatto, e arrivati alle battute finali del film, dopo aver toccato forse il fondo con una delle scene più drammatiche ma allo stesso tempo sobrie dell'intera filmografia del regista, tutto si ribalta completamente, le carte in tavola vengono rimescolate e da un'amara riflessione sulle sconfitte, sia personali che di una grossa fetta della generazione italiana figlia degli anni di piombo, si passa improvvisamente a quello che meno ci si aspetterebbe da un artista di questo tipo, di quest'età e di questa formazione artistica e politica: un inaspettato inno di speranza, una sorta di bagliore in fondo al tunnel che rende Il sol dell'avvenire (e da qui il titolo particolarmente azzeccato) l'opera forse più positiva mai girata da Moretti.

Ed è così che alla fine, dopo un'ora e mezza pregna di riflessioni, eppure tutt'altro che pesante, il film assume un valore testamentario, si trasforma in una summa della poetica e della filosofia di una persona, prima che di un artista, una persona che mi sembra ormai di conoscere più di quanto avrei mai immaginato, nonostante lo segua da pochissimi anni.
Potrà risultarvi molto strano, e risulta strano anche a me, quanto io mi senta rappresentato dalla poetica di un uomo con più del doppio dei miei anni, ma è anche questa la bellezza del cinema di Moretti: parlando di sé, parla un po' di tutti noi, e questo è forse l'aspetto del suo cinema che meno è cambiato in tutti questi decenni.
Tutte queste mie righe e tutto il testamento cinematografico di questo autore si materializzano magnificamente nel finale del film, felliniano fino al midollo e di fronte al quale tanto gli ex ventenni che erano presenti fin dai tempi di Io sono un autarchico, sia i molti ventenni di adesso che hanno scoperto da poco la sua filmografia e che vi si riconoscono, non potranno non commuoversi ripensando ad uno dei percorsi artistici più sinceri e unici dell'intero panorama cinematografico italiano. Un percorso che ci ha dato davvero tanto e che, speriamo, non sia ancora finito.

Grazie, Nanni. Grazie di tutto.

Dati tecnici

Regia: Nanni Moretti

Anno: 2023

Paese di produzione: Italia, Francia

Casa di produzione: Sacher Film, Fandango, Rai Cinema, Le Pacte

Fotografia: Michele D'Attanasio

Montaggio: Clelio Benevento

Musiche: Franco Piersanti

venerdì 23 giugno 2023

TELE-VISIONI: TED LASSO


Tutti ne abbiamo una. LA serie. Non necessariamente la nostra serie preferita, ma quella a cui torniamo quando ci sentiamo giù, di cui non ci stanchiamo mai, che ci accompagna per un periodo che va ben oltre quello della sua messa in onda. Chiamiamola pure l'equivalente televisivo di un comfort movie, un'isola felice in cui possiamo sempre trovare rifugio, che, a seconda dell'episodio, può farci tanto da erogatore personale di risate e dopamina, quanto da lettino di psichiatra. Quella serie che fa parte della nostra vita da ormai così tanto tempo che quei luoghi, quelle vicende, quelle ambientazioni, quei personaggi sono diventati praticamente famiglia. Per quanto mi riguarda, niente a livello televisivo mi rassicura con quel senso di familiarità quanto How I Met Your Mother, senza alcun dubbio LA mia serie.

Non è certo l'unica con cui io abbia un legame emotivo molto forte (e ben più di una volta serie come Scrubs e, che ci crediate o no, South Park si sono avvicinate pericolosamente a quei livelli), e negli ultimi anni il genere sit-com (o, più generalmente, sarebbe il caso di dire comedy, termine più vago che fa al caso nostro in un periodo in cui le caratteristiche tipiche della sit-com sembrano quasi estinte) ha conosciuto una vera e propria rinascita, con prodotti diventati istantaneamente di culto come After Life, farina del sacco di un genio come Ricky Gervais, e l'italianissima Strappare lungo i bordi, creata dal fumettista Zerocalcare. Tutte commedie che hanno saputo insegnarci a ridere di quella beffarda barzelletta che è la vita, fra lacrime agrodolci e risate a denti stretti.

Se, personalmente, dovessi fare il nome di una comedy degli ultimi anni che è stata in grado di regalarmi tutte queste sensazioni, la mia scelta cadrebbe senz'altro su Ted Lasso. Originale Apple TV+ andato in onda a partire dall'agosto 2020, ha fatto immediatamente parlare di sé diventando la prima stagione più nominata della storia degli Emmy Award, premi di cui ha fatto incetta nel corso di questi tre anni (e dubito sia finita qui). All'epoca ero curioso e, sarò sincero, quasi stupito di tutto questo successo, e il motivo sta nella sua premessa: il personaggio che dà il nome alla serie, un ex allenatore di football americano sull'orlo della separazione che decide di reinventarsi nel calcio, allenando una squadra minore di Premier League, era stato creato come semplice testimonial per i promo calcistici di NBC Sports.
Avete capito bene:
Ted Lasso è tratta da una serie di spot televisivi.
Non è la prima volta che si prende dalla pubblicità per creare qualcosa di maggior respiro, e i risultati hanno sempre oscillato tra il mediocre (
Space Jam, film tratto dagli spot delle scarpe da ginnastica Air Jordan) e il pessimo (Cavemen, sit-com ABC nata da una serie di spot dell'agenzia di assicurazioni GEICO).
Eppure,
Ted Lasso ha conquistato non solo la critica, ma anche, inaspettatamente, una grossa fetta di pubblico. E adesso, a pochi giorni dal suo finale, capisco finalmente il perché.

I motivi che rendono questa serie qualcosa di più di un facile escamotage monetario basato su una proprietà già nota sono molti, e partono tutti da un nome: Bill Lawrence.
Se, come me, siete navigati di sit-com, o anche solo se siete cresciuti negli anni 2000, questo nome non dovrebbe affatto suonarvi nuovo. Già sceneggiatore freelance per prodotti irremovibili nell'immaginario collettivo anni '90 come Friends (vi ricordate l'episodio di San Valentino della prima stagione?) e La tata, crea nel 1996 Spin City, serie comica ambientata nell'ufficio del vicesindaco di New York (interpretato da Michael J. Fox nelle prime quattro stagioni), per poi lanciare nel 2001 una (non) sit-com ambientata stavolta in un ospedale e incentrata sul lavoro quotidiano di una strampalata equipe medica.
Sì, stiamo parlando proprio di Scrubs, un pezzo di televisione dallo status a dir poco generazionale in cui per la prima volta Lawrence ricopre anche il ruolo di regista (e attore) per alcune puntate.
Non dovrebbe dunque stupire come Ted Lasso, con quella premessa apparentemente così traballante, sia riuscita, in tre stagioni, a coinvolgere un pubblico così vasto e variegato, dosando abilmente leggerezza e profondità, meditando sui nostri problemi e ridicolizzandoli allo stesso tempo, e di fatto raccogliendo il testimone di Scrubs, lasciato abbandonato dal 2009 (no, la nona stagione non è mai esistita e non potete costringermi a sostenere il contrario).

Prima di tutto, vi esorto a riflettere su un dato non indifferente: questa serie è ambientata nel mondo del calcio, e l'autore di questo articolo la adora nonostante non nutra alcun interesse per questo sport dai tempi in cui collezionava le figurine dei calciatori alle elementari. Il punto di forza di Ted Lasso non sta infatti nella centralità che il calcio assume all'interno delle sue trame, né nell'accuratezza con cui viene rappresentato, ma risiede interamente sulla scrittura genuina e credibile con cui vengono descritti i personaggi che la popolano, a partire dall'omonimo protagonista: il Ted interpretato da Jason Suidekis, sulla carta, dovrebbe risultare un protagonista piatto, noioso, in cui è difficile rivedersi; è estremamente gentile, generoso, umile, in poche parole è un buono in tutto e per tutto. Eppure, è più profondo di molti altri protagonisti televisivi, anche andando a guardare i prodotti drammatici. La sua spontaneità, il suo vedere il buono negli altri ad ogni costo, l'ingenuità e la passione che lo sprona a dare il meglio nel suo lavoro (per cui tra l'altro dovrebbe essere completamente inadatto secondo ogni ragionamento razionale) sono tutti tratti che lo rendono simile al J.D. protagonista di Scrubs, un ottimista e un idealista che non si tira indietro nonostante i brutti colpi che la vita gli ha riservato e non smette di riservargli.

Perché la serie, pur conservando costantemente la sua solarità, non fugge dalla negatività, dai momenti tristi. I motivi che portano Ted a percorrere il cammino incerto in cui si trova, in un Paese straniero e lontano dalla sua famiglia, sono profondamente realistici, e potrebbero suonare familiari a molti di noi. La solitudine, la paura del cambiamento, il dover ripartire da zero, ma anche la fiducia nel prossimo, le seconde possibilità, una famiglia trovata dove meno ci si aspetterebbe, sono alla base dello spirito che anima questa e le altre serie supervisionate da Lawrence.

Il calcio è quasi un mcguffin, una scusa, un punto di partenza come un altro per raccontare, tra il serio e il faceto, quella che al suo cuore è una storia umana; non solo quella di Ted, ma di tutti gli altri personaggi che popolano il ricco ambiente dell'immaginaria AFC Richmond. Quasi tutti, per quanto secondari, hanno una storia da raccontare: dalla neopresidente della squadra Rebecca Welton (la splendida Hannah Waddingham) al campione sul viale del tramonto Roy Kent (Brett Goldstein), da Keeley Jones (Juno Temple), ex modella e PR per la società, al fantastico viceallenatore Beard (Brendan Hunt), probabilmente il mio personaggio preferito della serie, protagonista di alcuni dei momenti più folli e surreali (come l'esilarante episodio Beard After Hours della seconda stagione). A ognuno di essi, compresi i molti che non ho citato (e credetemi, sono davvero tanti e tutti interessanti), ci si affeziona, si vuole bene, ci si sente coinvolti nelle loro battaglie personali, grazie a delle caratterizzazioni tridimensionali che riescono ad evitare che il tutto cada in un facile buonismo.
Tutti, in Ted Lasso, sbagliano, compiono atti da condannare, che ci fanno arrabbiare, che ci deludono, e ogni cattiva azione viene ripagata, ma non con una punizione, bensì con una seconda possibilità. I personaggi pagano le conseguenze dei loro sbagli, e le pagano con gli interessi, ma non gli viene mai negata la possibilità della rivalsa. È una serie realistica, ma non pessimista.

Non è un caso che arrivato al finale, andato in onda un paio di settimane fa, abbia ritrovato ad accogliermi QUELLA sensazione. Quello strano sentimento dolce/amaro per il quale sono triste perché qualcosa che mi ha accompagnato per un certo periodo della mia vita giunge al termine, ma allo stesso tempo sono felice perché consapevole che è finita quando doveva finire e come doveva finire, al momento giusto, senza inutili prolungamenti e forzature narrative. La stessa sensazione di quando finisco dopo mesi un libro che ho amato, o di quando una personalità che ammiro artisticamente scompare a una veneranda età dopo una lunga, onorata carriera. La sensazione che sia stato proprio un gran bel viaggio.

Il finale di Ted Lasso mi ha fatto sentire esattamente in questo modo, ed è stato esattamente il tipo di finale che apprezzo di più: lieto sì, ma non completamente; positivo, ma non accomodante; definitivo, ma non del tutto chiuso. Un finale che, con una scelta musicale tanto scontata e prevedibile quanto efficace e per certi versi inevitabile, tira splendidamente le somme della storia, una storia dipanata senza sbavature nell'arco di tre stagioni praticamente perfette, che, grazie all'impostazione ormai standard di 10-12 episodi a stagione con una durata che va dai 30 ai 70 minuti l'uno, non lascia spazio a riempitivi, che un tempo erano la norma per dei prodotti seriali, in particolar modo le sit-com.

Ma non voglio che fraintendiate. Ted Lasso rimane comunque un'ottima serie a tema sportivo, e mai nemmeno per un attimo il calcio passa realmente in secondo piano: le partite ci sono, e vengono mostrate sempre con regie dinamiche e adrenaliniche, al punto che pure un profano come me non può che appassionarsi e sperare nella vittoria del Richmond ad ogni incontro mostrato. Se poi consideriamo che la serie è anche ricca di cameo e citazioni (nella terza stagione, ad esempio, compare un personaggio palesemente ispirato ad un famosissimo calciatore di Serie A), il tutto non può che risultare ancora più appagante per un appassionato.

Insomma, nel caso non fosse chiaro questa è una serie che va assolutamente recuperata, e che vale al 100% l'abbonamento al servizio streaming di Apple, i cui contenuti comprendono per ora esclusivamente prodotti originali e di cui Ted Lasso rappresenta una delle punte di diamante. E a proposito, ancora permeato da quel senso di positiva speranza nei confronti del futuro che ha caratterizzato il finale di serie, mi auguro che la nuova Shrinking, sviluppata da Lawrence sempre per AppleTV+, possa rivelarsi un altro successo, tanto di pubblico quanto artistico.
Del resto, come ci ricorda la parola simbolo dell'intera serie, l'importante è “crederci”.

Prima di lasciarvi, vorrei stilare una breve lista degli episodi che più mi sono rimasti dentro della serie, le perle che la rendono degna di essere vista:

  • Carol of the Bells, 2x04: come ogni serie comedy che si rispetti, anche Ted Lasso ha il suo speciale natalizio, forse il momento in cui il tema della “famiglia ritrovata” è più sentito. Alla fine di questo episodio ci si sente più buoni e si crede di più nella bontà di fondo dell'essere umano, come ogni storia di Natale dovrebbe portare a fare;

  • Beard After Hours, 2x09: già citato, ha come protagonista assoluto il coach Beard, in un'esperienza nottambula per le strade di Manchester tra l'onirico e il surreale. Tra gli episodi più divertenti, minimalista e inaspettato;

  • No Weddings and a Funeral, 2x10: sì, a mio parere la seconda stagione è molto probabilmente la migliore delle tre, e questo episodio particolarmente emotivo ne è la dimostrazione. Come si evince dal titolo, si parla di un funerale, ed è uno straordinario esempio dell'abilità degli autori di bilanciare leggerezza e intensità, oltre che di utilizzare in maniera molto efficace la colonna sonora. Se non avrete gli occhi lucidi una volta arrivati alla fine, probabilmente non siete umani;

  • Sunflowers, 3x06: la squadra si trova ad Amsterdam per un amichevole con l'Ajax, e la capitale olandese si trasforma nel perfetto palcoscenico per le vicissitudini, interne ed esterne, dei protagonisti, in particolare per Rebecca, che avrà uno degli incontri più emotivi e significatvi del suo arco narrativo. In più, contiene la scena dell'epifania di Ted sul calcio totale, geniale dal punto di vista della messa in scena;

  • So Long, Farewell, 3x12: concludo giustamente con il finale della serie, emotivamente appagante ma non banale, in cui tutte le sottotrame aperte fino ad allora trovano la loro giusta conclusione, come dovrebbe sempre essere per ogni finale, ma purtroppo non sempre è. Aperto eppure soddisfacente, praticamente perfetto.

martedì 13 giugno 2023

FRESCO DI CELLULOIDE: SPIDER-MAN: ACROSS THE SPIDER-VERSE, DI JOAQUIM DOS SANTOS, KEMP POWERS E JUSTIN K. THOMPSON

Salve amici e amiche, e benvenuti a una nuova puntata di Fresco di celluloide, la rubrica in cui do le mie impressioni su film appena usciti in sala. Dopo una decina di giorni di riflessioni, è arrivato il momento di tirare fuori la mia recensione di quello che è probabilmente il film d'animazione dell'anno: Spider-Man: Across the Spider-Verse, diretto da Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson.

Nel 2018 il mondo dell'animazione è stato scosso nelle sue fondamenta dall'uscita di quel miracolo visivo e narrativo che è Spider-Man: Into the Spider-Verse. Non solo una gioia per gli occhi e per la mente, non solo una summa totale e omnicomprensiva del mythos del personaggio creato da Stan Lee e Steve Ditko nel lontano 1962, ma un'opera rivoluzionaria a partire dalla sua tecnica, che ha aperto nuovi orizzonti per l'arte dell'animazione.
Ed in questi
cinque anni abbiamo potuto raccogliere gli straordinari frutti dei semi gettati dalla Sony Animation e da tutti gli straordinari artisti coinvolti nel progetto (dai re Mida dell'intrattenimento Lord e Miller alla nostra Sara Pichelli): dalla Fortiche Production con Arcane, alla Dreamworks col Gatto con gli stivali 2, passando per la stessa Sony con I Mitchell contro le macchine, tutti si sono gettati a capofitto nella nuova moda del cel-shading, quasi sempre con risultati notevoli, oltre che impensabili fino a pochissimi anni fa, nonostante la tecnica esistesse già da un po'.

Adesso, dopo quello straordinario esperimento rivelatosi riuscito oltre ogni più rosea aspettativa, la Sony Animation prosegue il suo cammino di redenzione dalle stalle alle stelle con Across the Spider-Verse, l'inevitabile sequel che a pochi giorni dalla sua uscita ha già frantumato record e record di incassi. Cambiano i registi, ma la sceneggiatura, con Lord e Miller saldi al timone, continua ad esplorare ed espandere il ragnoverso con personaggi (vecchi e nuovi) intriganti, dinamiche appassionanti e la solita tempesta di citazioni, non solo al fumetto, ma a un po' tutte le incarnazioni precedenti del Ragno (la mia preferita, una sottile stoccata all'Amazing Spider-Man di Marc Webb). Naturalmente, il team di creativi si supera anche per quanto riguarda l'aspetto visivo: stiamo parlando di un'opera ancora più spettacolare, con una serie di ardite e fantasiose soluzioni visive e gli stili più disparati che tinteggiano tutti questi universi con una varietà e intensità che a tratti tolgono davvero il fiato e che, come una sorta di leitmotiv visivi, accompagnano personaggi, temi, rapporti. Nulla è lasciato al caso, e ci vorrebbero decine di visioni per cogliere ogni sfumatura, ogni riferimento, ogni pepita creativa disseminata in questo sterminato campo di narrazione, una vera e propria distesa di immaginazione che potremmo paragonare al brano più criptico di un cantautore, che tra le parole cela analogie, intertestualità, simbolismi che solo dopo decine di ascolti arrivano davvero alle orecchie e alla mente del fruitore.

Va detto che nonostante dei character design straordinari e variegati (penso in particolare a Spider-Punk o all'Avvoltoio rinascimentale) e un'esplorazione più approfondita di Gwen Stacy, forse il mio personaggio preferito di questi film, a mio modesto parere questo secondo capitolo non raggiunge esattamente i vertici di grandezza del primo. Sarà per l'esaurimento dell'effetto sorpresa, ma continuo a considerare l'originale una spanna sopra a questo pur ottimo secondo capitolo. O meglio, mezzo capitolo.


Già, perché Across the Spider-Verse Part One, questo il titolo con cui l'opera era stata inizialmente annunciata, è solo un primo tempo, che chiude i giochi proprio nel mezzo della tensione e rimanda la conclusione alla seconda parte, in uscita tra 8 mesi e che avrà come titolo l'accattivante Beyond the Spider-Verse. È per questo che non mi sento (per ora) di fare un paragone tra il fenomenale Kingpin del primo film e il villain del seguito. È ancora troppo presto, e toccherà attendere il secondo tempo per poter dare un giudizio definitivo.

Tuttavia, se piove di quel che tuona, trovo altamente improbabile che rimarrò deluso da Beyond the Spider-Verse, vista l'eccellente perizia nella gestione di questo primo (mezzo) sequel. Si ha ormai la sensazione, ed è qualcosa che noto un po' in tutti gli altri spettatori, che la Sony Pictures Animation non sia più in grado di sbagliare. Ed è forse questo il traguardo più impressionante raggiunto dal miglior film su Spider-Man mai fatto (sì, credo siano riusciti a scalzare persino quel capolavoro che è Spider-Man 2 di Sam Raimi), quello di essere riusciti a donare la credibilità ad uno studio in precedenza noto al grande pubblico come “quello del film delle emoji”, o , al massimo, come una fabbrica di innocenti film per famiglie come Piovono polpette o Hotel Transylvania.

Se lo studio d'animazione della Sony riuscirà a mantenersi su questi livelli lo dirà il tempo, e se sarà effettivamente così il futuro, tanto dello studio quanto del cinema animato, ci riserverà decisamente molte gradite sorprese.

Dunque, che voi siate fan dell'Uomo Ragno o no, che siate appassionati di fumetto o di cinema o nessuno dei due, che siate bambini o adulti, correte al cinema, finché potete, ad ammirare questo spettacolo nel solo posto che può rendergli pienamente giustizia: la sala.

A presto! 


Dati tecnici 

Regia: Joaquim Dos Santos, Kemp Powers, Justin K. Thompson 

Anno: 2023 

Paese di produzione: Stati Uniti d'America 

Casa di produzione: Sony Pictures Animation, Coumbia Pictures 

Musiche: Daniel Pemberton


domenica 28 maggio 2023

TELE-VISIONI: BETTER CALL SAUL


Credo sia stato il 2017 quando mi approcciai per la prima volta a Breaking Bad. Di serie ero ancora praticamente a digiuno e, salvo una manciata di sit-com qua e là, non avevo ancora fatto il grande salto. Quel salto che ti fa passare dalla normale programmazione Mediaset del pomeriggio alle Serie, quelle con la S maiuscola.
Non sono sicuro se il capolavoro televisivo di Vince Gilligan fu effettivamente il mio primo grande salto o se fu preceduto da un'altra pietra miliare come Twin Peaks o da una Game of Thrones ancora sopra la soglia del guardabile. In ogni caso, credo di poter dire con tranquillità che il mio rapporto iniziale con Breaking Bad è stato lo stesso di tutti voi che state leggendo: attirato dalle lodi, l'ho cominciata (con colpevole ritardo) e già dopo pochi episodi non riuscivo a staccarmene. I personaggi, la regia, la fotografia, la scrittura assolutamente perfetta ne facevano una delle storie meglio raccontate che, ancora oggi, io abbia mai fruito.

Morale della favola: in pochi mesi l'avevo vista tutta, ed è entrata a pieno diritto tra le mie serie preferite in assoluto. In questi anni ho recuperato molte altre perle televisive che ho adorato, dai Soprano a Lost, da Scrubs a The Office, ma nessuna di queste ha mai scalzato Breaking Bad dal suo podio.

Poi, nel 2020, mi decisi finalmente a cominciare Better Call Saul, perplesso come tutti della buona riuscita di uno spin-off tratto da una serie così perfetta e con un'attenzione così maniacale alla sua narrazione. Il mio tipico scetticismo nei confronti di operazioni del genere mi faceva temere che sarebbe stata una semplice spremitura di un franchise di successo, come in parte era stato con El Camino, film televisivo sul personaggio di Jesse Pinkman tanto godibile quanto non necessario.

E adesso, dopo due anni di visione, due anni intensi fatti di tensione da pelle d'oca costante, fragorose risate e pugni allo stomaco, dopo sei stagioni di (de)costruzione di un personaggio di cui pensavo di sapere già tutto ciò che avevo bisogno di sapere, posso affermarlo con assoluta e risoluta certezza: non solo Better Call Saul, co-creata da Gilligan insieme a Peter Gould, è uno spin-off perfettamente degno dell'originale, ma è probabilmente uno dei migliori spin-off della storia della televisione.

Prima di motivare questa mia forte affermazione, c'è una domanda inevitabile da porci: cosa rende uno spin-off qualcosa di valido? La storia della televisione non manca certo di esempi, la maggior parte dei quali tristemente noti, ma se pensiamo che serie come I Jefferson, Star Trek - The Next Generation e Otto sotto un tetto sono tutte spin-off di altri prodotti di successo di altrettanta importanza, è facile rendersi conto di come in realtà siamo circondati da questo fenomeno fin dagli albori della televisione.

Per rispondere alla domanda, la prima qualità che uno spin-off dovrebbe avere per quanto mi riguarda è chiara: uno scopo.

Per quanto ne sapevamo, quello che vedevamo del carismatico Saul Goodman in Breaking Bad poteva tranquillamente bastare: un furbo e truffaldino avvocato dedito ad affari con personaggi non esattamente limpidi, che si associa a Walter e Jesse aiutandoli a gestire la loro attività criminale, naturalmente dietro lauto compenso. Un personaggio che svolgeva perfettamente, all'interno del microcosmo televisivo creato da Gilligan, un ruolo tipico non solo del linguaggio televisivo, ma spesso anche di quello cinematografico, a cui più volte BB è stata accostata: quello della spalla comica. Il comic relief ha un ruolo fondamentale nella finzione drammatica, serve a spezzare la tensione, a risollevare gli animi quando le situazioni si fanno troppo estreme e gli spettatori hanno bisogno di una boccata d'aria, e Saul, seppur intriso della nera ironia tipica della scrittura di Gilligan e soci, era in questo senso un pezzo essenziale e funzionale di questo fantastico mosaico. Insomma, il poco che sapevamo sul suo conto bastava eccome a renderlo uno dei personaggi più amati dal pubblico, nonché, tra l'altro, il mio preferito dell'intera serie.

Tra le leggi della televisione più sacre, ma anche tra le più violate, c'è quella secondo la quale porre il comic relief al centro dell'azione, facendolo protagonista anziché comprimario, sarebbe un madornale errore, poiché estrapolandolo dal suo contesto di secondarietà e di supporto rischierebbe facilmente di risultare snaturato e fastidioso. Pensate a quello che è successo a Joey Tribbiani, tra i personaggi più amati di Friends, fonte inesauribile di gag ma al tempo stesso dolce, sensibile e leale, trasformato in una rozza parodia di se stesso nello spin-off a lui dedicato, Joey.

Ma ciò che salva Better Call Saul dalla mediocrità è, appunto, il suo scopo: non è un sottoprodotto di Breaking Bad, ne è una naturale propaggine narrativa. In un mondo in cui sembra non esserci spazio per nient'altro che “universi” narrativi, dall'apparentemente infinita epopea Marvel a realtà simili del piccolo schermo (pensiamo al cosiddetto Arrowverse della CW, scaturito da serie come Arrow e The Flash), una serie come questa, che si incastra (quasi) perfettamente come il pezzo di un puzzle all'interno del tessuto narrativo del suo illustre predecessore, senza mai apparire forzata o ingiustificata, non è altro che un vero e proprio miracolo. Piuttosto che un claudicante castello di carte sempre più a rischio di crollare ad ogni aggiunta abusiva alla sua precaria struttura, situazione a cui il pubblico di massa si sta sempre più abituando, Better Call Saul rappresenta un capitolo in più, delle pagine nascoste fra le pieghe di una storia ancora non raccontate, ancora tutte da scoprire. Che un personaggio come Saul Goodman nascondesse molta storia non detta si intuiva fin da subito, grazie alla scrittura densa di sottotesti a cui Gilligan e il suo team ci avevano abituato fin da subito, ma nessuno di noi poteva immaginare quanto quel terreno inesplorato della continuity fosse vasto, e sopratutto quanto valesse la pena di essere raccontato. Il personaggio di Saul, quel simpatico comprimario che pensavamo di conoscere così bene, viene sviscerato a fondo, prima di tutto svelandone la sua vera identità, quella di Jimmy McGill: carismatico, azzardato e sicuro di sé quando è camuffato da una miriade di identità fittizie (da Slippin' Jimmy a Gene Takavic, passando addirittura per Kevin Costner), Jimmy non è altro che un uomo insicuro, fragile, incapace di essere soddisfatto di se stesso, costantemente dipendente dall'approvazione delle persone che più hanno segnato la sua vita.

Nel magnifico cult Trainspotting di Danny Boyle, il sociopatico Frank Bagbie veniva descritto con questa frase: “Bagbie non si faceva di droga; lui si faceva di gente”. Lo stesso potremmo dire di Jimmy, visti i rapporti turbolenti e insani che costellano la sua esistenza e che lo hanno portato alla sua “onorata” carriera: dal perenne muro di rivalità e rancore fra lui e suo fratello maggiore Chuck (interpretato da Michael McKean, comico rivelatosi grandioso in un ruolo drammaticissimo) alla relazione tossica al limite della co-dipendenza che lo lega alla sua amica, poi fidanzata e infine moglie Kim Wexler (una straordinaria Rhea Seehorn), Jimmy sembra destinato non solo all'autodistruzione, ma alla disintegrazione di tutto ciò che tocca, di tutto ciò che nella vita potrebbe renderlo felice.

Potrei andare avanti per pagine e pagine a descrivere la psicologia di Jimmy McGill e dei fantastici personaggi che lo circondano, tanto quelli nuovi quanto quelli già conosciuti in Breaking Bad (Mike Ehrmantraut in primis, di cui scopriamo molto di più), ma il punto a cui voglio arrivare è questo: Jimmy/Saul è un personaggio dallo stesso spessore di Walter White, di cui, anzi, costituisce il perfetto contraltare. Se Jesse Pinkman era fondamentalmente una vittima degli eventi, Walt rappresentava la discesa volontaria di un uomo nel baratro dell'illegalità, arrivando a rivelare il peggior lato di se stesso, sepolto da tempo immemore ma sempre presente, in attesa che la vita gli serva l'occasione giusta per fuoriuscire; Jimmy, dal canto suo, sembra una figura molto più innocente, che si macchia di reati molto gravi ma che non supera mai una certa linea di demarcazione, linea che Walter White, barricato dietro la scusa di voler aiutare la sua famiglia, calpesta e supera più volte, mostrando sempre meno scrupoli. Jimmy fa quello che fa perché non ha altra scelta, perché la vita “civile” l'ha sempre preso a pesci in faccia, e l'unico modo per sentirsi vivo è vivere sul filo del rasoio, al limite della legalità.
Al contrario di Walt, con cui lo spettatore empatizza all'inizio ma che si ritrova spesso a odiare, Jimmy non è mai completamente colpevole delle sue malefatte: molte volte, nel corso delle sei stagioni della serie, cerca di cambiare, di redimersi, di prendere la decisione giusta, ma ogni volta che si mostra un minimo vulnerabile ecco che la vita torna a pugnalarlo alle spalle, che sia sottoforma di suo fratello, o del suo capo, o di chiunque altro. Al punto che quando le sue azioni superano veramente il limite, arrivando a causare inavvertitamente la morte di un personaggio innocente, più che un senso di odio quello che si prova è un senso di impotenza, di disperazione, di riluttante rassegnazione per una tragedia che, ne siamo certi, poteva tranquillamente essere evitata. L'odio si avverte più che altro per le ingiuste implicazioni che hanno trascinato Jimmy nella posizione in cui si trova, che lo ha reso una vittima, un fuscello in balìa del vento.
La sorte sua, di Chuck, di Nacho Varga, di Howard Hamlin e di tutti i personaggi che incontra sul suo cammino, è frutto non di una sua deliberata meschinità, ma del suo tentativo di avere un proprio riscatto, una consolazione per non essere riuscito a dimostrare, a se stesso prima di tutto, di essere molto più di quello che gli altri hanno sempre dipinto, rappresentato da elementi iconici come i completi variopinti e i macchinosi spot pubblicitari destinati alle TV locali del New Mexico.

E così, una volta arrivati al finale di serie, tra i più intensi che io abbia mai visto, è impossibile non rendersi conto di come uno scopo, Better Call Saul, l'abbia avuto eccome. A rimanere con noi, una volta conclusa la visione, è la consapevolezza di aver assistito ad una tragicommedia umana che forse, per certi versi, è ancora più amara di quella grandiosamente narrata in Breaking Bad, perché non meritata, non giustificata, ingiusta. Sia Walt che Jimmy, alla fine, hanno avuto quello che si meritavano, pagando per le proprie colpe ognuno a modo loro, in modo equo.
Ma, laddove Walter White ha avuto una fine ingloriosa, ormai estraniato dai suoi affetti e con il peso insostenibile di decine di morti e altre nefandezze sulla coscienza, la fine riservata a Jimmy ha un che di eroico. Quando i crediti iniziano a scorrere sul bianco e nero di quell'ultimo episodio, quella che ci accoglie è una sensazione sì di amarezza, ma anche, incredibilmente, di ottimismo. Una speranza che forse, al contrario In quello che si poteva trarre da Breaking Bad, le persone possono cambiare, anche quando non ce l'aspettiamo.

mercoledì 22 marzo 2023

MONSIEUR VERDOUX, DI CHARLIE CHAPLIN

 “Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane
   Ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame”.

(Nella mia ora di libertà, Fabrizio De André)


Charlie Chaplin è tante cose, ed è stato definito in tanti modi. Probabilmente la definizione più calzante, e che riassume in sé tutto quanto si è detto su questo artista, è quella di uno dei più grandi uomini di cinema del XX secolo.

Di origini umili, nato e cresciuto in ambienti di teatro vaudeville, ha conquistato il pubblico fin da subito col suo personaggio di Charlot (o meglio, “the tramp”, il vagabondo), con una serie di comiche di grandissimo successo fin dagli anni '10, agli albori del cinema. Col capolavoro Il monello, del 1921, inizia la sua gloriosa incursione nei lungometraggi, ed è qui che l'aspetto critico che era sempre stato presente sullo sfondo dei suoi corti diventa manifesto, anzi, diventa la vera e propria linfa vitale di una poetica cinematografica che è diventata seminale per l'intera commedia americana a venire. Se un genio come Pirandello sosteneva che la comicità nasce sempre da una qualche forma di tristezza, quale esempio migliore di un senzatetto che cerca di sopravvivere in una società fortemente divisa (all'epoca più che oggi) in classi, costantamente alla ricerca di lavori saltuari e di espedienti per potersi guadagnare il pasto quotidiano?

E proprio questo senso di tristezza, fil rouge indissolubile di cinquant'anni di comicità, raggiunge forse il suo apice in Monsieur Verdoux, ottavo lungometraggio di Chaplin, nato da uno scambio di idee con un altro genio della settima arte, quell'Orson Wells che aveva completamente riscritto le regole del gioco pochi anni prima con Quarto potere, forse il film più innovativo mai girato fino a quel punto.
Dopo aver ridicolizzato il totalitarismo col suo capolavoro
Il grande dittatore, uscito in piena Seconda Guerra Mondiale, proprio quando gli orrori razziali cominciavano ad essere noti al di fuori dei confini dell'Asse, Chaplin torna a guerra finita con una stoccata acida e disillusa sulle condizioni in cui l'Europa si ritrovava nei primi anni del secondo dopoguerra, mascherando il tutto da commedia nera (molto nera per l'epoca) liberamente ispirata alle vicende del serial killer Henri Landru.
L'azione si sposta nella Francia a cavallo delle due guerre mondiali, ma la critica al mondo del 1947 è inequivocabile. L'ex Charlot interpreta per la prima volta un cattivo, anche se risulta difficile per lo spettatore etichettarlo completamente come tale: Monsieur Verdoux è un esempio di ciò che la disperazione causata dalla fame può fare a una persona, una persona buona piegata dalla barbarie del mondo e costretta a quella stessa barbarie, tutto esclusivamente per poter sopravvivere.

Orson Welles e Charlie Chaplin, due geni a confronto

In poche parole, stiamo parlando di uno dei film più sottovalutati di Chaplin, nonché probabilmente il più pessimista. Non è un caso che, nonostante un National Board of Review come miglior film e una nomination all'Oscar per la miglior sceneggiatura, è proprio a partire da questo film che l'avversione da parte della critica americana nei confronti del regista e attore si acuisce maggiormente, culminando, nel 1952, con la sua estradizione definitiva dal suolo americano, di cui non era cittadino nonostante vi abitasse da decenni. Le accuse furono di antiamericanismo e simpatie comuniste, e Chaplin fu solo una delle tante vittime della caccia alle streghe maccartista che per lungo tempo privò Hollywod di alcuni dei suoi autori più importanti. Alle sue persecuzioni politiche e artistiche in terra statunitense, l'autore si ispirerà per il suo Un re a New York, del 1957, ma di quello vi parlerò magari in futuro.

Monsieur Verdoux è, per questi e altri motivi, una vera e propria perla che non ha minimamente perso di lucentezza nonostante i suoi quasi 80 anni. 


Dati tecnici 

Regia: Joaquim Dos Santos, Kemp Powers, Justin K. Thompson 

Anno: 2023 

Paese di produzione: Stati Uniti d'America 

Casa di produzione: Sony Pictures Animation, Coumbia Pictures 

Musiche: Daniel Pemberton