sabato 26 febbraio 2022

FRESCO DI CELLULOIDE: ASSASSINIO SUL NILO, DI KENNETH BRANAGH

E rieccoci, reduce da una delle recensioni più difficili che abbia mai scritto, alla rubrica Fresco di celluloide, in cui vi do le mie impressioni su film appena usciti in sala.

Dopo l'ottimo Assassinio sull'Orient Express e in attesa del pluripremiato Belfast, in odore di Oscar, Kenneth Branagh torna come regista e interprete di Hercule Poirot in Assassinio sul Nilo.

Un po' come il suo predecessore del 2017, anche questo si presenta come un ottimo giallo (e vorrei vedere, è Agatha Christie), con il solito delitto a porte chiuse e le solite ambientazioni esotiche. Queste ultime, unite alle scenografie, sono senza dubbio splendide da vedere, esaltate da un comparto tecnico di livello, solo che qui, complice probabilmente il fatto che gran parte dell'azione si svolga in esterni, l'intervento della computergrafica è a tratti troppo invadente. Per carità, niente di atroce, ma decisamente un difetto fin troppo evidente, che lede al fascino esotico che una pellicola del genere dovrebbe avere.

Praticamente perfetta, invece, la sequenza iniziale, con un bianco e nero eccezionale e delle atmosfere che mi hanno addirittura ricordato Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick, e che dimostrano l'abilità di Branagh tanto dietro quanto davanti la macchina da presa.

Il cast galleggia fra l'eccellente (Emma Mackey, Annette Bening e un Russell Brand che non avevo completamente riconosciuto) e il mediocre (Gal Gadot, tanto bella quanto incapace), ma in generale ognuno porta a casa discretamente la propria parte.

Se avete apprezzato Assassinio sull'Orient Express e ne volete ancora, questo Assassinio sul Nilo è un ottimo modo per passarvi la serata, anche se consiglierei di dare un'occhiata anche alle vecchie trasposizioni degli anni '70/'80 dei romanzi della Christie, come il film di Sydney Lumet del 1974, con un grande Albert Finney nel ruolo di Poirot attorniato da un cast stellare.

Ci vediamo presto!

venerdì 25 febbraio 2022

JOAN LUI: È SANTO, È SANTO!

Bentornati, amici e amiche. Dopo tanto tempo, ho ritrovato la spinta giusta per un'altra recensione negativa, la seconda di questo blog.

E per questa mia rinvigorita verve distruttiva devo ringraziare calorosamente Rete 4 e la sua fantastica programmazione notturna, perché altrimenti non so quando avrei avuto l'occasione (e soprattutto la voglia) di visionare questo scempio. Sto parlando di un autentico scult, un film talmente imbarazzante da meravigliarmi della sua stessa esistenza, partorito dalla mente ebbra di autocelebrazione di un luminare come Adriano Celentano.


L'obbrobrio in questione è Joan Lui - Ma un giorno nel paese arrivo io di lunedì. Sorvolando su un titolo già tremendo di suo che personalmente avrei sostituito con un più calzante Joan Lui Superstar, chi è vigile sul web saprà che il Molleggiato si è spesso dimostrato una fonte eccezionale di cringe, come insegnano pezzi di storia del trash come la sua famigerata intervista a un irritatissimo David Bowie e la “visionaria” serie animata Adrian, del 2019. Ma se quest'ultima rientra sicuramente tra i più grandi disastri della storia della televisione italiana, Joan Lui è senza alcun dubbio il suo corrispettivo cinematografico. Partiamo dal principio.


Celentano, forte del successo attoriale datogli da pellicole cult come Asso e Il bisbetico domato, cercava da tempo finanziamenti per realizzare il suo magnum opus, un musical apocalittico sulla condanna e redenzione dell'umanità, con canzoni scritte da lui, set mastodontici e coreografie esplosive. Con uno spropositato budget di 20 miliardi di lire dell'epoca, garantito dalla Cecchi Gori, da Silvio Berlusconi (e lottando contro me stesso cercherò di non commentare in alcun modo questo dettaglio) e addirittura dalla Germania Ovest, e dopo ben due anni e mezzo di preproduzione, le riprese del film furono posticipate e allungate fino allo sfinimento, e le centinaia di ballerini chiamati direttamente dagli Stati Uniti per il film dovettero attendere per settimane in un albergo prima di girare finalmente le prime scene, facendo vorticare così ancora di più i costi di produzione.

Dopo questa odissea, forse ancora più interessante del prodotto finale, il film uscì nelle sale italiane il giorno di Natale del 1985 (e non credo proprio sia un caso), scritto, diretto, montato, musicato e interpretato dall'Adriano nazionale... e fu uno dei più grandi fallimenti commerciali che il cinema italiano ricordi.

I motivi di tale débacle sono innumerevoli e dolorosamente palesi, e partono già dal soggetto.

Adriano è venuto per redimere i nostri peccati.
La premessa di base è: Adriano Celentano è il Messia. E se pensate che questa sia un'iperbole per sottolineare lo smisurato ego del cantante, vi sbagliate. Il protagonista, Joan Lui, è chiaramente una rappresentazione del Messia, che, senza farsi mancare gli apostoli, Giuda compreso, compie la sua seconda venuta sulla Terra corrotta dai mali dell'umanità: i rapporti sessuali profani e peccaminosi, le sigarette di droga dei giovinastri, la mancata considerazione delle sacre scritture. Scopo di questo misterioso santone è quello di salvare il mondo con la diffusione del suo Verbo, rigorosamente cantando, ponendosi al di sopra di ognuno, mostrandosi estraneo a qualunque colpa, infallibile.

In altre parole, due ore e quaranta di morali spicciole, banali e trasudanti insopportabile democristianità, che il Molleggiato sciorina con una goffaggine esilarante, sotto ogni punto di vista. Innanzitutto dalla sceneggiatura, a malapena definibile tale, fatta di dialoghi sconnessi, spesso ai limiti del comprensibile, e situazioni appiccicate tra di loro con lo sputo, quasi sempre dei pretesti per forzare in gola allo spettatore dogmatiche ramanzine catto-bigotte che farebbero salire il crimine anche a Gandhi.

Ma il film non sarebbe diventato la leggenda che è se fosse solamente noioso. L'imbarazzante sceneggiatura, infatti, non è che la punta di questo pretenzioso iceberg.

Chiariamo subito la questione più importante: Celentano non solo non sa sceneggiare, ma non sa dirigere e non sa montare un film. Certo, non ho avuto il piacere di visionare le altre tre fatiche registiche del nostro, ma credetemi, questa, più le due puntate di Adrian che ho buttato giù, bastano e avanzano per convincermi dell'insindacabilità di questa mia affermazione.

Una regia che definire televisiva sarebbe farle un complimento e, soprattutto, un montaggio da attacco epilettico affossano ancora di più sotto il livello dell'umana sopportazione scene già abbastanza deliranti di per sé.

Volete vivere un'esperienza veramente mistica? Andatevi a cercare la scena in cui il nostro messia, con tanto di stigmate, irrompe in un festino all'interno di una chiesa/discoteca (avete letto bene) e, cantando in una lingua inventata, guarisce uno storpio mentre delle suore in calze a rete gli danzano intorno. Dieci minuti interminabili che riassumono perfettamente tutto quello che c'è di sbagliato in questo disastro: oltre agli evidenti problemi di gestione di ego dell'autore e le sue continue autocitazioni, quello che forse più inquieta è notare l'incredibile sessismo che impregna il tutto, con donne rappresentate per tutto il film in pose scosciate senza alcun motivo. Non fa eccezione, naturalmente, Claudia Mori, trascinata a forza dal marito per regalarci la visione dei suoi generosi seni, in un'altra delle scene più assurde del film.

E, come se non bastasse, a fare da contorno non poteva mancare una buona dose di razzismo. Basti osservare la scena d'apertura del film, con inquadrature interminabili che mostrano il protagonista percorrere un treno per poi trovarsi circondato da gente di colore che, non si capisce bene perché, lo tratta con disprezzo non appena lo vede arrivare.

Una Claudia Mori assolutamente non sessualizzata
Ma naturalmente, al di là delle sue dubbie implicazioni etico-morali e della permanente tortura inflitta alle orecchie dello spettatore, Celentano non dimentica di urtare anche la nostra vista, e pensa bene di deliziarci con costumi e scenografie kitsch che fanno chiedere in cosa siano stati spesi tutti quei soldi e, ciliegina sulla torta, coreografie talmente brutte e mal gestite da far sembrare un video dei Village People l'intero ensemble dell'Opéra di Parigi.


Tutto considerato, a voler essere costruttivi, si potrebbe riconoscere a questo film il risultato notevole, per quanto poco invidiabile, di aver fallito in ogni singolo aspetto: mal diretto, scritto in preda a deliri di onnipotenza e non, montato in modo inconcepibile, mal recitato e mal musicato.

E come se non bastasse il danno, si aggiunge la beffa (fin troppo prevedibile) dell'insuccesso commerciale, dato che Joan Lui è uno dei più grandi flop del cinema italiano, con appena 7 miliardi di lire per una delle pellicole più costose realizzate nel nostro Paese. A poco valsero i disperati tentativi della Cecchi Gori di far fronte all'imminente disastro tagliando il minutaggio del film di mezz'ora, mossa che portò un infuriato Celentano a intentare causa chiedendo e ottenendo il sequestro del film, salvo poi tagliarlo egli stesso per la versione televisiva in onda sulla Mediaset negli anni successivi.

Insomma, come accennato all'inizio di questa recensione, un vero e proprio disastro, talmente incredibile e surreale che bisogna vederlo per crederci davvero. Un po' come un incidente stradale, da cui non è possibile distogliere lo sguardo nonostante l'orrore che rappresenta.

Perché Joan Lui, esattamente come Adrian, nel suo inconsapevole orrore audiovisivo, è infine una delle esperienze più indimenticabili che uno spettatore possa vivere, in grado di regalare ilarità, noia, imbarazzo e rabbia, tutte allo stesso tempo. È uno dei peggiori film che vedrete mai, e la cosa più strana è che, forse, nemmeno ve ne pentirete.


Dati tecnici

  • Regia: Adriano Celentano
  • Anno: 1985
  • Paese di produzione: Italia, Germania Ovest
  • Casa di produzione: Cecchi Gori Silver Film, Extrafilm Produktion
  • Fotografia: Alfio Contini
  • Musiche: Adriano Celentano, Pinuccio Pirazzoli, Ronny Jackson, Gino Santercole
  • Tutto il resto: Adriano Celentano

sabato 12 febbraio 2022

FRESCO DI CELLULOIDE: NIGHTMARE ALLEY, DI GUILLERMO DEL TORO

Per la rubrica Fresco di celluloide oggi vi parlo di Nightmare Alley, alias La fiera delle illusioni, ultima fatica di Guillermo Del Toro.

Remake dell'omonimo film del 1947, eppure non si direbbe. Perché in mano a Del Toro anche una storia già raccontata appare nuova, come già ci hanno dimostrato perle come Il labirinto del fauno e La forma dell'acqua. In ogni suo film il regista messicano ci immerge in un nuovo mondo, e Nightmare Alley non fa eccezione. Fra scenografie straordinarie e suggestive, fotografia impeccabile e grandi interpretazioni (con un Bradley Cooper nel ruolo che fu di Tyrone Power), assistiamo a una parabola, l'ascesa e la caduta di un uomo che abbandona l'umiltà in favore della cupidigia.

È incredibile, per un'opera ambientata nel mondo del circo firmata da un autore che sguazza nel fantastico, ma l'irreale e la giocosità sono stavolta quasi bandite, senza nemmeno un'oncia di speranza lasciata allo spettatore una volta arrivato al finale.
E la crudezza, dell'animo ancora più che della vista, è assolutamente necessaria per un film di formazione, tra le migliori pellicole dell'anno.

E così, in attesa del suo Pinocchio, prima incursione di Guillermo nell'animazione, non posso che consigliare a tutti di correre al cinema per questa perla. A me, sicuramente, ha fatto venire voglia di recuperare il film originale.