mercoledì 22 dicembre 2021

I 10 MIGLIORI FILM DEL 2021


È il momento. Siamo arrivati inesorabilmente alla fine dell'anno. Spero che in questo 2021, sicuramente migliore dell'anno precedente, abbiate avuto la possibilità di andare al cinema il più spesso possibile, se pur con mascherine, distanziamenti e amenità varie. Io sicuramente non mi sono fatto mettere i bastoni fra le ruote e, tra un litigio con i trasgressori delle regole anti Covid e una discussione con chi teneva il telefono acceso con l'illuminazione al massimo, ho visto senza dubbio molta più roba rispetto all'anno scorso (quando tra l'altro dei pochi film che ero riuscito a vedere in sala me ne saranno piaciuti cinque...).

Comunque, come ogni testata, pagina o blog di cinema che si rispetti, anch'io ho deciso di stilare una lista dei film migliori del 2021, o quantomeno dei film che io ho preferito tra quelli usciti in quest'anno solare. Come d'obbligo, alcune precisazioni per pararmi il culo: se non trovate qualche titolo che secondo voi meriterebbe un posto in questa lista, considerate la possibilità che non mi sia piaciuto quanto a voi o, molto semplicemente, non l'abbia visto. Del resto, se avessi il tempo e il denaro per vedere ogni singola pellicola in sala penso che lo farei, senza contare il fatto che titoli molto attesi come Ultima notte a Soho e Annette nella mia città non sono proprio arrivati...

Per cui, anticipando subito che non troverete l'ultimo Spider-Man, direi di non perdere altro tempo e iniziare. In ordine allegramente sparso, questi sono i film che ho apprezzato di più nel 2021:



Nomadland
di Chloé Zhao


Partiamo con un film uscito nell'anno solare 2020, ma arrivato in Italia solo a fine aprile e non in sala grazie a una fantastica scelta di distribuzione (grazie, Disney). Il film vincitore del Leone d'Oro alla mostra di Venezia è stato uno dei film commerciali più politici dell'anno, e sotto questa luce il fatto che si sia aggiudicato tre premi Oscar, tra cui quello al miglior film, appare forse meno sorprendente di quanto si potrebbe pensare. La pellicola tratta un tema molto serio e socialmente rilevante, ma non lo fa in tono polemico, focalizzandosi più sulle implicazioni esistenziali di una situazione ai limiti del disumano che coinvolge molti, troppi lavoratori. La condanna al capitalismo rimane sullo sfondo di quella che è soprattutto un'opera contemplativa, in cui la collettività è più importante di quella che sarebbe la protagonista (una Frances McDormand meritatamente premiata con il suo terzo Oscar), anche perché l'ottima regia sceglie di esaltare soprattutto le splendide ambientazioni, con campi lunghi e lunghissimi che fanno sembrare i personaggi umani quasi delle formiche in balìa del mondo. Perché in fondo è questo che sono i piccoli dipendenti per le multinazionali: formiche che devono produrre, fino a quando non si fanno più soldi. Dopodiché, li attende la vita fuori dal formicaio, costretti a lottare per sopravvivere.

Tutto ciò, unito a una magnifica colonna sonora del maestro Ludovico Einaudi, riserva a questo film un posto tra i migliori dell'anno, assurdo per me se penso che quest'anno la stessa Zhao sia stata anche dietro la macchina da presa di Eternals, film Marvel talmente anonimo che potrebbe tranquillamente averlo diretto mio cugino.


Rifkin's Festival di Woody Allen


Altro film uscito a fine 2020, ma arrivato in ritardo in Italia a causa della pandemia, è l'ennesimo ottimo film di uno dei più grandi maestri della commedia mondiale, che nonostante l'ormai veneranda età continua a dimostrare una lucidità senza pari. Con Rifkin's Festival Allen si diverte come un ragazzo, ribadendo sì gli stessi temi che propone da oltre 50 anni, ma rappresentandoli con una freschezza e una brillantezza che risulterebbero sorprendenti anche per un giovinastro. Il protagonista Mort Rifkin (Wallace Shawn) si aggiunge alla folta schiera di “cloni” caratteriali dell'autore, vagando (letteralmente) tra incertezze coniugali, blocchi dello scrittore e crisi esistenziali e trovando (forse) la salvezza nella figura di una dottoressa spagnola interpretata dalla bellissima Elena Anaya, che sono molto contento di aver ritrovato dopo averla apprezzata in quel capolavoro di La pelle che abito del monumentale Pedro Almodòvar.
Con un rinfrescante guizzo di creatività, Allen sceglie di dare forma alla psiche dell'insicuro Mort attraverso quello che sia lui che lo stesso regista amano di più: il grande cinema. La regia si fa magnificamente camaleontica nel replicare perfettamente alcune scene dai capolavori di Fellini, Godard, Welles e, ovviamente, Bergman. 
E da fan sfegatato delle opere di Allen non appena ho visto quel finale, tributo al grande maestro svedese e allo stesso tempo autocitazione ad uno dei primi e più grandi capolavori del maestro di New York, non ho potuto non sorridere pensando: “Buon vecchio zio Woody, l'hai fatto ancora”.


A Classic Horror Story di Roberto De Feo e Paolo Strippoli



Primo film italiano della lista, e sono felice di dire che non sarà l'ultimo. Quando si dice nomen omen: Paolo Strippoli e Roberto De Feo (già responsabile dell'ottimo The Nest, a mio parere superiore) ci regalano appunto una classica storia horror, una divertente rilettura di alcuni stilemi del genere filtrate da un'ambientazione geo-culturale tutta italiana. Un film a basso costo che non tradisce assolutamente la sua natura economica, e in cui gli autori si rivelano in grado di citare tanto Shining quanto Midsommar, con un comparto tecnico-visivo assolutamente all'altezza e una buona dose di meta-cinema a farla da padrone. La maggior parte degli attori, poi, se la cava più che bene, a partire dalla bravissima Matilda Lutz, già protagonista di Revenge, e perfino la piccola Alida Baldari Calabria, che sicuramente conoscerete come la Fata Turchina del Pinocchio di Matteo Garrone.

Insomma, un esperimento di genere che mi ha molto divertito, e che pertanto, nonostante le numerose critiche che l'hanno stroncato, reputo meritevole di un posto in questa lista. Mi dispiace solo di non poter includere un altro horror italiano uscito quest'anno, Il mostro della cripta, che purtroppo mi ha convinto solo in parte e che ho trovato maldestro in alcuni punti. Detto ciò, entrambi questi titoli non possono che far bene al nostro cinema, sperando davvero che possano contribuire a una rinascita del genere in questo Paese.


Luca di Enrico Casarosa



Purtroppo, l'unico film d'animazione di quest'anno che mi ha veramente colpito. Pur avendo apprezzato la Disney con il suo Encanto (decisamente meno con Raya e l'ultimo drago), è la Pixar ad averla vinta, con uno dei suoi lavori più spensierati degli ultimi anni. Luca non è né una straordinaria avventura in mondi fantastici, né una profonda esplorazione dell'animo umano, ma semplicemente una deliziosa parentesi estiva, una storia di amicizia e accettazione del diverso narrata attraverso un McGuffin: i due bambini protagonisti, Luca e Alberto, sono dei mostri marini, che cambiano in forma umana sulla terraferma e si ritrasformano a contatto con l'acqua. Il litorale costiero della Liguria, terra natale del regista Enrico Casarosa, e gli anni '60 sono il pittoresco sfondo di questa piccola fiaba moderna, che nasconde un tema molto importante sotto la candida semplicità tipica dell'infanzia.
Personaggi simpaticissimi, ambientazioni suggestive, uno stile visivo unico mai visto prima nei lavori della Pixar e una colonna sonora meravigliosa che va ad includere anche noti brani pop italiani rendono questo film una gioia per gli occhi, le orecchie e il cuore, e Casarosa, al suo primo lungometraggio dopo il poetico corto
La luna, manda un sentito messaggio d'amore per il suo Paese, con uno spirito più vicino a quello di un'opera di Fellini o dello Studio Ghibli che alla convenzione disneyana, tanto che persino il nome del paesino, Portorosso, è a solo una lettera di distanza da Porco Rosso, il capolavoro di Hayao Mityazaki anch'esso ambientato in Italia e anch'esso felliniano nell'animo. Una coincidenza? Mi piace pensare che non sia così.

Dunque, anche se mi mancano ancora alcuni titoli come Belle di Mamoru Hosoda, la Pixar vince anche quest'anno sul fronte animazione.


Dune di Deins Villeneuve



Quest'anno l'aspetto blockbuster si è rivelato piuttosto deludente dal mio punto di vista, con solo due titoli ad entrare tra i miei preferiti dell'anno. In mezzo al solito casino di supereroi, remake Disney e Fast & Furious (aiuto), l'evento dell'anno è stato senza dubbio Dune, prima parte della trasposizione del monumentale ciclo fantascientifico di Frank Herbert. Si tratta di una delle opere più importanti della letteratura di fantascienza, considerata per molto tempo, un po' come Il Signore degli Anelli, praticamente impossibile da portare sullo schermo. Già autori del calibro di David Lynch e Alejandro Jodorowsky hanno tentato l'impresa in passato, il primo riuscendoci in parte (colpa della produzione), il secondo non riuscendoci affatto.
 Il buon Denis Villeneuve, però, non è nuovo ai miracoli di questo tipo, essendo riuscito a tirare fuori un degno sequel di
Blade Runner a 35 anni dall'originale, e con Dune si porta a casa l'ennesimo film della Madonna. Stiamo parlando di un vero e proprio colossal, con effetti speciali allo stato dell'arte, un nutrito cast stellare e milioni e milioni spesi per un film che, a causa della pandemia e dei piani della Warner con HBO Max, rischiava di mancare la sala. Fortunatamente in sala ci è andato, ed ha anche incassato bene. E lasciatemelo dire, da parte di qualcuno che ha amato il libro, Villeneuve ha fatto davvero un lavorone. Il film è una space opera che non solo rende giustizia agli scritti originali (anche se si parla solo della prima parte del libro), ma riesce ad elevare l'epica della narrazione con una messa in scena davvero paurosa: gli effetti non sono sovrabbondanti, bensì sono al servizio dell'opera, il casting è azzeccatissimo, regia, montaggio e fotografia sono roba dell'altro mondo... e poi ci sono le musiche.
Hans Zimmer firma alcune delle sue composizioni migliori, una mole di lavoro tale da coprire ben tre album e per la quale il musicista ha rifiutato di lavorare a Tenet, diretto dall'amico Christopher Nolan.

Insomma, pur avendo una natura seriale e nonostante non mi senta di considerarlo al pari di altre opere di Villeneuve, da grande amante della fantascienza “impegnata” non potevo non apprezzare questo incredibile risultato, un film che, come tutte le prove migliori del regista canadese, riesce ad essere d'intrattenimento quanto profondo, senza annoiare mai nonostante le due ore e mezza di durata. Non vedo l'ora di vedere la parte 2 che uscirà nel 2023.


The Suicide Squad di James Gunn



Secondo e ultimo blockbuster, in assoluto il film che mi ha più divertito quest'anno. Solo uno come James Gunn poteva resuscitare dalle ceneri qualcosa di abominevole come il Suicide Squad del 2016, uno dei peggiori film che abbia visto in vita mia.
La DC (o meglio, la Warner), pur mirando chiaramente agli incassi, fa la scelta più azzeccata affidando all'uomo dietro il successo dei due Guardiani della Galassia la regia di questo sequel/soft reboot: il risultato è un film più violento, più divertente, con migliori effetti, migliori musiche, migliore scrittura, miglior regia, miglior TUTTO.
A differenza di Ayer, Gunn regala uno spettacolo di altissimo livello, girando un grande omaggio al cinema d'exploitation realizzato però con un budget milionario, e il suo stile, che resta intatto, si adatta perfettamente a questi personaggi, a cui finalmente viene resa giustizia e che finalmente risultano simpatici (Harley Quinn in primis), a tratti addirittura drammatici.
Lo scontro finale con un alieno stella marina di dodici piani parla chiaro: potrai togliere un regista alla Troma, ma non toglierai mai la Troma a un regista. Meravigliosamente trash.


The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun di Wes Anderson



Ritorniamo al cinema d'autore, con uno dei miei registi preferiti in assoluto. Wes Anderson, a mio parere, non ne sbaglia una, e la sua ultima fatica, presentata a Cannes, non fa eccezione. Questo sublime omaggio al mondo del giornalismo è un tipico film di Wes Anderson, frase questa che si presta a diverse interpretazioni, a seconda della sensibilità di ognuno: per alcuni si tratta di un'opera manieristica di un autore ormai intrappolato nei suoi stessi cliché, per altri, me compreso, il tipico film di Wes Anderson vuole dire gioia visiva, un tripudio di colore (quando il colore c'è), inventiva, sperimentazione tecnica e tematiche alte passate attraverso un velo di bizzarria e apparente ingenuità.
Per quanto mi riguarda, non ci troviamo davanti a uno dei migliori film del regista texano, ma si tratta comunque dell'ennesima dimostrazione della perizia e della poesia che quest'uomo riesce sempre a sprigionare, magari anche a costo di ripetersi o disorientare. 

Pur non essendo certo un I Tenenbaum o un Grand Budapest Hotel, The French Dispatch è la tipica esperienza che regala il tipico film di Wes Anderson, e per quanto mi riguarda ciò è più che sufficiente per qualificarsi come uno dei migliori dell'anno.


È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino



Restando fra i grandi autori ma tornando in Italia, non potevo non includere È stata la mano di Dio, senza dubbio il film più personale di uno degli artisti più acclamati del nostro Paese.

Sorrentino gira un po' il suo Amarcord offrendo uno spaccato della Napoli anni '80 dal punto di vista di una famiglia come tante, che trova nell'arrivo di Maradona in città una speranza. Sebbene non manchino i classici momenti in cui ogni inquadratura sembra urlare “sono il nuovo Fellini!”, il regista riesce comunque a rimanere sobrio quando serve, descrivendo con veridicità e un tocco di poesia una realtà che conosce molto bene. 
Servillo è grandioso come sempre e il giovane Filippo Scotti si è decisamente guadagnato il premio Mastroianni come miglior attore emergente alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia. Ma anche gli altri interpreti non sono da meno, in particolare una Luisa Ranieri che ha praticamente “David di Donatello alla miglior attrice non protagonista” stampato in fronte.

Pur non entrando nella top 5 dei suoi film, È stata la mano di Dio è il migliore di Sorrentino da dieci anni a questa parte, ed è un vero peccato che si sia potuto godere la sala per solo un mese prima di finire relegato su Netflix.


The Last Duel di Ridley Scott



Senza dubbio il film più sottovalutato di questa lista, considerando che si è rivelato un enorme fallimento al box-office e non se ne sente parlare in giro quanto si meriterebbe.
Per quanto mi riguarda, se le catastrofiche recensioni di House of Gucci dovessero rivelarsi fondate non sarebbe una tragedia, considerando che per quest'anno Ridley Scott ha dimostrato di essere in piena forma con The Last Duel: con il pretesto di raccontare l'avvenimento storico dell'ultimo “duello di Dio”, avvenuto nel 1386, la splendida sceneggiatura di Matt Damon e Ben Affleck (!) fa un illuminante discorso sul concetto di stupro e consenso, ponendo al centro di tutto la figura di una donna vittima (o almeno così pare) della violenza di un mondo patriarcale che vedeva il sesso femminile come un bene da usare ed esporre piuttosto che come un essere umano con una dignità. Un mondo che mi piacerebbe pensare sia molto cambiato in 600 anni, se non fosse che i discorsi al limite del delirante che sentiamo uscire dalla bocca dei personaggi di Matt Damon e Adam Driver suonano spaventosamente simili ad alcuni che ho sentito realmente con le mie orecchie. È un film crudo, girato da Scott con una maestria innegabile e che, tralasciando un Ben Affleck totalmente fuori parte, vanta interpretazioni di altissimo livello, in particolare quella di Jodie Comer, che detto francamente è materiale da Oscar.

Troppo passato in sordina, ma del resto non c'è da stupirsi, considerando che è disponibile su Disney+ già a due mesi dell'uscita nelle sale...



Diabolik
dei Manetti bros.


Prima parlavamo di un possibile ritorno del genere in Italia, e un altro film che mi fa ben sperare è l'ultima fatica dei Manetti, uscito da una settimana e che, non ve lo ripeterò mai abbastanza, dovete andare a vedere, perché una roba del genere NON DEVE fare flop.

Diabolik è un cinefumetto riuscito praticamente in tutto, un esercizio di stile pop e divertente con il quale i registi riescono a rendere giustizia a uno dei fumetti più amati della storia del nostro Paese, oltre che a citare addirittura il grande Mario Bava con scelte di regia e fotografia veramente grandiose a tratti figlie del film cult del 1968. Dalla sceneggiatura giocosa ai personaggi, dalle interpretazioni (Miriam Leone a parte) all'aspetto tecnico, tutto funziona alla stragrande nel replicare lo stile e l'atmosfera degli anni '60, periodo in cui il rivoluzionario fumetto delle sorelle Giussani iniziò la pubblicazione. L'unica pecca è forse il finale, non a livello narrativo ma per la messa in scena da pubblicità del profumo, sembrava che dovesse partire Parlami d'amore, Mariù da un momento all'altro.

Per il resto, è un film sostanzialmente perfetto per ciò che vuole essere: un film d'intrattenimento, realizzato con tutti i crismi e che mi ha pure fatto venire voglia di rispolverare la mia collezione di fumetti di Diabolik.

Una scommessa assolutamente riuscita, che spero vivamente risulti vincente anche dal punto di vista economico.


Dunque, questi sono i film che mi hanno più colpito in questo 2021 ormai quasi finito.
Cosa ne pensate? Quali sono i film che avete preferito quest'anno? Fatemelo sapere con un commento.
Io vi ringrazio per aver letto e vi auguro di passare un felice Natale e un anno nuovo di gran lunga migliore di quello appena trascorso. Ciao!

venerdì 3 dicembre 2021

DIETRO IL FUMETTO: CHI ERA JERRY SIEGEL

In un periodo come questo in cui al cinema troviamo più cinecomic che poltrone è impossibile immaginare che ci sia qualcuno che non abbia anche solo un minimo di familiarità col mondo dei supereroi. Che sia per i centomila film del Marvel Cinematic Universe o per i cartoni animati che ci accompagnavano da bambini, tutti abbiamo anche solo un'idea di cosa sia un supereroe.

È forse un po' più lecito chiedersi in quanti tra queste folle oceaniche di spettatori abbiano anche solo una vaga idea da dove venga tutta questa sovrabbondanza di superpoteri, costumi, scontri e nemici da sconfiggere. Tutti sanno benissimo chi siano Bruce Wayne, Peter Parker o Tony Stark, ma probabilmente un altro nome, quello di Jerry Siegel, risulterà sconosciuto ai più.

Certo, l'autore sarà sempre destinato ad essere oscurato dalla popolarità delle sue opere, eppure se pensiamo a un personaggio come Stan Lee, fondatore della Marvel Comics, la sua fama e iconicità come demiurgo del fumetto sono ben consolidate nell'immaginario di tutti anche dopo la sua morte.

Ma prima di Stan Lee e della Marvel, Jerry Siegel, giovane americano figlio di immigrati
ebrei della Lituania in fuga dall'antisemitismo, diede inizio, insieme all'amico disegnatore Joe Shuster, all'intero genere supe
reroistico: nel 1933, i due amici uniti dall'amore per la fantascienza crearono il personaggio di Superman per un racconto in testo e illustrazioni autopubblicato in una delle prime fanzine della storia. Da lì la strada fu tutt'altro che in discesa, e nei successivi cinque anni i due tentarono invano di vendere la loro idea al King Features Syndicate, l'ente che si occupava di distribuire le strisce a fumetti sui quotidiani. Perché, fin dagli albori del fumetto, erano i quotidiani il maggior veicolo di diffusione del fumetto, con innumerevoli titoli a volte dalla natura autoconclusiva, ma più spesso promulgatori di lunghe epopee che si sviluppavano per mesi e mesi, al ritmo di una striscia al giorno o di una tavola a settimana: il Braccio di Ferro di Elzie C. Segar, il Flash Gordon di Alex Raymond e il Dick Tracy di Chester Gould sono solo gli esempi più famosi di un mercato gigantesco, dove trovavano spazio centinaia di autori dei generi più disparati.

La copertina di Action Comics n°1

Ma non fu dai quotidiani che arrivò la risposta che Jerry e Joe aspettavano, bensì da un mondo relativamente nuovo: i comic book. Al prezzo allora rivoluzionario di 10 centesimi la National Publications, oggi conosciuta come DC Comics, pubblicò la prima storia con protagonista Superman nel primo numero di Action Comics: fu la nascita non solo del filone supereroistico, ma anche del formato comic book. Se in precedenza questo tipo di riviste era relegato esclusivamente alla ristampa di storie già comparse sui quotidiani, Action Comics #1 fu il primo a presentare contenuti completamente nuovi, aprendo la strada per un intero medium. Il successo fu impressionante, ma purtroppo i due autori non poterono mai goderne appieno.

Ancora giovani e ingenui, Jerry e Joe accettarono infatti di vendere tutti i diritti sul personaggio alla casa editrice, e così, quando l'Uomo d'Acciaio divenne un fenomeno spopolando tra i lettori americani di tutte le età, i due rimasero con 130 miseri dollari. Ma, almeno, poterono continuare a scrivere la serie regolare del personaggio percependo uno stipendio, almeno fino al 1943, quando Siegel venne chiamato alle armi dall'esercito impegnato nella Seconda Guerra Mondiale. Al suo ritorno, tre anni dopo, lo accolse una doccia fredda: non solo scoprì che la DC aveva rubato la sua idea di Superboy, la versione giovanile di Superman, ma deteneva anche i diritti di tutto il merchandise sul personaggio, compreso un radiodramma di grande successo. La questione si risolse con un accordo secondo il quale la casa editrice avrebbe mantenuto tutti i diritti in cambio di 94.00 dollari.

Ma anche stavolta, lo sfortunato Jerry trovò pane per i suoi denti: poco dopo aver lasciato la DC, infatti, il divorzio dalla sua prima moglie lo lasciò con gravi problemi finanziari, e lo sceneggiatore cercò di risollevare le proprie sorti prima creando il supereroe comico Funnyman insieme a Shuster, senza successo, poi accettando lavori come scrittore freelance. Quello che oggi conosciamo come il creatore del personaggio più leggendario della storia del fumetto viveva in quel periodo in un monolocale e aveva serie difficoltà a pagare le tasse.
Proprio per questo, spinto dalla seconda moglie, nel 1959 tornò con la coda fra le gambe a scrivere storie di Superman per la DC, dovendo però sottostare al volere della direzione, senza alcun potere creativo o decisionale. Perlomeno, adesso poteva di nuovo provvedere alla sua famiglia, se non fosse che nel 1966 venne nuovamente licenziato quando la DC scoprì la sua intenzione di querelare di nuovo per i diritti sui suoi personaggi. Manco a dirlo, perse anche stavolta. Il povero Jerry si ritrovò nuovamente in cattive acque, fino a quando, esattamente come nel 1938, la salvezza arrivò da dove meno si sarebbe aspettato.

Nel 1968 si rivolge infatti alla casa editrice Western, che in quel periodo deteneva i diritti per pubblicare i fumetti con personaggi Disney: il creatore di Superman si ritrovò così a scrivere per il mensile Huey, Dewey & Louie Junior Woodchucks, dedicato alle avventure delle Giovani Marmotte, alternandosi nientemeno che con Carl Barks, ideatore proprio delle Giovani Marmotte. Qualora non sappiate chi sia Barks, considerate semplicemente che la sua importanza nell'universo fumettistico Disney, quello che ancora oggi trovate ogni settimana su Topolino, è pari, se non maggiore, a quella che Stan Lee ha avuto in Marvel. Fu così che due tra i più grandi giganti del fumetto americano si ritrovarono casualmente a condividere lo scettro della stessa testata, ma questo fu solo l'inizio.

Siegel e Shustre al lavoro su Superman

Nel 1971, infatti, entrò in gioco un altro personaggio leggendario, ancora più inaspettato perché stavolta italiano. Mario Gentilini, primo storico direttore di Topolino, si trovava in visita agli studi Disney a Burbank, e poco lontano, a Los Angeles, conobbe proprio Jerry Siegel. Fu questo strano incontro a riesumare la carriera di Siegel, lanciandola in uno dei suoi periodi migliori: Gentilini gli propose infatti di scrivere sceneggiature con i personaggi Disney da pubblicare sulle testate italiane, principalmente Topolino e Almanacco Topolino, che a quei tempi godevano di grandissima popolarità e diffusione nel nostro Paese. Da padre fondatore del fumetto supereroistico, Siegel passò così allo status di Maestro Disney italiano, e se pensate che sia un passo indietro vi sbagliate: la scuola Disney italiana è infatti tra le più apprezzate e influenti al mondo, e Jerry si trovò a scrivere storie per le matite di autori del calibro di Romano Scarpa e Giorgio Cavazzano (semplicemente due dei più grandi fumettisti italiani di sempre).

Questa è dunque la storia di una delle carriere più peculiari della storia del fumetto, ma non finisce qui. Nel 1978, infatti, la Warner Bros., proprietaria della DC dal 1969, produsse Superman, di Richard Donner, il primo grande blockbuster della storia del cinema dedicato a un supereroe, destinato a diventare un successo commerciale e di critica.
Non appena appreso dell'imminente uscita del film, Siegel contattò la Warner informandola delle sue precarie condizioni di lavoro: forse mossa a compassione, l'azienda decise di venire incontro all'uomo responsabile di quel grande successo, accettando di concedere a lui e a Shuster un compenso annuo di 20.000 dollari (che poi divennero 30.000) come sorta di pegno morale per l'utilizzo del personaggio. Certo, forse fu semplicemente per evitare ulteriori azioni legali, sta di fatto che da allora ogni film, fumetto e opera di qualsiasi tipo relativa a Superman reca la dicitura “Superman creato da Jerry Siegel e Joe Shuster”, una conquista non di poco conto in un mondo in cui per anni gli autori non venivano quasi mai accreditati come tali.

Ma c'è qualcosa di cui non ho ancora parlato, un episodio parecchio significativo se pensiamo a tutto quanto è successo dopo.

Nel 1932, quando Jerry aveva 7 anni, suo padre venne aggredito da un rapinatore nel suo negozio di abbigliamento, arrivando a morire di crepacuore per l'accaduto.

Una terribile tragedia. Un'ingiustizia. E qual è il compito di un supereroe, se non rimediare a qualunque tipo di ingiustizia, in nome di un bene superiore?

È questo che mi piace pensare: Superman, e di riflesso tutti i supereroi, non sono nati per un impulso economico o in virtù di chissà quale velleità artistica: sono nati perché un bambino ha perso suo padre.

Da tempo malato di cuore, Jerry Siegel morì a Los Angeles nel 1996, a 81 anni, per un infarto, come entrambi i suoi genitori. Anche la sua morte ha un che di poco glorioso, dopo una vita vissuta all'ombra di altri.

E forse è proprio per questo motivo che ho così a cuore la sua figura. La figura di un uomo che ha passato un'infanzia difficile, che ha affrontato mille difficoltà di ogni tipo, che ha dato uno dei più grandi contributi nella storia della cultura pop, non solo per quanto riguarda i supereroi, ma che è rimasto per gran parte della sua esistenza nell'anonimato. Un uomo che però, nonostante tutto, non si è mai arreso.

Spero pertanto che sempre più gente cominci a ricordare, ogni volta che leggerà un fumetto, guarderà un film, una serie o anche solo penserà al concetto stesso di supereroe, che tutto è partito da un piccolo uomo di nome Jerry Siegel.


mercoledì 17 novembre 2021

BRONX, DI ROBERT DE NIRO

Fin da quando mi sono appassionato al cinema, ho sempre amato i gangster movie.
Film come Il padrino, Quei bravi ragazzi e Pulp Fiction sono tra i miei preferiti in assoluto, ed ho amato serie come I Soprano e, perché no, Breaking Bad per avermi dimostrato che anche la televisione è stata in grado di regalare vere e proprie perle a questo filone.
Ma oggi voglio parlarvi di un film appartenente al sottobosco del mondo gangster, sicuramente un cult, ma mai osannato e ricordato come gli esempi che ho appena citato.

Bronx è un gangster movie considerato spesso “minore”. Eppure segna l'esordio dietro la macchina da preso di un gigante come Robert De Niro, tra gli interpreti maggiormente associati al genere, qui coprotagonista insieme a un grande caratterista come Chazz Palminteri, autore anche dell'opera teatrale A Bronx Tale, da cui il film è tratto.

Ispirata dalla vera infanzia del suo autore, si tratta di una storia piccola, quasi una parabola, incorniciata all'interno di una via di un quartiere di New York, in cui piccoli boss della malavita locale incrociano la vita di un giovane italo-americano come tanti e del suo premuroso padre. I rapporti tra tutti questi personaggi vengono descritti splendidamente nella sceneggiatura di Palminteri, in particolare il bellissimo legame tra il personaggio di De Niro (il padre) e suo figlio Calogero, interpretato da adolescente da Lillo Brancato e da piccolo dall'ottimo attore bambino Francis Capra. E forse è un caso, ma in questo contesto apparentemente molto classico fatto di mafiosi dai soprannomi caratteristici, sparatorie nel mezzo della strada e disagio giovanile, è proprio lo spirito di Frank Capra (il regista) che sembra permeare il tutto, quando notiamo che ciò che trova più spazio in questa storia che dovrebbe parlare di mafia sono i rapporti umani. Non solo quello tra Calogero e suo padre, ma tra Calogero e Jane, la ragazza di colore di cui si innamora, che gli autori calano coraggiosamente un contesto socio-politico, quello degli anni '60, caratterizzato da tensioni razziali particolarmente intense: altro aspetto centrale del film è infatti quello dell'integrazione, di come una città all'apparenza moderna come la New York del 1968 sia in realtà ancora pienamente calata nella concezione ufficiosamente segregazionista che forse, ahimè, non è ancora stata del tutto debellata. È in

Francis Capra e Robert De Niro
teressante come in questo film la città sembri divisa fra italoamericani e afroamericani, in uno scontro culturale che sembra destinato a vedere tutti perdenti, in un America che, a dispetto della sua accattivante facciata, non fa sconti per nessuno.
De Niro apprende certamente dai maestri che hanno forgiato la sua carriera fino a quel punto, ma forse l'influenza che più si sente, ancor più di Scorsese o Coppola, è quella di Sergio Leone e del suo
C'era una volta in America, con una scena in particolare (a voi scoprire quale) che rimanda inevitabilmente a uno dei momenti di più alto pathos del capolavoro di Leone. Per la sua regia d'esordio De Niro mette da parte il virtuosismo per concentrarsi brillantemente sulle azioni, non della scena ma dei personaggi, e tutte le conseguenze che tali azioni comportano verso di loro e chi gli sta intorno.


Gli splendidi dialoghi e la splendida voce narrante del protagonista Calogero, uniti a interpretazioni magistrali (con tanto di cameo illustre sul finale) e alla tipica colonna sonora a base di swing, doo-wop e blues, rendono
Bronx un film straordinario, sicuramente atipico per il genere, ma che riesce a mio parere a catturarne uno degli aspetti fondamentali alle volte trascurato. Robert De Niro dedica significativamente il film al padre, all'epoca appena scomparso, e regala a noi spettatori una piccola perla poco nota e poco celebrata, un affresco lucido e candido di una realtà poco lucida e tutt'altro che candida.


Dati tecnici


Regia: Robert De Niro

Anno: 1993

Paese di produzione: Stati Uniti d'America

Casa di produzione: Savoy Pictures

Fotografia: Reynaldo Villalobos

Musiche: Butch Barbella

venerdì 29 ottobre 2021

SPECIALE HALLOWEEN: HALLOWEEN - LA NOTTE DELLE STREGHE

"Malocchio e gatti neri, malefici misteri / il grido di un bambino bruciato nel camino / nell'occhio di una strega, il diavolo s'annega / e spunta fuori l'ombra: l'ombra della strega! / La vigilia d'Ognissanti han paura tutti quanti: / è la notte delle streghe! / Chi non paga presto piange! "
Buonanotte, amici e amiche. Cosa vi viene in mente non appena pensate ad Halloween? Personalmente la prima cosa che questa parola mi suggerisce è la colonizzazione culturale che gli Stati Uniti operano su di noi da circa 80 anni a questa parte, tanto da condurci persino a celebrare una loro festa senza avere la minima idea del suo significato. Ma hey, è anche una scusa come un'altra per celebrare il terrore (quello fantasioso, ovviamente), e da amante del cinema quale sono anch'io mi lascio coinvolgere e mi abbandono ogni anno alla visione (o revisione) dei miei horror preferiti. E, tornando alla domanda che ho posto all'inizio di questa recensione, il primo film che mi viene in mente quando penso alla notte delle streghe è il mitico cult di John Carpenter che ne porta il nome. Non è solo una mera questione di titolo: questo film riesce sempre a suscitarmi quelle sensazioni che, nel mio immaginario personale, associo istintivamente a questo periodo dell'anno: non solo la paura, ma anche l'autunno, le foglie che cadono, le notti cupe e fredde, tutto rievocato magnificamente nel film di Carpenter, ed è per questo che ogni anno non manco mai all'appuntamento con questo classico. Ma i meriti di Halloween – La notte delle streghe, questo il sottotitolo italiano, vanno ben oltre i miei gusti personali. Del resto, se io e innumerevoli critici di tutto il mondo lo consideriamo un capolavoro un motivo ci sarà, e stanotte, tra uno sgozzamento e un rito satanico, cercherò di spiegarvi perché. Tanto per cominciare, il film è considerato tra gli iniziatori del filone slasher; certo, in questo il buon Carpenter era stato anticipato ben sette anni prima dal nostro Mario Bava, che con il capolavoro Reazione a catena ha ispirato almeno una generazione di autori horror. È anche vero però che la vera e propria slasher-mania esplosa negli anni '80 si deve in larga parte al grandissimo successo proprio di Halloween e di altri film del periodo, come il canadese Black Christmas, successo ben comprensibile, soprattutto se ci documentiamo sulla produzione di questo film. Terza opera di Carpenter, è stata realizzata con un budget risibile e prodotta dalla allora fidanzata del regista Debra Hill. Gli attori si dovettero accontentare di un cachet ridotto, mentre l'iconica maschera dell'assassino venne ricavata da una raffigurante il capitano Kirk di Star Trek, acquistata per appena due dollari: l'inespressività del volto di William Shatner era esattamente quello che il regista voleva, e fu così che divenne il volto mascherato di Michael Myers. Per il casting si scelsero per forza di cose attori non particolarmente famosi, a partire da una giovanissima Jamie Lee Curtis nel ruolo di Laurie Strode, coinvolta nel film perché figlia di Janet Leigh, indimenticabile protagonista di Psycho, mentre per il ruolo del dottor Sam Loomis si optò per il veterano Donald Pleasence, dopo il rifiuto di altre star dell'horror britannico come Christopher Lee e Peter Cushing. Michael Myers, invece, venne interpretato, solo per il corpo, da Nick Castle, amico e collaboratore storico di Carpenter, mentre il viso venne fornito dal giovane attore emergente Tony Moran.
Gli elementi che rendono Halloween un capolavoro del genere sono tanti: basterebbe l'ascolto della colonna sonora che introduce il film per farci venire la pelle d'oca, tra l'altro composta dallo stesso Carpenter rimaneggiando il tema di Profondo rosso di Dario Argento (notare quanto l'Italia sia presente nel DNA di questo film). Subito dopo, la nostra attenzione viene immediatamente rapita dall'eccezionale piano sequenza che costruisce la prima scena del film, in cui il regista sfoggia un utilizzo allora sperimentale della steadicam, che di lì a due anni avrebbe dimostrato tutto il suo potenziale in un altro capolavoro, quello Shining realizzato abbastanza benino da quel tal Stanley Kubrick. La telecamera sviscera le origini del male con una soggettiva che mette lo spettatore nel mezzo della vicenda, rendendolo partecipe in prima persona dell'omicidio efferato da parte di un Michael Myers di 6 anni ai danni della sorella adolescente. Impossibile dimenticare la faccia del bambino appena divenuto assassino, il coltello grondante sangue in mano e la maschera di Halloween alzata sulla fronte. Questi cinque minuti di perizia tecnica e suggestione visiva basterebbero a consacrare la pellicola nell'Olimpo del cinema, ma è solo l'inizio. In questa storia ambientata quasi interamente il 31 ottobre 1978 in un piccolo quartiere del'Illinois, Carpenter costruisce la tensione in maniera impeccabile, con lenti movimenti di macchina che seguono, ora da vicino, ora da lontano, i nostri protagonisti, inconsapevoli del terrore che sta per colpire il loro tranquillo vicinato. Seguendo la logica hitchcockiana, il regista non ci mostra chiaramente l'assassino fino a ben oltre la metà del film, ritraendolo sempre in campo lungo, o di sbieco, o in ombra, ma mai in primo piano fin quasi alla fine. Lo spettatore è però costantemente consapevole della sua presenza in scena, cosa che alimenta il senso di angoscia per l'inconsapevolezza dei personaggi sullo schermo, destinati quasi tutti a una morte cruenta e inevitabile. Perché Michael Myers, come asserito più volte dal dottor Loomis, ha ben poco di umano, è un'inarrestabile macchina mortale, il male incarnato. Non a caso, nonostante venga ucciso almeno tre volte nel corso del film, il finale rimane aperto, lasciando i protagonisti (e gli spettatori) inorriditi al pensiero che questa entità così malvagia sia ancora in circolazione.
Insomma, un film del genere uscito in un periodo di tarda Nuova Hollywood, estremamente fertile e libero per gli artisti emergenti, non poteva che avere successo, anche grazie alla maestria con cui Carpenter e produzione sono riusciti a gestire il poco budget a disposizione, giocando di sottrazione e ammantando così la vicenda di un'aura quasi soprannaturale, un po' come Steven Spielberg aveva fatto con lo squalo nel suo omonimo capolavoro. La critica dell'epoca fu scettica, ma il successo al box-office non solo diede credibilità a un giovane regista alla sua terza opera, ma consacrò Jamie Lee Curtis come una delle scream queen più memorabili di sempre (tale madre...) e ravvivò la carriera di Pleasence, che ricoprirà una miriade di ruoli, per lo più in horror, fino alla sua morte nel 1995. Ad oggi, Halloween è a giusto titolo considerato un capolavoro del cinema e uno dei migliori film horror di tutti i tempi, e anche per questo dispiace che un autore come John Carpenter sia ancora oggi così poco celebrato e poco ricordato da critica e pubblico, nonostante abbia nella sua filmografia più cult e capolavori di molti registi ammirati di oggi. Halloween, per concludere, è un must-watch ogni ottobre, e se per caso la sera del 31 doveste avere la strana sensazione di essere osservati... assicuratevi che “l'ombra della strega” non stia bazzicando il vostro vicinato...

Dati tecnici

Regia: John Carpenter

Anno: 1978

Paese di produzione: Stati Uniti d'America

Casa di produzione: Compass International Pictures, Falcon International Productions

Fotografia: Dean Cundey

Musiche: John Carpenter

giovedì 21 ottobre 2021

LO CHIAMAVANO TRINITÀ: PER UN PUGNO DI FAGIOLI

Bentornati, amici e amiche! Oggi ho una confessione da farvi: non ho mai visto un film con Bud Spencer e Terence Hill prima di quest'anno. Potrà risultare incredibile per alcuni di voi, sapendo quanto sia appassionato di cinema, il fatto che in 26 anni di esistenza non abbia mai visionato nemmeno uno di quei film che per decenni hanno tenuto in piedi il palinsesto di Rete 4, fra una puntata di Colombo e una figura di merda in diretta di Emilio Fede. Per altri, il fatto che il primo western che recensisco su questo blog sia di fatto una parodia potrà sembrare barare. Ma cosa posso dirvi? Mi ci vorranno almeno un centinaio di visioni per poter disquisire degnamente sulla trilogia del dollaro o su Sentieri selvaggi, mentre sento che già dopo due visioni le mie idee su Lo chiamavano Trinità siano abbastanza chiare. Ebbene sì, si torna a parlare di cult e di cinema italiano, quindi direi di non indugiare oltre.

La seconda metà degli anni '60, in Italia, era un periodo dominato dallo spaghetti western. Il maestro Sergio Leone aveva rimodellato il genere forse più americano di sempre trasformandolo in qualcosa di nuovo, e gli altri registi di genere nel Paese non avevano tardato a prendere appunti. Presto scoppiò una vera e propria invasione di epigoni “leoniani”, alcuni di altissimo livello, altri decisamente più scontati. Nacquero i western politici, i thriller western, addirittura gli horror western, arrivando inevitabilmente alla parodia, con esempi come Il bello, il brutto e il cretino con Franco e Ciccio.

Hill e Spencer nei ruoli di Trinità e Bambino
Arrivati però al 1970, lo spaghetti western, così com'era esploso, stava lentamente sfiorendo sotto il peso del manierismo, e quello che fece E.B. Clucher (all'anagrafe Enzo Barboni) con Lo chiamavano Trinità fu forse il segnale più chiaro dell'inevitabile declino del genere. Del resto, si sa, quando dalla serietà si vira verso la farsa vuol dire che il filone si è esaurito, e il ricorso alla commedia è spesso visto come l'ultima spiaggia a cui approdare per salvarsi da un mare di banalità. Fortunatamente, però, Lo chiamavano Trinità è molto di più che una semplice parodia: è una felicissima fotografia del cinema italiano anni '70, di quella commedia che ancora osava mischiarsi al serio e che nella storia dei due fratelli Bambino e Trinità (due fantastici Bud Spencer e Terence Hill, lanciati proprio con questa pellicola) gioca con gli stereotipi del western all'italiana fondendoli con quelli della commedia slapstick, dando vita a un ibrido che sembra tutt'altro che innaturale.

Del resto, non appena le nostre orecchie avvertono il tema musicale di Franco Micalizzi fischiato dal mitico Alessandro Alessandroni, l'uomo dietro il famoso fischio delle musiche di Morricone per i film di Leone, veniamo subito trasportati in un'atmosfera decisamente familiare: a questi suoni tanto tipici quando splendidi si aggiungono le immagini delle primissime inquadrature, con un pistolero dai vestiti sporchi e dal cappello calato sul volto, talmente svogliato da lasciarsi trascinare dal suo cavallo sdraiato su una treggia, che per di più nemmeno parla per i primi 5 minuti di film.
È chiaramente un tipico personaggio alla Clint Eastwood, un semi-fuorilegge dalla mira infallibile e dal cuore d'oro, che incontra un ex bandito diventato sceriffo con il quale si allea per combattere un perfido latifondista che perseguita un'innocua comunità. Eppure, alla fine si ha la sensazione di aver assistito più a un cartone animato di Tex Avery che a un classico western all'italiana. Le sparatorie lasciano il posto ai pugni e ai ceffoni, e l'antieroe solitario non è più così tanto solitario, legato com'è al burbero fratello, un Bud Spencer che a quest'immagine da gigante buono dovrà gran parte della sua fortuna, con quel suo tipico sguardo svogliato che ti dà l'impressione che sia quasi costretto a fare uso della sua forza, quando preferirebbe farne a meno.
Le scene clue sono troppe da citare: Trinità che divora voracemente il suo piatto di fagioli salvo poi sentenziare che “facevano schifo”, Bambino che si libera dei tre uomini del maggiore Harriman in una frazione di secondo, la fantastica rissa tra mormoni e banditi alla fine del film, in cui la violenza viene stemperata da gag ed effetti sonori ormai diventati iconici. Per non parlare del finale, con Trinità che, dapprima deciso ad unirsi alla pacifica comunità di mormoni attratto dall'allettante idea della poligamia, scappa a gambe levate non appena apprende del duro lavoro e della costante preghiera che quello stile di vita impone. Anche gli aneddoti riguardo la produzione si sprecano: pare che per la scena dei fagioli Terence Hill si preparò digiunando per almeno 24 ore, mentre per i ceffoni si allenava tutti i giorni a casa sua schiaffeggiando una colonna, suscitando la perplessità della moglie, preoccupata per la sua sanità mentale.

Terence Hill nella famosa scena dei fagioli

Come tutti sappiamo, la formula delle "scazzottate" si rivelerà estremamente di successo, tanto da costruire la fortuna di tre intere carriere, quella di Barboni, che sfruttò l'onda del successo per sfornare immediatamente un sequel, e quelle di Spencer e Hill, per oltre un ventennio beniamini del pubblico italiano, e non solo.

Un film dunque impossibile da non guardare col sorriso, che oltre a inserirsi perfettamente nel vasto ed eterogeneo panorama della commedia all'italiana raccoglie degnamente il testimone di un'epoca ormai al tramonto, ma che per un breve periodo conoscerà rinnovata popolarità sotto forma di quello che qualcuno, non senza un velo di ironia, ha battezzato "fagioli western". Se tale termine sia spregiativo o lusinghiero lo lascerò decidere a chi di voi avrà voglia di dare un'occhiata a questo pezzo di storia dell'immaginario collettivo italiano. Nel frattempo io vi saluto e vi do appuntamento alla recensione di Halloween! A presto!


Dati tecnici


Regia: E.B. Clucher

Anno: 1970

Paese di produzione: Italia

Casa di produzione: Delta

Fotografia: Aldo Giordani

Musiche: Franco Micalizzi

domenica 19 settembre 2021

SUCKER PUNCH, DI ZACK SNYDER


Amici e amiche, rieccomi! Scusate il mese e mezzo di assenza, ma del resto l'estate c'è stata per tutti. Per ricominciare alla grande, per la prima volta eccovi una recensione... negativa! Non perdiamo dunque altro tempo e buttiamoci a capofitto. 

Ecco una cosa che dovreste sapere di me: non amo i videogiochi. Per cui una costante fin dalla mia infanzia è sempre stata guardare gli altri giocare, qualsiasi gioco o console fosse, spesso a malapena interessato a quello che vedevo. Ecco, la sensazione che ho avuto guardando Sucker Punch è stata esattamente questa: guardare un videogioco di un'ora e 50, con tanto di cinematic lunghissime che non potevo skippare. 

Progetto personale sviluppato da Zack Snyder nell'arco di 8 anni e finalmente portato a compimento dopo il successo (più che altro di pubblico) di film come 300 e Watchmen, il film esce nel 2011, spaccando a metà pubblico e critica. Chi lo ama ne elogia l'estetica videoludica e la struttura “a livelli”, considerandoli i suoi punti di forza nel coinvolgere lo spettatore nella storia. E a proposito di storia, il film parla di un'adolescente, la non meglio identificata Babydoll, internata dal patrigno in un istituto mentale dopo aver accidentalmente ucciso la sorella nel tentativo di difendersi, in modo che lui possa impossessarsi dell'eredità della di loro madre. La trama del film si dipana su tre livelli: il primo, superficiale, è quello del prologo che ho appena descritto, ambientato nel manicomio; il secondo si sviluppa già nel primo atto, quando iniziano le complesse fantasie illusorie della ragazza, che immagina di trovarsi in un bordello vecchio stile, vedendo lei e le altre internate come ballerine costrette a danzare e a compiacere i clienti per sopravvivere, attendendo l'arrivo di un misterioso “Giocatore” che si presenterà al bordello proprio nel giorno in cui, nella realtà, dovrebbe avvenire la lobotomia di Babydoll. Già confusi? Beh, non è finita qui, perché ogni volta che Babydoll danza assistiamo a una fantasia all'interno della fantasia, in cui lei immagina la fuga dalla sua prigione come se fossero i vari livelli di un videogame, con elementi tipici come oggetti da ottenere per proseguire, boss sempre più potenti da affrontare e ambientazioni diverse per ogni livello (il Giappone feudale con tanto di colt come armi, una battaglia della Grande Guerra in versione steampunk, un treno in corsa in un ambiente fantascientifico con una bomba da disinnescare a bordo). Ogni azione che la protagonista compie in queste fantasie corrisponde a un'azione che lei e le sue colleghe compiono nel bordello, con il fine ultimo rappresentato dalla fuga di queste questo luogo di prigionia. L'ipercomplessità della trama, che sembra avvicinare Snyder al peggior Nolan (o forse è il contrario?), è il problema principale, ma non l'unico, per cui esporrò i miei dubbi a riguardo alla fine di questa recensione. Per adesso, mi soffermo su quelli che sembrano essere i difetti tipici di un po' tutte le pellicole di questo regista. 

Per cominciare, l'estetica patinata: il nostro Snyder pretende di rendere un'atmosfera cupa e triste virando tutto sul grigio, ma mantenendo la scena costantemente illuminata, al punto che a malapena si nota una differenza tra la realtà dell'istituto mentale e le fantasie della protagonista, che dovrebbero essere delle felici oasi di speranza ma che risultano opprimenti tanto e più della realtà. Per non parlare della sovrabbondanza che domina ogni altro aspetto della pellicola: effetti realizzati con una computergrafica invasiva, dettagli e piani sequenza che sembrano più volti all'autocelebrazione che a veri fini stilistici, voce fuori campo che sciorina monologhi profondi quanto un Bacio Perugina... e poi le musiche. Per un amante della musica come me, un film con una soundtrack costituita, tra gli altri, da Bjork, Jefferson Airplane, Queen e Beatles, sembrava una manna dal cielo. Peccato che sia usata nel modo più sbagliato possibile. Canzoni grandiose, che però non solo non hanno un vero significato nel contesto delle scene in cui vengono inserite, tanto che potrebbero essere sostituite da qualsiasi altro brano dalle sonorità simili, ma che per di più sono delle piatte rivisitazioni remixate e ricantate, private della loro intensità a favore di un esasperato tentativo di drammaticità. 

Zack Snyder: incompreso o sopravvalutato?
E a proposito di drammaticità, passiamo a quello che considero il maggior punto debole del film: la sceneggiatura non ha alcun senso. Qui entrerò nel reame degli spoiler, per cui se siete interessati a visionare il film vi consiglio di passare avanti. Dunque: se gli scenari videoludici affrontati dalle protagoniste sono già di per sé una metafora del loro scappare dal manicomio, a cosa diavolo serve quella fantasia intermedia del bordello? Perché vi ricordo che Babydoll immagina di essere in un bordello, dove immagina a sua volta di trovarsi in un videogioco... Perché??? Quale grande messaggio voleva consegnare Snyder che necessitasse non di due, ma ben tre livelli narrativi? A proposito di questo, è bene analizzare questo aspetto: il regista ha dichiarato che l'intento di questo film sarebbe di criticare la visione maschilista e oggettivante della donna che molti hanno, specialmente negli ambienti nerd. Sorvolando su questa concezione piuttosto generalista e superficiale della cultura nerd, personalmente l'ambientare gran parte della storia in un bordello burlesque (ripeto, senza un vero motivo) popolato da ragazze bellissime che nella restante parte del film combattono con pose da sexy cosplayer mi fa pensare che la critica al patriarcato sia più una scusa che altro. Del resto non ho mai visto un manicomio anni '30 con delle internate così esteticamente perfette: Emily Browning, Jena Malone, Abbie Cornish, Vanessa Hudgens... Persino il personale è composto da gente di bell'aspetto: Oscar Isaacs, John Hamm, Carla Gugino, le persone brutte si contano letteralmente sulle dita di una mano. 

Senza entrare ulteriormente nei dettagli, Sucker Punch è un'opera pretenziosa, noiosa e kitsch, maldestra nel suo messaggio e fallimentare nell'intrattenere, con un finale forzato che rende ancora più inutile tutto quello a cui lo spettatore ha assistito fino ad allora. Questo è stato il magnum opus di Zack Snyder e il suo tentativo di essere profondo, un passo più lungo della gamba che è inevitabilmente finito nell'unico posto in cui meriterebbe di stare, il dimenticatoio.

Dati tecnici


Regia: Zack Snyder

Anno: 2011

Paese di produzione: Stati Uniti d'America

Casa di produzione: Warner Bros.

Fotografia: Larry Fong

Musiche originali: Tyler Bates, Marius De Vries

sabato 31 luglio 2021

20 ANNI DI SHREK - IL BELLO DI ESSERE SCORRETTI

“L'animazione è roba per bambini”. Tutti abbiamo sentito questa frase almeno una volta. Ed ogni volta mi chiedo come sia possibile che questo preconcetto così superficiale continui a permanere nella mente di così tante persone. L'animazione è stata utilizzata in modo “adulto” fin dall'inizio, che si tratti degli animatori sperimentali dei primi del '900 come Fishinger o Léger o dell'irriverenza di gente come Tex Avery, che fin dagli anni '30 hanno spinto la comicità a cartoni animati al limite della censura. Ma è solo negli anni '90 che l'animazione prettamente adulta riesce finalmente a imporsi sul pubblico, e per la precisione questo avviene in TV: grazie all'imprevisto successo dei Simpson (tra le serie più importanti della storia della televisione, per vari motivi) l'America ha visto nascere una vera e propria ondata di materiale animato orientato a un pubblico adulto, con serie come South Park, I Griffin, Beavis & Butthead e tantissime altre che sarebbe impossibile citare nella loro totalità e che hanno spinto ed esplorato le possibilità del mezzo animazione.

E al cinema? Beh, gli anni '90 furono il periodo del cosiddetto Rinascimento Disney, in cui l'azienda del Topo era tornata a dominare il mercato mondiale del cinema d'animazione dopo un periodo poco fiorente. Ma non tutto fu rose e fiori. La travagliata produzione del più grande successo del periodo, Il re leone, aveva causato uno scisma nella compagnia, con il responsabile del reparto animazione, l'ambizioso e irremovibile Jeffrey Katzenberg, che lasciò la Disney con risentimento e piani di vendetta verso coloro che, secondo lui, non gli avevano riconosciuto i meriti che aveva. Fu così che nel 1997 nacque la DreamWorks, fondata da Katzenberg, Steven Spielberg (scusate se è poco) e il magnate dell'industria discografica David Geffen: l'azienda fece della maturità il suo tratto distintivo, come a volersi distanziare dall'aura fiabesca e “innocente” delle pellicole targate Disney. Dopo aver messo a segno un pugno di perle che si misero senza problemi in competizione con le coeve uscite disneyane (addirittura il loro primo film, Z la formica, era un rifacimento della stessa identica premessa di A Bug's Life ed uscì nello stesso identico giorno!), nel 2001 i tempi furono maturi per la sferzata definitiva di Katzenberg e soci allo strapotere della casa del Topo.

Shrek, diretto da Andrew Adamson e Vicky Jenson, è molto più di un film. Rappresenta un grosso passo avanti nella concezione di certi topòi narrativi, di certi archetipi e di certe dinamiche tipici della concezione disneyana che raramente erano stati messi in discussione. Ma la cosa che rende Shrek così importante è che fa tutto in modo metanarrativo: lo spettatore sa perfettamente cosa il film sta parodiando, capisce senza margine di dubbio cosa la sua satira prende di mira, poiché questa gioca sapientemente su elementi a cui è stato esposto fin dall'infanzia e che quindi conosce molto bene. Del resto, chi può saperlo meglio di qualcuno che è stato capo dell'azienda che per decenni è stato il veicolo principale di tutti questi elementi?

E così, abbiamo tutte le caratteristiche della fiaba, ma ribaltate e ridicolizzate: l'eroe senza macchia e senza paura cede il posto a un antieroe che in qualsiasi altra fiaba sarebbe stato l'antagonista, un orco rozzo, egoista e scontroso; l'aiutante dell'eroe è un asino parlante che più che supportare il protagonista lo manda sui nervi con la sua logorrea; la principessa da salvare è una donna che cerca di conformarsi agli stereotipi di genere, aspettando passivamente che qualcuno la salvi nonostante, a giudicare dalle sue abilità fisiche e intellettuali, potrebbe benissimo salvarsi da sola (di certo avrebbe fatto meglio del nostro protagonista nell'esilarante scena contro il drago); e infine la ciliegina sulla torta, il principe.

Katzenberg, Spielberg e Geffen, fondatori della DreamWorks

Lord Farquaad è tutto meno che un personaggio positivo. È un subdolo, meschino approfittatore che manipola la vita delle persone esclusivamente per il potere. Sfratta i personaggi delle fiabe per impossessarsi della loro terra, ricatta Shrek convincendolo fare il lavoro faticoso per lui, cioè affrontare il drago e salvare la principessa Fiona, costringe quest'ultima a sposarlo nonostante non gli importi di lei, tutto per ottenere l'agognato potere e compensare la sua insicurezza di fondo dovuta probabilmente qualche mancanza di tipo fisico (la battuta a riguardo fatta da Shrek potrebbe riferirsi all'altezza... o a qualcos'altro). E se aggiungiamo che questo personaggio, nelle fattezze, ricorda sospettosamente Michael Eisner, CEO della Disney all'epoca, e che la sua pomposa residenza è una palese presa in giro di Disneyland, la cosa assume implicazioni ancora più sfacciate e, diciamolo, esilaranti. Shrek è prima di tutto, non dimentichiamolo, un film comico. Non una semplice parodia, come abbiamo detto, ma un'opera che abbraccia appieno quello che è pur continuando a metterlo costantemente alla berlina, un po' sulla scia di un altro cult, La storia fantastica, diretto da Rob Reiner nel 1987 e qui da noi non molto conosciuto. Ogni personaggio è una maschera comica efficacissima, da cui nascono momenti memorabili che non si fermano a flatulenze ed emissioni corporee (che sono presenti, il protagonista è pur sempre un orco), ma, in un continuo gioco con lo spettatore, esplorano le interazioni fra questi personaggi così fuori le righe, ma allo stesso tempo così amabili.

Perché, dopo tutto, Shrek è pur sempre una fiaba, post-moderna e multireferenziale, ma pur sempre una fiaba. La relazione fra Shrek e Fiona, in particolare nella sua risoluzione finale, è costruita perfettamente, ribaltando ma allo stesso tempo confermando la morale un po' più scontata di esempi come La bella e la bestia. L'antagonista è a dir poco memorabile, e la sua sconfitta forse ancora più soddisfacente rispetto a quella del classico villain fiabesco proprio perché trattata con quella dose di cattiveria che pervade e dà identità all'intera pellicola. La spalla comica, Ciuchino, funziona nella sua idiozia e petulanza perché è totalmente fuori luogo e di ben poco aiuto, per non parlare poi dei tantissimi personaggi secondari, da Pinocchio ai tre topini ciechi, dall'omino di zenzero (protagonista di una delle gag più nonsense e proprio per questo più divertenti del film) allo specchio magico, mutuato direttamente da Biancaneve. Non starò a citare tutti i momenti memorabili e tutte le citazioni presenti, mi limiterò a dire che avranno ancora più spazio nel sequel, uscito tre anni dopo e che a mio parere supera addirittura l'originale.

Il cattivo Lord Farquaad a confronto con
 lo storico presidente della Disney Michael Eisner
E non finisce qui, perché Shrek è stato influente non solo narrativamente e umoristicamente, ma ha anche cementato una pratica già esistente da tempo ma non ancora sfruttata a questi livelli: il fattore starpower. La produzione ha furbescamente puntato la stragrande maggioranza della campagna marketing sulla presenza di numerose star di Hollywood che hanno prestato la loro voce ai personaggi: da Mike Myers per Shrek, all'epoca popolarissimo per la sua saga di Austin Powers, a Cameron Diaz per Fiona, dall'incontenibile Eddie Murphy per Ciuchino a un grandissimo interprete cme John Lithgow per Lord Farquaad, e perché non inserire un veloce cameo di Vincent Cassel nel ruolo di un improbabile Robin Hood francofono? Insomma, questa pratica di infarcire i film d'animazione di nomi noti per attirare il pubblico si è diffusa a macchia d'olio proprio a partire da Shrek, a volte con risultati notevoli, molte altre come mero mezzo di autopromozione (I'm looking at you, Illumination).

Nel caso non si fosse capito, Shrek è stato un fulmine a ciel sereno nel mondo del cinema occidentale, in un periodo, quello dei primi anni 2000, in cui la stessa Disney attraversava una crisi di identità e lo scettro dell'animazione mondiale poteva essere di nuovo conteso. Certo, si potrebbe scrivere un saggio di centinaia di pagine sull'impatto di questo film, avrei potuto parlare dell'enorme lavoro svolto a livello di animazione (stiamo parlando del resto di uno dei primi lungometraggi interamente in grafica 3D), o di come gli avvocati della DreamWorks seguirono pedissequamente la produzione per evitare potenziali denunce da parte della Dismey, o ancora dell'utilizzo geniale delle musiche, in particolare le canzoni, ma ho voluto evitare di dilungarmi troppo.

L'orcone verde non solo ha modificato la concezione del pubblico di cartone animato, non solo ha influenzato le dinamiche stesse dell'intrattenimento al cinema, non solo è stato significativamente il primo vincitore dell'Oscar al miglior film d'animazione, ma ha avuto il merito di dimostrare a tutti, adulti e non, che andava ancora bene credere alle fiabe.


Shrek è amore, Shrek è vita.


Dati tecnici

Regia: Andrew Adamson, Vicky Jenson

Anno: 2001

Paese di produzione: Stati Uniti d'America

Casa di produzione: DreamWorks Animation Studios

Musiche: Harry Gregson-Williams, John Powell