Non è certo l'unica con cui io
abbia un legame emotivo molto forte (e ben più di una volta serie come
Scrubs e, che ci
crediate o no, South Park si
sono avvicinate pericolosamente a quei livelli), e negli ultimi anni
il genere sit-com (o, più generalmente, sarebbe il caso di dire
comedy, termine più
vago che fa al caso nostro in un periodo in cui le caratteristiche
tipiche della sit-com sembrano quasi estinte) ha conosciuto una vera
e propria rinascita, con prodotti diventati istantaneamente di culto
come After Life,
farina del sacco di un genio come Ricky Gervais, e l'italianissima
Strappare lungo i bordi,
creata dal fumettista Zerocalcare. Tutte commedie che hanno saputo
insegnarci a ridere di quella beffarda barzelletta che è la vita,
fra lacrime agrodolci e risate a denti stretti.
Se,
personalmente, dovessi fare il nome di una comedy
degli ultimi anni che è stata in grado di regalarmi tutte queste
sensazioni, la mia scelta cadrebbe senz'altro su Ted Lasso.
Originale Apple TV+ andato in onda a partire dall'agosto 2020, ha
fatto immediatamente parlare di sé diventando la prima stagione più
nominata della storia degli Emmy Award, premi di cui ha fatto incetta
nel corso di questi tre anni (e dubito sia finita qui). All'epoca ero
curioso e, sarò sincero, quasi stupito di tutto questo successo, e
il motivo sta nella sua premessa: il personaggio che dà il nome alla
serie, un ex allenatore di football americano sull'orlo della
separazione che decide di reinventarsi nel calcio, allenando una
squadra minore di Premier League, era stato creato come semplice
testimonial per i promo calcistici di NBC Sports.
Avete capito bene:
Ted Lasso è tratta da
una serie di spot televisivi.
Non è la prima volta che si prende
dalla pubblicità per creare qualcosa di maggior respiro, e i
risultati hanno sempre oscillato tra il mediocre (Space
Jam, film tratto dagli spot
delle scarpe da ginnastica Air Jordan) e il pessimo (Cavemen,
sit-com ABC nata da una serie di spot dell'agenzia di assicurazioni
GEICO).
Eppure, Ted Lasso ha
conquistato non solo la critica, ma anche, inaspettatamente, una
grossa fetta di pubblico. E adesso, a pochi giorni dal suo finale,
capisco finalmente il perché.
Se, come me, siete navigati di sit-com, o anche solo se siete cresciuti negli anni 2000, questo nome non dovrebbe affatto suonarvi nuovo. Già sceneggiatore freelance per prodotti irremovibili nell'immaginario collettivo anni '90 come Friends (vi ricordate l'episodio di San Valentino della prima stagione?) e La tata, crea nel 1996 Spin City, serie comica ambientata nell'ufficio del vicesindaco di New York (interpretato da Michael J. Fox nelle prime quattro stagioni), per poi lanciare nel 2001 una (non) sit-com ambientata stavolta in un ospedale e incentrata sul lavoro quotidiano di una strampalata equipe medica.
Sì, stiamo parlando proprio di Scrubs, un pezzo di televisione dallo status a dir poco generazionale in cui per la prima volta Lawrence ricopre anche il ruolo di regista (e attore) per alcune puntate.
Non dovrebbe dunque stupire come Ted Lasso, con quella premessa apparentemente così traballante, sia riuscita, in tre stagioni, a coinvolgere un pubblico così vasto e variegato, dosando abilmente leggerezza e profondità, meditando sui nostri problemi e ridicolizzandoli allo stesso tempo, e di fatto raccogliendo il testimone di Scrubs, lasciato abbandonato dal 2009 (no, la nona stagione non è mai esistita e non potete costringermi a sostenere il contrario).
Prima di tutto, vi esorto a riflettere su un dato non indifferente: questa serie è ambientata nel mondo del calcio, e l'autore di questo articolo la adora nonostante non nutra alcun interesse per questo sport dai tempi in cui collezionava le figurine dei calciatori alle elementari. Il punto di forza di Ted Lasso non sta infatti nella centralità che il calcio assume all'interno delle sue trame, né nell'accuratezza con cui viene rappresentato, ma risiede interamente sulla scrittura genuina e credibile con cui vengono descritti i personaggi che la popolano, a partire dall'omonimo protagonista: il Ted interpretato da Jason Suidekis, sulla carta, dovrebbe risultare un protagonista piatto, noioso, in cui è difficile rivedersi; è estremamente gentile, generoso, umile, in poche parole è un buono in tutto e per tutto. Eppure, è più profondo di molti altri protagonisti televisivi, anche andando a guardare i prodotti drammatici. La sua spontaneità, il suo vedere il buono negli altri ad ogni costo, l'ingenuità e la passione che lo sprona a dare il meglio nel suo lavoro (per cui tra l'altro dovrebbe essere completamente inadatto secondo ogni ragionamento razionale) sono tutti tratti che lo rendono simile al J.D. protagonista di Scrubs, un ottimista e un idealista che non si tira indietro nonostante i brutti colpi che la vita gli ha riservato e non smette di riservargli.
Perché la serie, pur conservando costantemente la sua solarità, non fugge dalla negatività, dai momenti tristi. I motivi che portano Ted a percorrere il cammino incerto in cui si trova, in un Paese straniero e lontano dalla sua famiglia, sono profondamente realistici, e potrebbero suonare familiari a molti di noi. La solitudine, la paura del cambiamento, il dover ripartire da zero, ma anche la fiducia nel prossimo, le seconde possibilità, una famiglia trovata dove meno ci si aspetterebbe, sono alla base dello spirito che anima questa e le altre serie supervisionate da Lawrence.
Il calcio è quasi un mcguffin, una scusa, un punto di partenza come un altro per raccontare, tra il serio e il faceto, quella che al suo cuore è una storia umana; non solo quella di Ted, ma di tutti gli altri personaggi che popolano il ricco ambiente dell'immaginaria AFC Richmond. Quasi tutti, per quanto secondari, hanno una storia da raccontare: dalla neopresidente della squadra Rebecca Welton (la splendida Hannah Waddingham) al campione sul viale del tramonto Roy Kent (Brett Goldstein), da Keeley Jones (Juno Temple), ex modella e PR per la società, al fantastico viceallenatore Beard (Brendan Hunt), probabilmente il mio personaggio preferito della serie, protagonista di alcuni dei momenti più folli e surreali (come l'esilarante episodio Beard After Hours della seconda stagione). A ognuno di essi, compresi i molti che non ho citato (e credetemi, sono davvero tanti e tutti interessanti), ci si affeziona, si vuole bene, ci si sente coinvolti nelle loro battaglie personali, grazie a delle caratterizzazioni tridimensionali che riescono ad evitare che il tutto cada in un facile buonismo.Tutti, in Ted Lasso, sbagliano, compiono atti da condannare, che ci fanno arrabbiare, che ci deludono, e ogni cattiva azione viene ripagata, ma non con una punizione, bensì con una seconda possibilità. I personaggi pagano le conseguenze dei loro sbagli, e le pagano con gli interessi, ma non gli viene mai negata la possibilità della rivalsa. È una serie realistica, ma non pessimista.
Non è un caso che arrivato al finale, andato in onda un paio di settimane fa, abbia ritrovato ad accogliermi QUELLA sensazione. Quello strano sentimento dolce/amaro per il quale sono triste perché qualcosa che mi ha accompagnato per un certo periodo della mia vita giunge al termine, ma allo stesso tempo sono felice perché consapevole che è finita quando doveva finire e come doveva finire, al momento giusto, senza inutili prolungamenti e forzature narrative. La stessa sensazione di quando finisco dopo mesi un libro che ho amato, o di quando una personalità che ammiro artisticamente scompare a una veneranda età dopo una lunga, onorata carriera. La sensazione che sia stato proprio un gran bel viaggio.
Il finale di Ted Lasso mi ha fatto sentire esattamente in questo modo, ed è stato esattamente il tipo di finale che apprezzo di più: lieto sì, ma non completamente; positivo, ma non accomodante; definitivo, ma non del tutto chiuso. Un finale che, con una scelta musicale tanto scontata e prevedibile quanto efficace e per certi versi inevitabile, tira splendidamente le somme della storia, una storia dipanata senza sbavature nell'arco di tre stagioni praticamente perfette, che, grazie all'impostazione ormai standard di 10-12 episodi a stagione con una durata che va dai 30 ai 70 minuti l'uno, non lascia spazio a riempitivi, che un tempo erano la norma per dei prodotti seriali, in particolar modo le sit-com.
Ma non voglio che fraintendiate. Ted Lasso rimane comunque un'ottima serie a tema sportivo, e mai nemmeno per un attimo il calcio passa realmente in secondo piano: le partite ci sono, e vengono mostrate sempre con regie dinamiche e adrenaliniche, al punto che pure un profano come me non può che appassionarsi e sperare nella vittoria del Richmond ad ogni incontro mostrato. Se poi consideriamo che la serie è anche ricca di cameo e citazioni (nella terza stagione, ad esempio, compare un personaggio palesemente ispirato ad un famosissimo calciatore di Serie A), il tutto non può che risultare ancora più appagante per un appassionato.
Insomma, nel caso non fosse chiaro questa è
una serie che va assolutamente recuperata, e che vale al 100%
l'abbonamento al servizio streaming di Apple, i cui contenuti
comprendono per ora esclusivamente prodotti originali e di cui Ted
Lasso rappresenta una delle punte di diamante. E a proposito,
ancora permeato da quel senso di positiva speranza nei confronti del
futuro che ha caratterizzato il finale di serie, mi auguro che la
nuova Shrinking, sviluppata da Lawrence sempre per AppleTV+,
possa rivelarsi un altro successo, tanto di pubblico quanto artistico.
Del resto, come ci ricorda la parola simbolo dell'intera
serie, l'importante è “crederci”.
Prima di lasciarvi, vorrei stilare una breve lista degli episodi che più mi sono rimasti dentro della serie, le perle che la rendono degna di essere vista:
Carol of the Bells, 2x04: come ogni serie comedy che si rispetti, anche Ted Lasso ha il suo speciale natalizio, forse il momento in cui il tema della “famiglia ritrovata” è più sentito. Alla fine di questo episodio ci si sente più buoni e si crede di più nella bontà di fondo dell'essere umano, come ogni storia di Natale dovrebbe portare a fare;
Beard After Hours, 2x09: già citato, ha come protagonista assoluto il coach Beard, in un'esperienza nottambula per le strade di Manchester tra l'onirico e il surreale. Tra gli episodi più divertenti, minimalista e inaspettato;
No Weddings and a Funeral, 2x10: sì, a mio parere la seconda stagione è molto probabilmente la migliore delle tre, e questo episodio particolarmente emotivo ne è la dimostrazione. Come si evince dal titolo, si parla di un funerale, ed è uno straordinario esempio dell'abilità degli autori di bilanciare leggerezza e intensità, oltre che di utilizzare in maniera molto efficace la colonna sonora. Se non avrete gli occhi lucidi una volta arrivati alla fine, probabilmente non siete umani;
Sunflowers, 3x06: la squadra si trova ad Amsterdam per un amichevole con l'Ajax, e la capitale olandese si trasforma nel perfetto palcoscenico per le vicissitudini, interne ed esterne, dei protagonisti, in particolare per Rebecca, che avrà uno degli incontri più emotivi e significatvi del suo arco narrativo. In più, contiene la scena dell'epifania di Ted sul calcio totale, geniale dal punto di vista della messa in scena;
So Long, Farewell, 3x12: concludo giustamente con il finale della serie, emotivamente appagante ma non banale, in cui tutte le sottotrame aperte fino ad allora trovano la loro giusta conclusione, come dovrebbe sempre essere per ogni finale, ma purtroppo non sempre è. Aperto eppure soddisfacente, praticamente perfetto.