domenica 29 gennaio 2023

I MIGLIORI FILM DEL 2022


Amici e amiche, buon anno! È con grande piacere che anche questo gennaio vi presento l'immancabile resoconto dei migliori film (secondo me) dell'anno appena trascorso, come si confà a ogni pagina o blog di cinema che si rispetti. E anche se non raggiungerò il livello di attenzione che sicuramente avrà il tradizionale Meglio e Peggio del buon Frusciante o l'autorevolezza dell'annuale lista di Cahièrs du Cinéma, spero che mi farete sapere con i vostri commenti se siete d'accordo o se mi volete morto per aver escluso alcuni film che vi piacciono o averne incluso altri che reputate non meritevoli.
A questo proposito, anche stavolta è d'uopo fare alcune premesse: quest'anno, rispetto al 2021, ho potuto frequentare i cinema con una frequenza molto inferiore, quindi mi sono perso alcuni grossi titoli che sono stati osannati dalla critica e che probabilmente troverete in tutte le altre classifiche annuali, ma non qui. Per cui, se notate grandi assenti è perché, semplicemente, non ho avuto ancora modo di vederli. Detto questo, alcuni film che invece ho inserito in questa lista (che, vi ricordo, è stata redatta in ordine rigorosamente sparso) sono usciti originariamente nell'anno solare 2021, ma ho deciso comunque di introdurli perché arrivati Italia solo a 2022 inoltrato.

Fatti i preamboli, cominciamo! Questi sono i film migliori del 2022 secondo il sottoscritto.


Licorice Pizza, di Paul Thomas Anderson


Iniziamo alla grande, con il ritorno di uno dei miei autori preferiti, che a quattro anni di distanza dallo splendido Il filo nascosto, tira fuori a mio parere uno dei cinque migliori film della sua carriera. Uscito a novembre 2021, giusto in tempo per la stagione delle premiazioni (portandosi a casa ben poco), è arrivato in Italia a marzo, con una distribuzione a dir poco criminale che purtroppo non mi ha permesso di godermelo in sala.

Polemiche a parte, Licorice Pizza è forse il film che riassume meglio la poetica ormai quasi trentennale di un autore come Anderson. Gli anni'70, un amore non convezionale, le passioni giovanili: tutto si incastra magnificamente in un'opera nostalgica, ottimista, ma filtrata attraverso il velo intimista e malinconico di un cinquantenne che rappresenta un'altra epoca, quella della sua giovinezza, con candore e apparente semplicità. Lo stesso titolo del film, quelle due parole che a noi appaiono enigmatiche, rimandano in realtà ai vecchi negozi di dischi (le “pizze di liquirizia” sono i vinili), quanto di più lontano, anacronistico e romantico per il mondo digitale e, oserei dire, freddo in cui ci troviamo a vivere.

Una cornucopia di carrellate e steadycam testimoniano la tecnica ormai superlativa raggiunta dal regista losangelino, i cui tratti distintivi riscontrabili già nelle sue prime opere (Boogie Nights e Magnolia in particolare) sono portati ormai alla perfezione stilistica. E il tutto, come sempre nella filmografia di PTA, rigorosamente al servizio delle atmosfere, delle emozioni e del delineamento degli splendidi caratteri, maggiori e minori, che popolano il microcosmo altmaniano che circonda il giovane Gary e la sua amata Alana, portati in scena splendidamente anche grazie a degli straordinari interpreti, Cooper Hoffman e Alana Haim, entrambi esordienti, figlio del compianto Philip Seymour il primo, cantante indie la seconda.
In una cornice anni '70 decantata ma mai glorificata i due protagonisti affrontano la loro burrascosa relazione (sempre se tale si può defnire) fra materassi ad acqua,
pinball machine e succulenti riferimenti tanto musicali quanto cinematografici: gli echi di capolavori come American Graffitti e Taxi Driver sono a tratti sottili, a tratti espliciti, e il modo magnifico in cui Life on Mars? di David Bowie è inserita all'interno della narrazione non me la farà ascoltare mai più allo stesso modo.

Insomma, Paultommasone si riconferma tra i più grandi autori americani in circolazione, e la sua ultima fatica non può che stagliarsi fra le migliori uscite cinematografiche dell'anno.
Da vedere e rivedere per coglierne tutte le sfumature.


Apollo 10 e mezzo, di Richard Linklater


Se guardiamo al fronte animazione dal punto di vista delle grandi major, il 2022 è stato un anno piuttosto deludente. La Pixar ha tirato fuori due film molto diversi come Red e Lightyear (discreto e abbastanza creativo il primo, dimenticabile e forzato il secondo), che non hanno raggiunto la bellezza dei precedenti Soul e Luca, mentre la Disney ha dato alla luce il suo sessantunesimo classico Strange World, che non ho ancora visto. Chissà, magari ne parleremo in occasione della lista dell'anno prossimo... ma ho i miei dubbi. Non ho potuto (leggasi “voluto”) visionare nemmeno l'ultima fatica di casa DreamWorks, niente po' po' di meno di un sequel del Gatto con gli stivali... sarò lieto di sbagliarmi, ma non credo di essermi perso granché. Infine, avrei voluto tanto parlare in questa sede di Belle di Mamoru Hosoda, ma ahimè, ovviamente, me lo sono perso in sala.

Tuttavia, se guardiamo oltre i soliti studi blasonati, la palma d'oro di mio film d'animazione preferito dell'anno (almeno per ora) spetta sicuramente a Apollo 10 e mezzo, con cui il grande Richard Linklater torna a utilizzare il rotoscopio dopo i suoi felicissimi esperimenti con Waking Life e A Scanner Darkly. Raccontando una storia ancora più autobiografica del solito, il regista texano riesce nel compito non semplice di farci provare nostalgia per un'epoca che io e quelli della mia generazione non abbiamo mai vissuto: gli anni '60, la corsa allo spazio nell'America post Kennedy e i climi competitivi da Guerra Fredda. Anni estremamente contraddittori per la società statunitense, che Linklater, pur descrivendo con l'affetto e la sincerità naif tipica dei ricordi d'infanzia, rappresenta con grande autenticità, pur attraverso lo sguardo innocente del se stesso bambino. L'io narrante, con la voce affidata ad un Jack Black sorprendentemente adatto al ruolo, si concentra poco sull'effettiva storia e molto di più sulla sua cornice, indugiando sulla descrizione delle abitudini, delle sensazioni, delle piccole cose che hanno costruito l'infanzia del protagonista (e dell'autore stesso).

Apollo 10 e mezzo è forse il film più intimo di uno dei cineasti più interessanti e influenti del cinema americano post-anni '80, ulteriore conferma che qualsiasi sua produzione merita sempre di essere tenuta d'occhio.


Crimes of the Future, di David Cronenberg


Lo so, altra scelta scontata, ma che posso farci? Stiamo parlando del ritorno sul grande schermo del maestro David Cronenberg dopo otto anni di assenza, e non so dirvi l'emozione che ho provato nel poterlo vedere al cinema, soprattutto considerando la distribuzione estremamente scarsa che ha avuto nel circuito delle sale. Un vero evento, insomma.

Quasi un decennio dopo il meraviglioso Maps to the Stars, il re indiscusso del body horror è tornato sui suoi passi, regalandoci una perla rara reminescente dei suoi primi lavori (il titolo, non a caso, è lo stesso di una delle sue prime pellicole, della quale però non costituisce un remake). Descrivere un'opera come Crimes of the Future non è un'impresa facile, com'è non fè facile rendere a parole la maggior parte della filmografia cronenberghiana. Forse il modo migliore per parlarne senza rivelare troppo e rovinare l'esperienza è proprio in relazione ai lavori che l'hanno preceduta.

Cronenberg torna al cinema quest'anno nel modo migliore, cioè riportando la sua attenzione allo stravolgimento del corpo, più dichiarazione filosofico-sociale che mero mezzo per disgustare e inquietare. I tempi sono dilatati, l'azione è ridotta al minimo, e a trasmettere le vibrazioni care all'autore canadese sono, naturalmente, la straordinaria costruzione delle immagini, dove regia e scenografia si compenetrano e si fanno l'una completamento dell'altra, e le musiche, ennesimo felice risultato della collaborazione tra il maestro e il grande compositore Howard Shore, presenza salda fin dai tempi del magnifico The Brood.
Le grandiose interpretazioni di Viggo Mortensen e Léa Seydoux fanno il resto, e persino un'attrice come Kristen Stewart, che ho sempre trovato insopportabile persino in
Café Society di Woody Allen, riesce a fare un buon lavoro.

L'ennesima disquizione, morbosa quanto affascinante, sul corpo umano, sull'evoluzione, sul rapporto tra tecnologia e organismo, sul fare del proprio corpo (tannto all'esterno quanto all'interno) una vera e propria forma d'arte: in altre parole, il grande cinema di David Cronenberg, che anche solo sulla fiducia si guadagna un posto in questa umile lista.
Non siamo degni.


The Batman, di Matt Reeves


Diciamo la verità, se l'anno scorso il film evento è stato sicuramente il Dune di Denis Villeneuve, l'unico blockbuster che quest'anno gli ha tenuto testa (e l'aveva già fatto a livello di attesa) è Avatar 2, che ha segnato il ritorno dietro la macchina presa di un altro gigante della fantascienza, James Cameron. E ho la sensazione che torneremo a parlarne in questi lidi, chissà, magari nella classifica dell'anno prossimo...
Ma se devo scegliere un solo
blockbuster di puro intrattenimento che si è stagliato al di sopra della solita brodaglia supereroistica che ogni anno infesta le nostre sale (e, mi dispiace dirlo, Sam Raimi non è riuscito a fare molto meglio col suo Doctor Strange) è sicuramente The Batman.

Parliamoci chiaro, la nuova (leggasi “ennesima”) reincarnazione dell'eroe DC non è affatto esente da difetti, ma delle evidenti facilonerie di sceneggiatura non intaccano troppo quello che è chiaramente un ottimo film d'intrattenimento, che Matt Reeves, reduce dagli ultimi due capitoli della nuova saga del Pianeta delle scimmie, confeziona sapientemente riuscendo a gestire benissimo quello che a conti fatti è un vero e proprio neo-noir. Avevamo già avuto ben due noir con Batman grazie a quell'uomo meraviglioso che è Tim Burton, ma qui ogni venatura ironica, ogni aspetto vagamente positivo viene eliminato, a favore di una detective story ben congegnata e un'atmosfera mutuata direttamente da esempi come Ridley Scott (la pioggia perenne non può non far pensare a Blade Runner) e David Fincher (l'ispirazione a Zodiac è evidente, come in parte quella a Seven, che a sua volta riprendeva a piene mani le atmosfere piovigginose del capolavoro di Ridley Scott).

In una Gotham City talmente dannata che in confronto quella dei film di Nolan sembra Topolinia, assistiamo alla parabola di un Bruce Wayne al limite della sua violenza ed autocommiserazione, interpretato in modo molto convincente da un Robert Pattinson che gioca di sottrazione, centrando appieno quello che è il personaggio. Perché, e questo è forse il pregio più grande, non è da sottovalutare come questa sia forse l'incarnazione che cattura più fedelmente lo spirito del fumetto. Innanzitutto, i personaggi comprimari sono quasi sempre azzeccati, in particolare un ottimo Paul Dano Enigmista, la cui ispirazione sembra più legata al ciclo di Hush di Jeph Loeb e Jim Lee, e una Zoe Kravitz Catwoman palesemente tirata fuori dalla milleriana Anno 1; la presenza della mafia a Gotham, incarnata dal personaggio interpretato dal grande John Turturro, è opprimente come dovrebbe essere e soprattutto, finalmente, l'aspetto investigativo è al centro della storia, come è sempre stato nel fumetto fin dalla sua genesi, non a caso sulla testata Detective Comics. Uniamo il tutto a una regia notevole, specie nelle scene d'azione, delle ottime musiche di Michael Giacchino e una fotografia cupa senza bisogno di desaturare tutto modello Snyder, e otteniamo quello che è sicuramente uno dei migliori film di Batman mai realizzati, che personalmente colloco per gradimento personale al di sopra dell'intera trilogia di Nolan e al di sotto delle due splendide opere burtoniane.

The Batman è stato ovviamente un grande successo, diventando il quinto maggior incasso dell'anno, e non stupisce che sequel e spin-off vari siano già in cantiere. Facciamoci il segno della croce e speriamo che il buon Matt Reeves riesca a tenere su la baracca, fragile come per quasi tutti i franchise al giorno d'oggi.


Il mostro dei mari, di Chris Williams


È vero, pochi paragrafi fa ho definito deludente l'animazione di largo consumo di quest'anno, ma sono lieto di annunciarvi che c'è un'eccezione eclatante: Il mostro dei mari è una deliziosa, divertentisima avventura piratesca, gestita nei minimi particolari da Chris Williams, tra gli artefici di molti classici Disney moderni come Big Hero 6, ma la casa del Topo non ha niente a che vedere con uno dei migliori prodotti animati dell'anno, relegato purtroppo allo streaming. Si tratta infatti di una co-produzione Netflix Animation/Sony, nonché a mani basse la miglior regia di Williams, che dimostra una perizia tecnica invidiabile in ogni inquadratura. L'ottimo lato tecnico sostiene alla perfezione una sceneggiatura rivolta a bambini e ragazzi, ma tutt'altro che banale, che dosa sapientemente leggerezza e addirittura stimoli politici semplici ma manifesti, in modo naturale e totalmente coerenti con la storia narrata. Un'opera di alto intrattenimento, con un sapore che la accomuna alle opere di Stevenson, di Salgari, o di Melville, sicuramente ispiratrici di questo ottimo soggetto marinaresco adatto a tutta la famiglia. Veramente divertente!


C'mon C'mon, di Mike Mills


Per quanto riguarda il campo del cinema (semi)indipendente, ci tenevo a includere in questa lista un altro film uscito nel 2021, precisamente a novembre, ma arrivato in Italia solo ad aprile.

C'mon C'mon è un dramma introspettivo diretto da Mike Mills e prodotto da quella fabbrica delle meraviglie che è la A24, che segue un reporter radiofonico in giro per gli Stati Uniti che si ritrova a badare al nipote di 9 anni. L'esile trama non è che un pretesto per una riflessione sulla vita, sul percorso finora compiuto tanto dal protagonista (un vulnerabile, fantastico Joaquin Phoenix agli antipodi rispetto alla sua istrionica interpretazione di Joker), quanto dall'umanità intera; il quarantenne Johnny, reduce da una relazione fallita e la morte della madre, intervista ragazzi da varie città americane dando loro la parola sul futuro e sulle loro speranze, il tutto mentre il piccolo Jesse, il figlio di sua sorella Viv, affronta i suoi problemi familiari legati principalmente ai problemi mentali del padre. Il film è quanto di più lontano dal classico drammone progettato più che altro per attirare premi, è un profondo dibattito con lo spettatore, veicolato attraverso una piccola, normale esperienza familiare che mette al centro le emozioni, infantili e adulte, ma che sembrano tutte al 100% reali.
La sceneggiatura di Mills gioca sul non detto, la fotografia si avvale del bianco e nero, la recitazione è sorretta dagli sguardi. I dialoghi sono semplici ed estremamente naturali, anche perché tutte le interviste che vediamo sono assolutamente autentiche, sono le vere sensazioni e i veri pensieri dei giovani americani immortalate in un'opera che sembra parlare di e per tutti noi.

Mike Mills e la A24 ci regalano una fotografia su piccola scala dei nostri tempi, attraverso un cast di personaggi ridotto all'osso, location urbane affatto artificiose e musiche minimaliste. Decisamente tra i migliori film dell'anno.


The Northman, di Robert Eggers


Robert Eggers è sulla bocca di tutti gli amanti della settima arte fin dal suo esordio con The Witch nel 2015, e i suoi lavori successivi, The Lighthouse e The Northman, hanno solo rafforzato il suo prestigio. E non è difficile capire il perché.

Con The Northman l'autore prosegue la sua poetica all'insegna del simbolismo, andando questa volta a sviscerare le radici del racconto shakespeariano di Amleto, riportato alle sue ancestrali origini vichinghe. Eggers approfitta della materia di base per creare un'altra opera visionaria e criptica, che pesca a piene mani dalla mitologia norrena per creare un ricchissimo substrato di simboli, riferimenti, allusioni e suggestioni.
Ci vorrebbero chissà quante visioni per poterle cogliere ed elencare tutte, ma ciò che più conta è che anche con questa sua ultima fatica Eggers regala allo spettatore un'esperienza complessa, per certi versi di difficile comprensione, ma appagante e intrattenente.
Della matrice shakespeariana resta solo l'ossatura, il resto è rappresentato come un possente fantasy epico spogliato da qualunque orpello narrativo e messo in scena con una crudezza che riporta agli occhi opere simili come Valhalla Rising, di Nicolas Winding Refn. L'autore si dimostra perfettamente capace di gestire l'epico (del resto, cosa c'è di più epico del ritorno sullo schermo di Bjork, a oltre vent'anni di distanza da Dancer in the Dark?), e la sua regia è magniloquente più che mai, perfettamente al servizio dell'azione quanto della pura estetica, come sempre a livelli vertiginosi. Aggiungiamo poi a quella Bjork altre interpretazioni d'eccezione, come quelle dei feticci Anya Taylor-Joy e Willem Dafoe, e non si può che volare altissimo.

Ogni film di Eggers è una gioia per gli occhi e per la mente, una di quelle cose che non dovreste mai farvi sfuggire se amate veramente il cinema. La sua prossima impresa dovrebbe essere un remake del grande classico Nosferatu (vi ho parlato su questo blog anche della versione di Herzog, lo trovate poco più giù), e personalmente non vedo l'ora di vedere cosa tirerà fuori, posto che se il film su Barbie avesse Eggers alla regia attenderei con ansia pure quello.


America Latina, di Damiano e Fabio D'Innocenzo


È difficile parlare di un film come America Latina, e ancora più difficile spiegare perché sia un gran film. I fratelli D'Innocenzo, dopo l'esordio con La terra dell'abbastanza del 2018 e l'acclamato affresco neo-neorealista Favolacce, vincitore meritatamente dell'Orso d'argento a Berlino per la miglior sceneggiatura, regalano al nostro cinema un thriller psicologico da antologia passato fin troppo inosservato. Presentato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia del 2021, ma distibuito nelle sale il gennaio successivo, è un film introspettivo e claustrofobico, dalla sceneggiatura quasi scarna, che rivela poco e nei momenti giusti. È l'autopsia della mente disturbata e tormentata di un uomo, del suo lento deterioramento a causa di un fatto singolare che arriva a sconvolgere la sua vita apparentemente così tranquilla.
Dire troppo altro su
America Latina significherebbe rischiare di rovinare l'esperienza della sua visione, soprattutto considerando quanto poco se n'è parlato, perlomeno se paragonato al passaparola generato dal suo predecessore. Dunque se riuscite, cari lettori, recuperatelo, perché si tratta di una perla che merita di essere più riconosciuta, tra i migliori film italiani dell'anno.


Nightmare Alley, di Guillermo Del Toro


Nightmare Alley, alias La fiera delle illusioni, è il remake dell'omonimo film del 1947, eppure non si direbbe. Perché in mano al grande Guillermo Del Toro anche una storia già raccontata appare nuova, come hanno dimostrato in passato perle come Il labirinto del fauno e La forma dell'acqua.

In ogni suo film il regista messicano ci immerge in un nuovo mondo, e Nightmare Alley non fa eccezione. Fra scenografie straordinarie e suggestive, fotografia impeccabile e grandi interpretazioni (con un ottimo Bradley Cooper nel ruolo che fu di Tyrone Power), assistiamo a una parabola, l'ascesa e la caduta di un uomo che abbandona l'umiltà in favore della cupidigia. È incredibile a dirsi, per un'opera ambientata nel mondo del circo firmata da un autore che sguazza nel fantastico, ma l'irreale e la giocosità sono stavolta quasi bandite, senza nemmeno un'oncia di speranza lasciata allo spettatore una volta arrivato al finale. E la crudezza, dell'animo ancora più che della vista, è assolutamente necessaria per un film di formazione di questo calibro, di diritto entrato in questa lista dei migliori dell'anno.
Un raro caso di remake riuscito, dunque, che personalmente mi ha fatto venire voglia di recuperare il film originale. E su questo e su Del Toro torneremo tra poco...


The House, di Emma de Swaef, Marc James Roels, Niki Lindroth von Bahr e Paloma Baeza


Guarda caso, anche il secondo film d'animazione di questa lista è un film di nicchia, relegato a Netflix e ben poco discusso. The House è una produzione britannica dei Nexus Studios, composta da tre episodi per altrettanti gruppi di registi, ognuno ambientato nella stessa casa ma in momenti diversi nel tempo. Il commediografo irlandese Enda Walsh, autore di tutti e tre i racconti, tratteggia situazioni d'atmosfera kafkiana, esaltata dalla tecnica d'animazione utilizzata, quella a passo uno, la più adatta ed efficace a questi scopi, come potrà confermare qualsiasi amante delle opere di Svankmajer.

Siamo davanti a quel tipo di opera sui cui significati e implicazioni si potrebbe discutere a lungo, e la complessità e molteplicità dei suoi temi la rende tra le più interessanti dell'anno, oltre che l'ulteriore dimostrazione di come l'animazione non sia altro che uno dei tanti mezzi a disposizione della settima arte per raccontare qualunque cosa un atista desideri.



Nostalgia, di Mario Martone


Torniamo in Italia con un film che ha fatto parlare molto bene del nostro Paese allo scorso Festival di Cannes, pur non vincendo alcun premio. Nostalgia è l'ultimo, disilluso ritratto di Napoli di Mario Martone, che già con l'ottimo Il sindaco del rione Sanità aveva confezionato un noir camorristico memorabile adattando un'opera di Eduardo De Filippo.

Nostalgia condivide l'amarezza di fondo del suo predecessore (oltre che l'ambientazione del rione Sanità), ma lascia da parte qualuque tipo di ironia o ottimismo. La storia di Felice, ex baby criminale tornato al suo quartiere dopo quarant'anni pasati all'estero, è spoglia, asciutta, priva di qualunque orpello, tanto narrativo quanto registico, e l'inesorabile drammaticità del tutto opprime tanto il protagonista quanto lo spettatore dalla prima all'ultima inquadratura.
Pierfrancesco Favino, inutile dirlo, fornisce un'interpretazione degna di un (ennessimo) David di Donatello, e Martone continua a cavalcare il successo sulla scia di Qui rido io, uscito proprio l'anno scorso e anch'esso portato in trionfo dalla critica.
E tanta considerazione, per una volta, è pienamente meritata, visto che stiamo parlando probabilmente del miglior film italiano dell'anno, sicuramente il migliore fra quelli che ho avuto il piacere di contemplare.


Pinocchio, di Guillermo Del Toro


Tra le migliori animazioni dell'anno non poteva mancare Pinocchio di Guillermo Del Toro, ennesima trasposizione del romanzo di Collodi. 

Inutile citare le innumerevoli versioni di questo capolavoro dell'infanzia che abbiamo visto in passato, che variano tra il notevole (il film Disney del 1940) e l'imbarazzante (il remake della Disney del suo stesso classico affidato al povero Robert Zemeckis). Basta solo dire che quest'ultima incarnazione riesce ad avere un'identità tutta sua nonostante l'enorme, ingombrante bagaglio che si porta dietro.
I pregi di questa versione deltoriana sono molti ed evidenti. Innanzitutto quello che più balza all'occhio, l'aspetto tecnico: il film è realizzato con la tecnica della clay motion, l'animazione a passo uno con la plastilina, e il risultato è notevole. Del Toro, alla sua prima esperienza con l'animazione, si affida alla leggendaria Jim Henson Productions, e se questo nome non vi dice nulla sappiate solo che si tratta della compagnia dietro a personaggi come i Muppets e produzioni come Labyrinth e Dark Crystal. Non stupisce, alla luce di ciò, che i modelli, le animazioni e i set siano di un livello altissimo, e contribuiscono a stabilire un tono molto chiaro e personale fin dai primi minuti. 

La sceneggiatura è semplice ma non banale, e si discosta più volte dal soggetto originale di Collodi, stravolgendone forse in parte lo spirito, ma aggiungendo nuove implicazioni: l'aspetto forse più interessante del film è il fatto di essere ambientato nell'Italia del periodo fascista, e ciò serve da spunto per una palese critica nei confronti del regime, a tratti satirica, a tratti drammatica. Una componente politica che sfigura se paragonata a quella simile vista in altre opere dell'autore come Il labirinto del fauno, ma che in un film pensato principalmente per l'infanzia come questo volge adeguatamente al suo scopo educativo. 
L'unica cosa che non mi ha convinto sono le canzoni, scritte, come la colonna sonora in generale, dall'ottimo Alexandre Desplat. Non sono certamente brutte, ma al di là della prima, diegetica e giustificata narrativamente, la loro inclusione suona a mio parere piuttosto forzata. Personalmente ne avrei fatto a meno.

Pinocchio di Guillermo Del Toro è comunque un ottimo prodotto da far vedere a un bambino, non banale, con momenti a tratti profondi e una buona dose di cupezza che non dovrebbe mai mancare in una trasposizione come si deve del racconto di Collodi. Personalmente, continuerò a preferire la versione disneyana del 1940, ma è una semplice questione di gusto personale.


Ennio, di Giuseppe Tornatore


Quest'anno sono riuscito a includere anche un documentario, tra l'altro l'ultima opera di un autore che personalmente non ho mai amato. Ma con Ennio, dedicato al maestro Ennio Morricone a un anno di distanza dalla sua morte, Giuseppe Tornatore realizza uno dei suoi lavori migliori e più complessi, che mi ha regalato una delle esperienze più emozionanti che abbia mai fatto al cinema.

Mentirei se dicessi che ascoltare quasi ogni giorno le colonne sonore del Maestro non ha contribuito alla concezione che ho avuto di questo documentario, ma del resto se c'è una cosa che questo è riuscito a trasmettere con efficacia è proprio quanto le musiche di Morricone abbiano significato non solo per il mondo del cinema e della musica in generale, ma per ognuno di noi. Con mia grande sorpresa, infatti, la sala in cui ho visto questo film era quasi piena. Piena di persone che, come me, hanno vissuto la grandezza di questo genio musicale sulla pelle. Che siate appassionati di cinema o semplici ascoltatori casuali di musica italiana, è impossibile non averci mai avuto a che fare, e questo documentario ha qualcosa per ognuno di voi, oltre a rappresentare un sentito e doveroso tributo, e qui mi sbilancio, al più grande compositore di colonne sonore (e non solo) mai vissuto.
E, da non amante dei film di Tornatore, considero Ennio la mia cosa preferita che abbia mai fatto.


Anna Frank e il diario segreto, di Ari Folman


Avete presente quando a scuola, ogni 27 gennaio, vi trascinavano al cinema a sorbirvi qualche noiosissimo film sulla shoah che sembrava non finire mai? O, peggio ancora, vi costringevano a vederli in classe, dove non avevate nemmeno la possibilità di fare un po' di sano casino scambiando battute col vostro vicino di posto? Ebbene, Anna Frank e il diario segreto non è quel tipo di film.

Ari Folman, animatore israeliano già autore del pluripremiato Valzer con Bashir, affronta per la prima volta il tema del genocidio ebraico, e lo fa senza retorica e senza pretese di crudezza o patetismo: quello che lo spettatore si trova davanti è un film d'animazione dall'estetica fine e alla portata di tutti, meno sperimentale del precedente exploit animato di Folman proprio per ampliarne il raggio d'azione. Il regista coglie perfettamente l'importanza di far interfacciare più gente possibile a un tema come quello dell'olocausto, e lo fa attraverso una storia di cui chiunque abbia frequentato almeno le elementari è perfettamente a conoscenza, quella di Anna Frank.

Folman svolge un ottimo lavoro nel delineare la persona dietro quel nome, descrivendola per quello che era, senza necessità romanzare o mistificare. La carta vincente è quella di farlo attraverso il personaggio di Kitty, l'amica immaginaria a cui Anna questa indirizza il suo diario: Kitty viene umanizzata e diventa un personaggio in tutto e per tutto, mentre quel famoso diario di cui tutti abbiamo sentito parlare, ma che la maggior parte di noi non ha mai letto (me compreso), non è che il punto di partenza per un discorso che più che una lezione di storia è una lezione di vita.
Folman ci sbatte in faccia la tragicità della storia di Anna e della sua famiglia nel modo più efficace possibile, cioè portandola a confronto con le tante storie tristemente moderne vissute da profughi, immigrati, clandestini, e di cui, esattamente come per i campi di concentramento negli anni '40, in pochi sembrano interessarsi o accorgersi. Andiamo avanti con le nostre vite a occhi chiusi e orecchie tappate, non notando, o fingendo di non notare, tutto quello che avviene sotto i nostri occhi, ogni giorno.
Ed ecco che il nome di Anna Frank colpisce finalmente per quello che dovrebbe essere. Non qualcosa di vuoto e puramente nominale, ma come un monito, non tanto contro qualsiasi forma di fascimo in sé (il quale comunque, è il caso di ricordarlo, è in netta ascesa ovunque mentre sto scrivendo), ma contro ogni tipo di ingiustizia, contro ogni azione leggittimata da un governo che calpesta i diritti di esseri umani come lo siamo noi. Come lo era Anna, come lo era la sua famiglia, come lo erano 6 milioni di ebrei sterminati durante la guerra, come lo sono tutte le vittime di crimini razziali, come lo sono tutti coloro che non hanno uno Stato a proteggerli.

Per quanto mi riguarda, Anna Frank e il diario segreto è davvero un film da proiettare nelle scuole, che non annoia, non fa moralismo spiccolo e si impone, inutile dirlo, come un altro dei migliori film dell'anno.


Ultima notte a Soho, di Edgar Wright


Ho voluto chiudere questo breve almanacco del meglio dell'anno con un film che ha fatto una toccata e fuga nelle nostre sale a novembre 2021, ma che la maggior parte del pubblico italiano ha potuto vedere solo mesi dopo, considerando la distribuzione al limite del criminale che ha avuto.

Ed è veramente un peccato che così tanti (me compreso) non abbiano potuto godersi al cinema l'esperienza sensazionale che è Ultima notte a Soho, ennesimo capolavoro di Edgar Wright dopo la trilogia del Cornetto e Baby Driver. Un film in cui il regista inglese raggiunge senza dubbio il suo apice a livello formale, ma anche e soprattutto a livello di sostanza.

Nella storia di una ragazza che si trasferisce dalla Cornovaglia a Londra per perseguire il suo sogno di diventare una stilista, Wright mescola temi, suggestioni e riflessioni in un cocktail micidiale che trasuda da ogni singolo elemento composito del film, dal suo stile registico, ormai tecnicamente sopraffino, alla sceneggiatura, dalla fotografia a, come sempre, le musiche. Le canzoni sono sempre state fondamentali per la poetica del regista, fino a costituire addirittura l'ossatura portante di film come Baby Driver, ma qui assumono un significato che va ben oltre la caratterizzazione a livello superficiale: in un periodo storico in cui la nostalgia sembra avvolgere ogni aspetto della nostra fruizione artistica, il regista ci mette davanti alla realtà delle cose, sbattendoci in faccia l'assurdità della mitizzazione del passato in un mondo in cui la storia si ripete sempre, violenta e brutale.

La protagonista Ellie, interpretata dall'ottima Thomasin McKenzie, sogna gli anni '60 filtrandoli attraverso la sua passione per la musica pop del periodo. Come tutti gli adolescenti che si sentono non accettatti, idealizza un idilliaco passato in cui rifugiarsi, quella stessa sorta di Eden temporale che ancora oggi resiste quando si pensa alla stagione del peace and love, di Woodstock, dei Beatles, del sogno californiano. Ma presto i sogni di Ellie si infrangono di fronte alla realtà, e Wright sembra avvertire anche noi spettatori, descrivendoci la violenza del maschilismo (e non solo) attraverso una vicenda soprannaturale che rimanda alle atmosfere di maestri del passato, da Argento a Polanski, ma che è allo stesso tempo saldamente inserita nel nostro presente, quello del me too, quello della rivalutazione cieca del passato a seconda delle mode del momento, quello che tutti stiamo vivendo quotidianamente.

Stiamo parlando dell'opera in assoluto più politica dell'autore, pervasa da uno spirito iconoclasta che la accomuna in parte al bellissimo Midnight in Paris di Woody Allen, ma senza alcuna apertura alla redenzione, senza alcun lato positivo. Ultima notte a Soho è non solo uno dei migliori film di Edgar Wright (se non il migliore), ma uno delle opere più complesse e rilevanti del 21esimo secolo, qualcosa che verrà quasi certamente ricordata in futuro come un capolavoro.
E credetemi, ci sarebbe ancora tantissimo di cui parlare, specialmente a livello di temi e strati, ma credo che la cosa migliore che possa dire a riguardo è: guardatelo. Guardatelo più e più volte, ammiratelo, studiatelo, osservatelo, perché è davvero un'opera d'arte che non ha niente da invidiare a un Suspiria o a un Repulsione, oltre che il miglior modo per concludere in grande questa mia umile lista.


E adesso voglio sapere le VOSTRE opinioni! Condividete le mie scelte? Quali sono stati per voi i migliori film del 2022? Mi raccomando, inondatemi di commenti e fatemi sapere!
Nel frattempo, vi ringrazio per aver letto e vi do appuntamento al prossimo articolo. W il cinema!

lunedì 9 gennaio 2023

FRESCO DI STREAMING: GLASS ONION - KNIVES OUT, DI RIAN JOHNSON

Buon anno a tutti! Inizio col chiedervi scusa per non aver ancora pubblicato l'articolo con la lista dei migliori film dell'anno, ma ho avuto veramente poco tempo, comunque sappiate che è in lavorazione e conto di farla uscire entro questo mese. In compenso, eccovi una nuova puntata di Fresco di streaming, la rubrica in cui vi parlo di film appena usciti!

Oggi vi parlo del sequel di uno dei miei film preferiti degli ultimi anni, Knives Out (noto qui in Italia col titolo per niente generico e scontato "Cena con delitto"...). Ben lungi dall'essere strettamente collegato al suo illustre predecessore a livello di continuità, Glass Onion si pone semplicemente come un nuovo caso per il detective Benoit Blanc (interpretato da Daniel Craig sempre più in parte), svelando l'intenzione ormai chiara del suo autore, l'eroe di tutti i fan di Star Wars Rian Johnson, di renderlo un personaggio "flessibile" alla Hercule Poirot o Sherlock Holmes, da inserire ogni volta in situazioni diverse. Non a caso, è già in programma almeno un altro film, anche questo in mano a Netflix. Già il precedente Knives Out aveva visto la sala col binocolo, grazie a una distribuzione da denuncia penale, mentre il secondo l'ha saltata completamente, secondo una tendenza malsana che non dà segni di voler scemare. 

Polemiche a parte, questo Glass Onion purtroppo non regge il confronto col precedente.
Il soggetto è divertente e le ambientazioni sono suggestive, ma la sceneggiatura in sé, seppure nemmeno stavolta si limiti a seguire i passi tipici del giallo tradizionale, non è ispirata come quella del film precedente, e sembra a tratti più una scusa per esibire un cast stellare, tra interpreti di serie A e cameo tanto sorprendenti quanto un po' fini a se stessi. La forte critica sociale viene qui meno, lasciando il posto a una satira nei confronti dei ricchi e delle celebrità che sicuramente dà origine a molti momenti divertenti, ma che priva la pellicola di quella rilevanza che caratterizzava fortemente il so predecessore, e che lo rendeva il grande film che era.
Più che criticare, lo scopo di Johnson qui sembra più quello di intrattenere, e va detto che in questo senso il film funziona benissimo, con scene di tensione ben costruite e, come menzionato, una struttura non convezionale, né banale. A soffrirne è forse l'elemento del mistero vero e proprio (la risoluzione del tutto può risultare scontata), ma se c'è un difetto che è impossibile attribuire al film è la noia.
Glass Onion è dunque probabilmente l'opera meno riuscita di Rian Johnson, che reputo comunque tra le firme più interessanti e promettenti del cinema mainstream d'oltreoceano. In altre parole, un'occhiata a questo Glass Onion datela, potrebbe non entusiasmarvi ma quasi sicuramente passerete due ore di divertimento.

Per oggi è tutto!