Amici e amiche, buon anno! È con grande piacere che anche questo gennaio vi presento l'immancabile resoconto dei migliori film (secondo me) dell'anno appena trascorso, come si confà a ogni pagina o blog di cinema che si rispetti. E anche se non raggiungerò il livello di attenzione che sicuramente avrà il tradizionale Meglio e Peggio del buon Frusciante o l'autorevolezza dell'annuale lista di Cahièrs du Cinéma, spero che mi farete sapere con i vostri commenti se siete d'accordo o se mi volete morto per aver escluso alcuni film che vi piacciono o averne incluso altri che reputate non meritevoli.
A questo proposito, anche stavolta è d'uopo fare alcune premesse: quest'anno, rispetto al 2021, ho potuto frequentare i cinema con una frequenza molto inferiore, quindi mi sono perso alcuni grossi titoli che sono stati osannati dalla critica e che probabilmente troverete in tutte le altre classifiche annuali, ma non qui. Per cui, se notate grandi assenti è perché, semplicemente, non ho avuto ancora modo di vederli. Detto questo, alcuni film che invece ho inserito in questa lista (che, vi ricordo, è stata redatta in ordine rigorosamente sparso) sono usciti originariamente nell'anno solare 2021, ma ho deciso comunque di introdurli perché arrivati Italia solo a 2022 inoltrato.
Fatti i preamboli, cominciamo! Questi sono i film migliori del 2022 secondo il sottoscritto.
Licorice Pizza, di Paul Thomas Anderson
Iniziamo alla grande, con il ritorno di uno dei miei autori preferiti, che a quattro anni di distanza dallo splendido Il filo nascosto, tira fuori a mio parere uno dei cinque migliori film della sua carriera. Uscito a novembre 2021, giusto in tempo per la stagione delle premiazioni (portandosi a casa ben poco), è arrivato in Italia a marzo, con una distribuzione a dir poco criminale che purtroppo non mi ha permesso di godermelo in sala.
Polemiche a parte, Licorice Pizza è forse il film che riassume meglio la poetica ormai quasi trentennale di un autore come Anderson. Gli anni'70, un amore non convezionale, le passioni giovanili: tutto si incastra magnificamente in un'opera nostalgica, ottimista, ma filtrata attraverso il velo intimista e malinconico di un cinquantenne che rappresenta un'altra epoca, quella della sua giovinezza, con candore e apparente semplicità. Lo stesso titolo del film, quelle due parole che a noi appaiono enigmatiche, rimandano in realtà ai vecchi negozi di dischi (le “pizze di liquirizia” sono i vinili), quanto di più lontano, anacronistico e romantico per il mondo digitale e, oserei dire, freddo in cui ci troviamo a vivere.
Una
cornucopia di carrellate e steadycam
testimoniano la tecnica ormai superlativa raggiunta dal regista
losangelino, i cui tratti distintivi riscontrabili già nelle sue
prime opere (Boogie
Nights e
Magnolia
in
particolare) sono portati ormai alla perfezione stilistica. E il
tutto, come sempre nella filmografia di PTA, rigorosamente al
servizio delle atmosfere, delle emozioni e del delineamento degli
splendidi caratteri, maggiori e minori, che popolano il microcosmo
altmaniano che circonda il giovane Gary e la sua amata Alana, portati
in scena splendidamente anche grazie a degli straordinari interpreti,
Cooper Hoffman e Alana Haim, entrambi esordienti, figlio del compianto Philip Seymour il primo, cantante indie la seconda.
In una cornice
anni '70 decantata ma mai glorificata i due protagonisti affrontano
la loro burrascosa relazione (sempre se tale si può defnire) fra
materassi ad acqua, pinball
machine
e succulenti riferimenti tanto musicali quanto cinematografici: gli echi di
capolavori come American
Graffitti e Taxi Driver sono
a tratti sottili, a tratti espliciti, e il modo magnifico in cui Life
on Mars?
di David Bowie è inserita all'interno della narrazione non me la
farà ascoltare mai più allo stesso modo.
Insomma,
Paultommasone si riconferma tra i più grandi autori americani in
circolazione, e la sua ultima fatica non può che stagliarsi fra le
migliori uscite cinematografiche dell'anno.
Da vedere e rivedere
per coglierne tutte le sfumature.
Apollo 10 e mezzo, di Richard Linklater
Se guardiamo al fronte animazione dal punto di vista delle grandi major, il 2022 è stato un anno piuttosto deludente. La Pixar ha tirato fuori due film molto diversi come Red e Lightyear (discreto e abbastanza creativo il primo, dimenticabile e forzato il secondo), che non hanno raggiunto la bellezza dei precedenti Soul e Luca, mentre la Disney ha dato alla luce il suo sessantunesimo classico Strange World, che non ho ancora visto. Chissà, magari ne parleremo in occasione della lista dell'anno prossimo... ma ho i miei dubbi. Non ho potuto (leggasi “voluto”) visionare nemmeno l'ultima fatica di casa DreamWorks, niente po' po' di meno di un sequel del Gatto con gli stivali... sarò lieto di sbagliarmi, ma non credo di essermi perso granché. Infine, avrei voluto tanto parlare in questa sede di Belle di Mamoru Hosoda, ma ahimè, ovviamente, me lo sono perso in sala.
Tuttavia, se guardiamo oltre i soliti studi blasonati, la palma d'oro di mio film d'animazione preferito dell'anno (almeno per ora) spetta sicuramente a Apollo 10 e mezzo, con cui il grande Richard Linklater torna a utilizzare il rotoscopio dopo i suoi felicissimi esperimenti con Waking Life e A Scanner Darkly. Raccontando una storia ancora più autobiografica del solito, il regista texano riesce nel compito non semplice di farci provare nostalgia per un'epoca che io e quelli della mia generazione non abbiamo mai vissuto: gli anni '60, la corsa allo spazio nell'America post Kennedy e i climi competitivi da Guerra Fredda. Anni estremamente contraddittori per la società statunitense, che Linklater, pur descrivendo con l'affetto e la sincerità naif tipica dei ricordi d'infanzia, rappresenta con grande autenticità, pur attraverso lo sguardo innocente del se stesso bambino. L'io narrante, con la voce affidata ad un Jack Black sorprendentemente adatto al ruolo, si concentra poco sull'effettiva storia e molto di più sulla sua cornice, indugiando sulla descrizione delle abitudini, delle sensazioni, delle piccole cose che hanno costruito l'infanzia del protagonista (e dell'autore stesso).
Apollo 10 e mezzo è forse il film più intimo di uno dei cineasti più interessanti e influenti del cinema americano post-anni '80, ulteriore conferma che qualsiasi sua produzione merita sempre di essere tenuta d'occhio.
Crimes of the Future, di David Cronenberg
Lo so, altra scelta scontata, ma che posso farci? Stiamo parlando del ritorno sul grande schermo del maestro David Cronenberg dopo otto anni di assenza, e non so dirvi l'emozione che ho provato nel poterlo vedere al cinema, soprattutto considerando la distribuzione estremamente scarsa che ha avuto nel circuito delle sale. Un vero evento, insomma.
Quasi un decennio dopo il meraviglioso Maps to the Stars, il re indiscusso del body horror è tornato sui suoi passi, regalandoci una perla rara reminescente dei suoi primi lavori (il titolo, non a caso, è lo stesso di una delle sue prime pellicole, della quale però non costituisce un remake). Descrivere un'opera come Crimes of the Future non è un'impresa facile, com'è non fè facile rendere a parole la maggior parte della filmografia cronenberghiana. Forse il modo migliore per parlarne senza rivelare troppo e rovinare l'esperienza è proprio in relazione ai lavori che l'hanno preceduta.
Cronenberg
torna al cinema quest'anno nel modo migliore, cioè riportando la sua
attenzione allo stravolgimento del corpo, più dichiarazione
filosofico-sociale che mero mezzo per disgustare e inquietare. I
tempi sono dilatati, l'azione è ridotta al minimo, e a trasmettere
le vibrazioni care all'autore canadese sono, naturalmente, la
straordinaria costruzione delle immagini, dove regia e scenografia si
compenetrano e si fanno l'una completamento dell'altra, e le musiche,
ennesimo felice risultato della collaborazione tra il maestro e il
grande compositore Howard Shore, presenza salda fin dai tempi del
magnifico The
Brood.
Le grandiose interpretazioni di Viggo Mortensen e Léa
Seydoux fanno il resto, e persino un'attrice come Kristen Stewart,
che ho sempre trovato insopportabile persino in Café
Society
di Woody Allen, riesce a fare un buon lavoro.
L'ennesima
disquizione, morbosa quanto affascinante, sul corpo umano,
sull'evoluzione, sul rapporto tra tecnologia e organismo, sul fare
del proprio corpo (tannto all'esterno quanto all'interno) una vera e
propria forma d'arte: in altre parole, il grande cinema di David
Cronenberg, che anche solo sulla fiducia si guadagna un posto in
questa umile lista.
Non siamo degni.
The Batman, di Matt Reeves
Diciamo
la verità, se l'anno scorso il film evento è stato sicuramente il
Dune
di
Denis Villeneuve, l'unico blockbuster
che quest'anno gli ha tenuto testa (e l'aveva
già fatto a livello di attesa) è Avatar
2,
che ha segnato il ritorno dietro la macchina presa di un altro
gigante della fantascienza, James Cameron. E ho la sensazione che
torneremo a parlarne in questi lidi, chissà, magari nella classifica
dell'anno prossimo...
Ma se devo scegliere un solo blockbuster
di puro intrattenimento che si è stagliato al di sopra della solita
brodaglia supereroistica che ogni anno infesta le nostre sale (e, mi
dispiace dirlo, Sam Raimi non è riuscito a fare molto meglio col suo
Doctor
Strange)
è sicuramente The
Batman.
Parliamoci chiaro, la nuova (leggasi “ennesima”) reincarnazione dell'eroe DC non è affatto esente da difetti, ma delle evidenti facilonerie di sceneggiatura non intaccano troppo quello che è chiaramente un ottimo film d'intrattenimento, che Matt Reeves, reduce dagli ultimi due capitoli della nuova saga del Pianeta delle scimmie, confeziona sapientemente riuscendo a gestire benissimo quello che a conti fatti è un vero e proprio neo-noir. Avevamo già avuto ben due noir con Batman grazie a quell'uomo meraviglioso che è Tim Burton, ma qui ogni venatura ironica, ogni aspetto vagamente positivo viene eliminato, a favore di una detective story ben congegnata e un'atmosfera mutuata direttamente da esempi come Ridley Scott (la pioggia perenne non può non far pensare a Blade Runner) e David Fincher (l'ispirazione a Zodiac è evidente, come in parte quella a Seven, che a sua volta riprendeva a piene mani le atmosfere piovigginose del capolavoro di Ridley Scott).
In una Gotham City talmente dannata che in confronto quella dei film di Nolan sembra Topolinia, assistiamo alla parabola di un Bruce Wayne al limite della sua violenza ed autocommiserazione, interpretato in modo molto convincente da un Robert Pattinson che gioca di sottrazione, centrando appieno quello che è il personaggio. Perché, e questo è forse il pregio più grande, non è da sottovalutare come questa sia forse l'incarnazione che cattura più fedelmente lo spirito del fumetto. Innanzitutto, i personaggi comprimari sono quasi sempre azzeccati, in particolare un ottimo Paul Dano Enigmista, la cui ispirazione sembra più legata al ciclo di Hush di Jeph Loeb e Jim Lee, e una Zoe Kravitz Catwoman palesemente tirata fuori dalla milleriana Anno 1; la presenza della mafia a Gotham, incarnata dal personaggio interpretato dal grande John Turturro, è opprimente come dovrebbe essere e soprattutto, finalmente, l'aspetto investigativo è al centro della storia, come è sempre stato nel fumetto fin dalla sua genesi, non a caso sulla testata Detective Comics. Uniamo il tutto a una regia notevole, specie nelle scene d'azione, delle ottime musiche di Michael Giacchino e una fotografia cupa senza bisogno di desaturare tutto modello Snyder, e otteniamo quello che è sicuramente uno dei migliori film di Batman mai realizzati, che personalmente colloco per gradimento personale al di sopra dell'intera trilogia di Nolan e al di sotto delle due splendide opere burtoniane.
The Batman è stato ovviamente un grande successo, diventando il quinto maggior incasso dell'anno, e non stupisce che sequel e spin-off vari siano già in cantiere. Facciamoci il segno della croce e speriamo che il buon Matt Reeves riesca a tenere su la baracca, fragile come per quasi tutti i franchise al giorno d'oggi.
Il mostro dei mari, di Chris Williams
È vero, pochi paragrafi fa ho definito deludente l'animazione di largo consumo di quest'anno, ma sono lieto di annunciarvi che c'è un'eccezione eclatante: Il mostro dei mari è una deliziosa, divertentisima avventura piratesca, gestita nei minimi particolari da Chris Williams, tra gli artefici di molti classici Disney moderni come Big Hero 6, ma la casa del Topo non ha niente a che vedere con uno dei migliori prodotti animati dell'anno, relegato purtroppo allo streaming. Si tratta infatti di una co-produzione Netflix Animation/Sony, nonché a mani basse la miglior regia di Williams, che dimostra una perizia tecnica invidiabile in ogni inquadratura. L'ottimo lato tecnico sostiene alla perfezione una sceneggiatura rivolta a bambini e ragazzi, ma tutt'altro che banale, che dosa sapientemente leggerezza e addirittura stimoli politici semplici ma manifesti, in modo naturale e totalmente coerenti con la storia narrata. Un'opera di alto intrattenimento, con un sapore che la accomuna alle opere di Stevenson, di Salgari, o di Melville, sicuramente ispiratrici di questo ottimo soggetto marinaresco adatto a tutta la famiglia. Veramente divertente!
C'mon
C'mon,
di Mike Mills
Per quanto riguarda il campo del cinema (semi)indipendente, ci tenevo a includere in questa lista un altro film uscito nel 2021, precisamente a novembre, ma arrivato in Italia solo ad aprile.
C'mon
C'mon è un dramma introspettivo diretto da Mike Mills e prodotto
da quella fabbrica delle meraviglie che è la A24, che segue un
reporter radiofonico in giro per gli Stati Uniti che si ritrova a
badare al nipote di 9 anni. L'esile trama non è che un pretesto per
una riflessione sulla vita, sul percorso finora compiuto tanto dal
protagonista (un vulnerabile, fantastico Joaquin Phoenix agli
antipodi rispetto alla sua istrionica interpretazione di Joker),
quanto dall'umanità intera; il quarantenne Johnny, reduce da una
relazione fallita e la morte della madre, intervista ragazzi da varie
città americane dando loro la parola sul futuro e sulle loro
speranze, il tutto mentre il piccolo Jesse, il figlio di sua sorella
Viv, affronta i suoi problemi familiari legati principalmente ai
problemi mentali del padre. Il film è quanto di più lontano dal
classico drammone progettato più che altro per attirare premi, è un
profondo dibattito con lo spettatore, veicolato attraverso una
piccola, normale esperienza familiare che mette al centro le
emozioni, infantili e adulte, ma che sembrano tutte al 100% reali.
La
sceneggiatura di Mills gioca sul non detto, la fotografia si avvale
del bianco e nero, la recitazione è sorretta dagli sguardi. I
dialoghi sono semplici ed estremamente naturali, anche perché tutte
le interviste che vediamo sono assolutamente autentiche, sono le vere
sensazioni e i veri pensieri dei giovani americani immortalate in
un'opera che sembra parlare di e per tutti noi.
Mike Mills e la A24 ci regalano una fotografia su piccola scala dei nostri tempi, attraverso un cast di personaggi ridotto all'osso, location urbane affatto artificiose e musiche minimaliste. Decisamente tra i migliori film dell'anno.
The Northman, di Robert Eggers
Robert Eggers è sulla bocca di tutti gli amanti della settima arte fin dal suo esordio con The Witch nel 2015, e i suoi lavori successivi, The Lighthouse e The Northman, hanno solo rafforzato il suo prestigio. E non è difficile capire il perché.
Con
The Northman
l'autore prosegue la sua poetica all'insegna del simbolismo,
andando questa volta a sviscerare le radici del racconto
shakespeariano di Amleto, riportato alle sue ancestrali origini
vichinghe. Eggers approfitta della materia di base per creare
un'altra opera visionaria e criptica, che pesca a piene mani dalla
mitologia norrena per creare un ricchissimo substrato di simboli,
riferimenti, allusioni e suggestioni.
Ci vorrebbero chissà quante
visioni per poterle cogliere ed elencare tutte, ma ciò che più
conta è che anche con questa sua ultima fatica Eggers regala allo
spettatore un'esperienza complessa, per certi versi di difficile
comprensione, ma appagante e intrattenente.
Della
matrice shakespeariana resta solo l'ossatura, il resto è
rappresentato come un possente fantasy epico spogliato da qualunque
orpello narrativo e messo in scena con una crudezza che riporta agli
occhi opere simili come Valhalla
Rising,
di Nicolas Winding Refn. L'autore si dimostra perfettamente capace di
gestire l'epico (del resto, cosa c'è di più epico del ritorno sullo
schermo di Bjork, a oltre vent'anni di distanza da Dancer
in the Dark?),
e la sua regia è magniloquente più che mai, perfettamente al
servizio dell'azione quanto della pura estetica, come sempre a
livelli vertiginosi. Aggiungiamo poi a quella Bjork altre interpretazioni
d'eccezione, come quelle dei feticci Anya Taylor-Joy e Willem Dafoe,
e non si può che volare altissimo.
Ogni film di Eggers è una gioia per gli occhi e per la mente, una di quelle cose che non dovreste mai farvi sfuggire se amate veramente il cinema. La sua prossima impresa dovrebbe essere un remake del grande classico Nosferatu (vi ho parlato su questo blog anche della versione di Herzog, lo trovate poco più giù), e personalmente non vedo l'ora di vedere cosa tirerà fuori, posto che se il film su Barbie avesse Eggers alla regia attenderei con ansia pure quello.
America Latina, di Damiano e Fabio D'Innocenzo
È
difficile parlare di un film come America
Latina,
e ancora più difficile spiegare perché sia un gran film. I fratelli
D'Innocenzo, dopo l'esordio con La
terra dell'abbastanza
del 2018 e l'acclamato affresco neo-neorealista Favolacce,
vincitore meritatamente dell'Orso d'argento a Berlino per la miglior
sceneggiatura, regalano al nostro cinema un thriller psicologico da
antologia passato fin troppo inosservato. Presentato in concorso alla
Mostra del cinema di Venezia del 2021, ma distibuito nelle sale il
gennaio successivo, è un film introspettivo e claustrofobico, dalla
sceneggiatura quasi scarna, che rivela poco e nei momenti giusti. È
l'autopsia della mente disturbata e tormentata di un uomo, del suo lento deterioramento a causa di un fatto singolare che arriva a
sconvolgere la sua vita apparentemente così tranquilla.
Dire
troppo altro su America
Latina significherebbe
rischiare di rovinare l'esperienza della sua visione, soprattutto
considerando quanto poco se n'è parlato, perlomeno se paragonato al
passaparola generato dal suo predecessore. Dunque se riuscite, cari
lettori, recuperatelo, perché si tratta di una perla che merita di
essere più riconosciuta, tra i migliori film italiani dell'anno.
Nightmare Alley, di Guillermo Del Toro
Nightmare Alley, alias La fiera delle illusioni, è il remake dell'omonimo film del 1947, eppure non si direbbe. Perché in mano al grande Guillermo Del Toro anche una storia già raccontata appare nuova, come hanno dimostrato in passato perle come Il labirinto del fauno e La forma dell'acqua.
In ogni suo film il
regista messicano ci immerge in un nuovo mondo, e Nightmare Alley
non fa eccezione. Fra scenografie straordinarie e suggestive,
fotografia impeccabile e grandi interpretazioni (con un ottimo
Bradley Cooper nel ruolo che fu di Tyrone Power), assistiamo a una
parabola, l'ascesa e la caduta di un uomo che abbandona l'umiltà in
favore della cupidigia. È incredibile a dirsi, per un'opera ambientata nel
mondo del circo firmata da un autore che sguazza nel fantastico, ma
l'irreale e la giocosità sono stavolta quasi bandite, senza nemmeno
un'oncia di speranza lasciata allo spettatore una volta arrivato al
finale. E la crudezza, dell'animo ancora più che della vista, è
assolutamente necessaria per un film di formazione di questo calibro,
di diritto entrato in questa lista dei migliori dell'anno.
Un
raro caso di remake riuscito, dunque, che personalmente mi ha fatto
venire voglia di recuperare il film originale. E su questo e su Del Toro torneremo tra poco...
The House, di Emma de Swaef, Marc James Roels, Niki Lindroth von Bahr e Paloma Baeza
Guarda caso, anche il secondo film d'animazione di questa lista è un film di nicchia, relegato a Netflix e ben poco discusso. The House è una produzione britannica dei Nexus Studios, composta da tre episodi per altrettanti gruppi di registi, ognuno ambientato nella stessa casa ma in momenti diversi nel tempo. Il commediografo irlandese Enda Walsh, autore di tutti e tre i racconti, tratteggia situazioni d'atmosfera kafkiana, esaltata dalla tecnica d'animazione utilizzata, quella a passo uno, la più adatta ed efficace a questi scopi, come potrà confermare qualsiasi amante delle opere di Svankmajer.
Siamo davanti a quel tipo di opera sui cui significati e implicazioni si potrebbe discutere a lungo, e la complessità e molteplicità dei suoi temi la rende tra le più interessanti dell'anno, oltre che l'ulteriore dimostrazione di come l'animazione non sia altro che uno dei tanti mezzi a disposizione della settima arte per raccontare qualunque cosa un atista desideri.
Nostalgia, di Mario
Martone
Nostalgia condivide l'amarezza di fondo del suo
predecessore (oltre che l'ambientazione del rione Sanità), ma lascia
da parte qualuque tipo di ironia o ottimismo. La storia di Felice, ex
baby criminale tornato al suo quartiere dopo quarant'anni pasati
all'estero, è spoglia, asciutta, priva di qualunque orpello, tanto
narrativo quanto registico, e l'inesorabile drammaticità del tutto
opprime tanto il protagonista quanto lo spettatore dalla prima
all'ultima inquadratura.
Pierfrancesco Favino, inutile dirlo,
fornisce un'interpretazione degna di un (ennessimo) David di
Donatello, e Martone continua a cavalcare il successo sulla scia di
Qui rido io, uscito proprio l'anno scorso e anch'esso portato
in trionfo dalla critica.
E tanta considerazione, per una
volta, è pienamente meritata, visto che stiamo parlando
probabilmente del miglior film italiano dell'anno, sicuramente il
migliore fra quelli che ho avuto il piacere di contemplare.
Pinocchio, di Guillermo Del Toro
Tra le migliori animazioni dell'anno non poteva mancare Pinocchio di Guillermo Del Toro, ennesima trasposizione del romanzo di Collodi.
Ennio, di Giuseppe Tornatore
Quest'anno sono riuscito a includere anche un documentario, tra l'altro l'ultima opera di un autore che personalmente non ho mai amato. Ma con Ennio, dedicato al maestro Ennio Morricone a un anno di distanza dalla sua morte, Giuseppe Tornatore realizza uno dei suoi lavori migliori e più complessi, che mi ha regalato una delle esperienze più emozionanti che abbia mai fatto al cinema.
Mentirei
se dicessi che ascoltare quasi ogni giorno le colonne sonore del
Maestro non ha contribuito alla concezione che ho avuto di questo
documentario, ma del resto se c'è una cosa che questo è riuscito a
trasmettere con efficacia è proprio quanto le musiche di Morricone
abbiano significato non solo per il mondo del cinema e della musica
in generale, ma per ognuno di noi. Con mia grande sorpresa, infatti,
la sala in cui ho visto questo film era quasi piena. Piena di persone
che, come me, hanno vissuto la grandezza di questo genio musicale
sulla pelle. Che siate appassionati di cinema o semplici ascoltatori
casuali di musica italiana, è impossibile non averci mai avuto a che
fare, e questo documentario ha qualcosa per ognuno di voi, oltre a
rappresentare un sentito e doveroso tributo, e qui mi sbilancio, al
più grande compositore di colonne sonore (e non solo) mai vissuto.
E, da non amante dei film di Tornatore, considero Ennio la mia cosa
preferita che abbia mai fatto.
Anna Frank e il diario segreto, di Ari Folman
Avete presente quando a scuola, ogni 27 gennaio, vi trascinavano al cinema a sorbirvi qualche noiosissimo film sulla shoah che sembrava non finire mai? O, peggio ancora, vi costringevano a vederli in classe, dove non avevate nemmeno la possibilità di fare un po' di sano casino scambiando battute col vostro vicino di posto? Ebbene, Anna Frank e il diario segreto non è quel tipo di film.
Ari Folman, animatore israeliano già
autore del pluripremiato Valzer con Bashir, affronta per la
prima volta il tema del genocidio ebraico, e lo fa senza retorica e
senza pretese di crudezza o patetismo: quello che lo spettatore si
trova davanti è un film d'animazione dall'estetica fine e alla
portata di tutti, meno sperimentale del precedente exploit animato di
Folman proprio per ampliarne il raggio d'azione. Il regista coglie
perfettamente l'importanza di far interfacciare più gente possibile
a un tema come quello dell'olocausto, e lo fa attraverso una storia
di cui chiunque abbia frequentato almeno le elementari è
perfettamente a conoscenza, quella di Anna Frank.
Folman svolge
un ottimo lavoro nel delineare la persona dietro quel nome,
descrivendola per quello che era, senza necessità romanzare o
mistificare. La carta vincente è quella di farlo attraverso il
personaggio di Kitty, l'amica immaginaria a cui Anna questa
indirizza il suo diario: Kitty viene umanizzata e diventa un
personaggio in tutto e per tutto, mentre quel famoso diario di cui
tutti abbiamo sentito parlare, ma che la maggior parte di noi non ha
mai letto (me compreso), non è che il punto di partenza per un
discorso che più che una lezione di storia è una lezione di vita.
Folman ci sbatte in faccia la tragicità della storia di Anna e
della sua famiglia nel modo più efficace possibile, cioè portandola
a confronto con le tante storie tristemente moderne vissute da
profughi, immigrati, clandestini, e di cui, esattamente come per i
campi di concentramento negli anni '40, in pochi sembrano
interessarsi o accorgersi. Andiamo avanti con le nostre vite a occhi chiusi e
orecchie tappate, non notando, o fingendo di non notare, tutto quello che avviene sotto i nostri occhi, ogni giorno.
Ed ecco che
il nome di Anna Frank colpisce finalmente per quello che dovrebbe
essere. Non qualcosa di vuoto e puramente nominale, ma come un
monito, non tanto contro qualsiasi forma di fascimo in sé (il quale
comunque, è il caso di ricordarlo, è in netta ascesa ovunque mentre
sto scrivendo), ma contro ogni tipo di ingiustizia, contro ogni
azione leggittimata da un governo che calpesta i diritti di esseri
umani come lo siamo noi. Come lo era Anna, come lo era la sua
famiglia, come lo erano 6 milioni di ebrei sterminati durante la
guerra, come lo sono tutte le vittime di crimini razziali, come lo
sono tutti coloro che non hanno uno Stato a proteggerli.
Per
quanto mi riguarda, Anna Frank e il diario segreto è davvero
un film da proiettare nelle scuole, che non annoia, non fa moralismo
spiccolo e si impone, inutile dirlo, come un altro dei migliori film
dell'anno.
Ultima notte a Soho, di Edgar Wright
Ho voluto chiudere questo breve almanacco del meglio dell'anno con un film che ha fatto una toccata e fuga nelle nostre sale a novembre 2021, ma che la maggior parte del pubblico italiano ha potuto vedere solo mesi dopo, considerando la distribuzione al limite del criminale che ha avuto.
Ed è veramente un peccato che così tanti (me compreso) non abbiano potuto godersi al cinema l'esperienza sensazionale che è Ultima notte a Soho, ennesimo capolavoro di Edgar Wright dopo la trilogia del Cornetto e Baby Driver. Un film in cui il regista inglese raggiunge senza dubbio il suo apice a livello formale, ma anche e soprattutto a livello di sostanza.
Nella storia di una ragazza che si trasferisce dalla Cornovaglia a Londra per perseguire il suo sogno di diventare una stilista, Wright mescola temi, suggestioni e riflessioni in un cocktail micidiale che trasuda da ogni singolo elemento composito del film, dal suo stile registico, ormai tecnicamente sopraffino, alla sceneggiatura, dalla fotografia a, come sempre, le musiche. Le canzoni sono sempre state fondamentali per la poetica del regista, fino a costituire addirittura l'ossatura portante di film come Baby Driver, ma qui assumono un significato che va ben oltre la caratterizzazione a livello superficiale: in un periodo storico in cui la nostalgia sembra avvolgere ogni aspetto della nostra fruizione artistica, il regista ci mette davanti alla realtà delle cose, sbattendoci in faccia l'assurdità della mitizzazione del passato in un mondo in cui la storia si ripete sempre, violenta e brutale.
La protagonista Ellie, interpretata dall'ottima Thomasin McKenzie, sogna gli anni '60 filtrandoli attraverso la sua passione per la musica pop del periodo. Come tutti gli adolescenti che si sentono non accettatti, idealizza un idilliaco passato in cui rifugiarsi, quella stessa sorta di Eden temporale che ancora oggi resiste quando si pensa alla stagione del peace and love, di Woodstock, dei Beatles, del sogno californiano. Ma presto i sogni di Ellie si infrangono di fronte alla realtà, e Wright sembra avvertire anche noi spettatori, descrivendoci la violenza del maschilismo (e non solo) attraverso una vicenda soprannaturale che rimanda alle atmosfere di maestri del passato, da Argento a Polanski, ma che è allo stesso tempo saldamente inserita nel nostro presente, quello del me too, quello della rivalutazione cieca del passato a seconda delle mode del momento, quello che tutti stiamo vivendo quotidianamente.
Stiamo parlando
dell'opera in assoluto più politica dell'autore, pervasa da uno
spirito iconoclasta che la accomuna in parte al bellissimo Midnight
in Paris di Woody Allen, ma senza alcuna apertura alla redenzione,
senza alcun lato positivo. Ultima notte a Soho è non solo uno
dei migliori film di Edgar Wright (se non il migliore), ma uno delle
opere più complesse e rilevanti del 21esimo secolo, qualcosa che
verrà quasi certamente ricordata in futuro come un capolavoro.
E
credetemi, ci sarebbe ancora tantissimo di cui parlare, specialmente
a livello di temi e strati, ma credo che la cosa migliore che possa dire
a riguardo è: guardatelo. Guardatelo più e più volte, ammiratelo,
studiatelo, osservatelo, perché è davvero un'opera d'arte che non
ha niente da invidiare a un Suspiria o a un Repulsione,
oltre che il miglior modo per concludere in grande questa mia umile
lista.
E adesso voglio sapere
le VOSTRE opinioni! Condividete le mie scelte? Quali sono stati per
voi i migliori film del 2022? Mi raccomando, inondatemi di commenti e
fatemi sapere!
Nel frattempo, vi ringrazio per aver letto e vi do
appuntamento al prossimo articolo. W il cinema!