sabato 24 febbraio 2024

SEVEN, DI DAVID FINCHER

"Hemingway ha detto che il mondo è un bel posto e che vale la pena lottare per esso. Io condivido solo la seconda parte."


1991:  esce al cinema Il silenzio degli innocenti, diretto da Jonathan Demme. Un thriller glaciale e disturbante, soprattutto per l'epoca, che fra premi Oscar e copertine di riviste che sfoggiavano le facce di Anthony Hopkins e Jodie Foster riportò in auge la moda dei serial killer al cinema. L'impatto del film tratto dal romanzo di Thomas Harris andò ancora più oltre, portando tematiche non facili come omicidi seriali, cannibalismo e transessualità all'attenzione del pubblico generalista, abituato dal decennio precedente ad opere del genere sicuramente di ottimo mestiere ma più "sicure" e alla portata di tutti. Inutile dirlo, il filone dei polizieschi d'indagine sui serial killer conobbe un periodo particolarmente florido, complice anche la rinnovata attenzione all'estetica pulp grazie ai primi fortunatissimi exploit tarantiniani che, da Le iene a Jackie Brown impreziosirono il cinema americano del decennio 1990.
Ma non è di Tarantino che parleremo in questa sede, bensì di un altro regista forse meno abile ma estremamente noto agli appassionati di cinema, compresi i più inesperti (e anche i più giovani): David Fincher.

All'epoca Fincher era noto per lo più come regista di spot e videoclip musicali per Madonna, Sting, Aerosmith e molti altri, e avrebbe di lì a poco esordito sul grande schermo con l'ingrato compito di mettere insieme un terzo capitolo per la saga di Alien, reduce da due grandi successi per opera di altrettanti grandi autori: Alien³ uscì nel 1992 dopo innumerevoli riscritture in corso d'opera e con un montaggio finale non approvato da Fincher, che disconobbe l'opera. Nonostante ciò, il talento nel gestire scene di tensione era evidente, come dimostrato da alcuni memorabili momenti del film, e nel 1995 una sceneggiatura per un poliziesco scritta da Andrew Kevin Walker finì nelle mani della New Line Cinema e convinse Fincher a tornare dietro la macchina da presa, dopo un'iniziale ritrosia. Quella sceneggiatura aveva per titolo Seven.

Inutile spendere parole sulla trama di uno dei film più famosi degli anni '90, basata
su una progressione dell'indagine che, delitto dopo delitto, tiene incollato lo spettatore allo schermo, con un'affascinante filo conduttore legato ai sette peccati capitali. John Doe è probabilmente tra i serial killer fittizi più iconici del decennio, merito non solo della scrittura, ma anche della straordinaria interpretazione di un Kevin Spacey nei suoi anni di grazia, punta di diamante in quello stesso anno di un altro capolavoro del genere, quel I soliti sospetti che mise in chiaro il talento di un altro grande regista, Bryan Singer. Un Kevin Spacey tra l'altro per nulla menzionato durante la promozione del film, per mantenere il segreto sull'identità dell'assassino.
Altro punto di forza della sceneggiatura è il detective William Somerset, personaggio caratterizzato da una malinconica lucidità che ci ricorda lo sceriffo Bell di Non è un paese per vecchi, un anziano uomo di legge disilluso e reso cinico da tempi sempre più spietati e in cui non riesce a riconoscersi, portato davanti alla macchina da presa da un Morgan Freeman che sprigiona carisma in ogni fotogramma.
Come da stereotipo, al suo fianco troviamo una giovane testa calda, il detective Mills interpretato da Brad Pitt, all'epoca idolo delle ragazzine e attore piuttosto mediocre (basterebbe osservare la scena finale...). Completano il cast una giovane e talentuosa Gwyneth Paltrow, compagna di Brad Pitt nel film e all'epoca nella vita, e un contorno di grandi caratteristi come R. Lee Ermey, John C. McGinley e Michael Masee.

Ma una bella sceneggiatura e un buon cast non sono nulla se a sorreggerli non hanno una regia di livello. Fincher, solo alla sua seconda esperienza con un lungometraggio, può finalmente sbizzarrirsi senza restrizioni: la regia è intimista e decadente, che tratteggia i personaggi e la città senza nome che abitano con uno sguardo che si rifà chiaramente ai maestri del poliziesco della Nuova Hollywood come Sidney Lumet e Alan J. Pakula, mentre le splendide, opprimenti atmosfere piovose evidenziano un palese debito col capolavoro Blade Runner di Ridley Scott. 

David Fincher
Con tutti questi ingredienti David Fincher firma indubbiamente uno dei noir più iconici di tutto il decennio '90. Un poliziesco crudo, con uno dei finali a sorpresa più noti (e spoilerati) di sempre, il primo esempio di un tratto caratteristico che già dal successivo The Game (1997) porterà a risultati altalenanti, ma che per ora, pur al netto di una certa sospensione d'incredulità, lascia spiazzati per efficacia.
La vera consacrazione di Fincher arriverà quattro anni dopo con Fight Club, cult ancora più radicato nella memoria collettiva che catapulterà l'autore nel gotha dei cinefili della generazione Z, che lo porranno su un piedistallo a prescindere dagli alti e bassi di una carriera che vedrà anche dei clamorosi passi falsi.
Ma questa è un'altra storia.


Dati tecnici


Regia: David Fincher

Anno: 1995

Paese di produzione: Stati Uniti d'America

Casa di produzione: New Line Cinema

Fotografia: Darius Khondji

Montaggio: Richard Francis-Bruce

Musiche: Howard Shore