lunedì 27 giugno 2022

FRESCO DI CELLULOIDE: LIGHTYEAR - LA VERA STORIA DI BUZZ


Ritorna la rubrica Fresco di celluloide!

Oggi non potevo che parlare dell'ultimo film Pixar, uscito nelle sale da un paio di settimane.
Togliamocelo subito dai piedi: come recita la scritta iniziale, Lightyear (la "vera" storia di Buzz) è il film che Andy vide nel 1995 e su cui fu basato il giocattolo che vediamo in Toy Story.
E se pensate che questa premessa sia solo una scusa forzata per spremere un altro po' un franchise che ha da tempo esaurito il suo potenziale, non vi sbagliate.

Ma almeno, a differenza dell'inutile e a tratti imbarazzante Toy Story 4 (che non è mai esistito, ricordiamolo), l'esordiente regista e sceneggiatore Angus MacLane, libero di operare al di fuori della stringente gabbia del sequel canonico, riesce a divertire con una piccola storia di fantascienza che mischia suggestioni da 2001 e Interstellar con un'innocente aura di film per famiglie sicuro e tranquillo, con la tipica morale sul gioco di squadra, le tipiche spalle comiche e una minaccia che è tutt'altro che quello che sembra, con una rivelazione che, a detta tutta, rischia di sollevare più domande che risposte, non solo per il pubblico giovane.

Per quanto riguarda l'edizione italiana, il doppiaggio è tutto sommato competente, e una volta superata la diffidenza che potrebbe generare il trailer l'interpretazione di Alberto Malanchino nel ruolo del protagonista risulta sicuramente azzardata, ma a mio parere vincente. Soprassederò sulla palese non professionalità di alcuni doppiatori (o presunti tali) in ruoli terziari, perché, per quanto distraggano, hanno veramente troppe poche battute per ledere all'esperienza del film.

Film che tutto sommato è una divertente parentesi adatta ad intrattenere per un'ora e quaranta e buona a poco altro se non a fornire una visione diversa e più seriosa di un personaggio di cui non ci sembra di aver imparato di più a visione compiuta.

Quest'ultima uscita sancisce finalmente il ritorno in sala della Pixar, dopo essere stata relegata per due volte di fila su Disney+, il quale sta sempre più rivelando la sua natura di malvagio strumento multinazionale quale è. Purtroppo, però, Lightyear non sta attualmente andando bene al botteghino, e questo potrebbe forse rivelarsi una spia d'allarme in casa Disney, che spero torni a puntare su idee più originali e sperimentali, come ha fatto spesso in più punti della sua storia, e come siamo stati abituati dallo studio di Pete Docter e soci.

lunedì 20 giugno 2022

MONOGRAFIA DISNEY EP. 1 - BIANCANEVE E I SETTE NANI

La prima cosa che viene in mente quando si sente la parola “animazione” è senza dubbio la Disney. Certo, c'è chi preferisce altri tipi di animazione, c'è persino chi odia la Disney, ma nemmeno i detrattori più agguerriti possono negare l'importanza che questo studio, e il suo fondatore in particolare, hanno avuto per lo sviluppo di questa arte. Un'arte nata col cinema stesso, a fine '800, con i lavori di pionieri come Émile Cohl e Windsor McKay, i cui semi si possono rintracciare in realtà addirittura secoli prima, con l'invenzione della lanterna magica.

Fantasmagorie, cortometraggio di Cohl del 1908, è considerato il primo vero cartone animato della storia, mentre nel 1917 l'italo-argentino Quirino Cristiani realizzò El Apóstol, il primo lungometraggio d'animazione, realizzato con la tecnica della cut-out animation e andato purtroppo perduto. Sempre in cut-out sono le opere di Lotte Reiniger, animatrice tedesca che, con Achmed, principe fantastico, 1926, realizza il lungometraggio animato più antico giunto fino a noi.

Tutte opere fondamentali per la storia del cinema in generale, ma la prima vera grande svolta nella storia di questa tecnica si ha alcuni anni dopo, nel 1937, e si deve proprio a Walt Disney.

Questo è il primo appuntamento con quella che spero di trasformare in una serie, qui sul blog.

Una serie in cui recensisco, uno dopo l'altro, ogni classico Disney, dalle origini fino a oggi. Tuttavia, considerando la mia scarsa abilità nell'essere costante in qualsiasi cosa, specialmente questo blog (l'ultimo post risale a un mese fa, ops), non mi prefiggerò alcuna frequenza o deadline specifica per la pubblicazione di queste recensioni, prendendomi ogni volta il tempo per scrivere nel miglior modo che posso. Questa stessa recensione mi ha preso circa due mesi di lavoro, e in futuro vorrei restare libero di parlare anche di altri film, e non solo (ho già in cantiere qualche progetto...).

Detto questo, cominciamo, com'è d'uopo, dall'inizio di tutto.

Walt Disney nel trailer di Biancaneve

Prima che il suo nome diventasse un marchio sinonimo di capitalismo, Walter Elias Disney era un semplice ragazzo del midwest, che, dopo aver svolto decine di lavori diversi e dopo innumerevoli e ammirevoli tentativi e fallimenti, era riuscito a centrare il cuore degli spettatori con i suoi cortometraggi, realizzati insieme all'amico e infaticabile collaboratore Ub Iwerks. Un'impresa già di per sé non da poco, considerando che tutto ciò, con la creazione di Topolino e il varo delle Silly Simphonies, avviene a cavallo fra gli anni '20 e '30, il periodo considerato la golden age dell'animazione, in cui la concorrenza era variegata e spietatissima.

Walt, come tutti noi, era un uomo dai mille difetti, e su di lui se ne sono dette di cotte e di crude, ma se c'è una cosa a cui di certo si può credere è questa: era un sognatore. E quando si trattava di tradurre in realtà quello che sognava era una forza inarrestabile, pronto a inimicarsi qualunque cosa e persona che lo ostacolasse. Fu proprio la sua testardaggine, la sua voglia di superarsi e di spingere il mezzo animazione oltre i suoi limiti che lo portò, nel 1934, a partorire un'idea assurda: produrre un lungometraggio interamente animato. Non con le sagome ritagliate nella carta, come nei lavori di Cristiani o di Reiniger, ma completamente disegnato a mano, dall'inizio alla fine, con la tecnica nota nell'ambiente come cel animation. Ai tempi tutti considerarono questo progetto una follia, un'utopia irrealizzabile, tanto che sia la moglie che il fratello di Walt tentarono di fargli cambiare idea, la stampa dell'epoca lo derise, Disney divenne praticamente una barzelletta sulla bocca di tutti, ma nonostante tutto lui non si arrese mai. E così, nel giugno 1934 annunciò al suo staff l'intenzione di mettere in scena uno dei racconti della sua infanzia, Biancaneve e i sette nani dei fratelli Grimm, mosso anche dal ricordo, di quando aveva 15 anni, della versione muta del 1917 di J. Searle Dawley.

Lo staff dello studio Disney nel 1932

È difficile, con la mentalità di oggi e i mezzi a disposizione, cogliere veramente l'imponenza di un lavoro del genere negli anni '30. A partire dall'aspetto finanziario: il budget del film ammontò a quasi un milione e mezzo di dollari. Una cifra inconcepibile per l'epoca, laddove il costo per realizzare una normale
Silly Symphony si aggirava intorno ai 25.000 dollari, tanto che Walt dovette ipotecare la propria casa e chiedere un prestito alla Bank of America, che ottenne mostrando al presidente Joseph Rosenberg una versione non ancora finita del film. Pare infatti che Rosenberg, rimasto impassibile per tutta la proiezione, alla fine si girò e dichiarò: “Walt, questa cosa incasserà una marea di soldi!”.

E questo è niente in confronto al vero e proprio processo di scrittura e animazione, un'odissea creativa che richiese tre anni di sviluppo e lo sforzo collettivo dell'intero team in forza allo studio Disney. Si parla di circa 750 persone, tra animatori, sceneggiatori, inchiostratori e assistenti vari, e migliaia e migliaia di disegni realizzati. Nomi che in pochi oggi ricordano, come David Hand, Ward Kimball, Art Babbitt, Joe Grant, Larry Morey e tantissimi altri, rimarranno indelebilmente nella storia dell'intrattenimento per immagini, così come quelli di coloro che lavorarono al soggetto e alla sceneggiatura, forse l'aspetto che richiese più tempo e sforzi. E il motivo di ciò è presto detto.

Disney e il suo team erano abituati a lavorare a pellicole umoristiche che dovevano esaurirsi in massimo 10 minuti, in cui erano più che altro le gag o al massimo la creatività artistica e visiva

a costituirne l'ossatura. Per un film vero e proprio si capì presto che la spina dorsale narrativa doveva essere ben più resistente: vennero dunque eliminate le tantissime scene pensate ma non realizzate che davano molto più spazio al principe e ai nani, inizialmente protagonisti di numerose parentesi comiche che deviavano dal conflitto principale fra Biancaneve e la regina Grimilde e, di conseguenza, dalla drammaticità della situazione. Alcune di queste scene tagliate che oggi definiremmo “riempitivi” furono addirittura completamente animate, come quella in cui i nani costruiscono un letto come regalo per Biancaneve, col dispiacere di Ward Kimball, animatore di quella sequenza, che Walt convinse a non lasciare lo studio dandogli l'importante incarico di supervisore per l'animazione del Grillo Parlante in Pinocchio, seconda fatica dello studio in termini di lungometraggi.
Insomma, piuttosto che una sequela scollegata di situazioni comiche la sceneggiatura doveva avere la struttura di qualsiasi altra sceneggiatura della Hollywood del periodo, con un inizio, uno svolgimento e una conclusione. Ma, d'altra parte, l'umorismo era comunque fondamentale per dare respiro alla storia, tanto che Walt stimolò i suoi artisti promettendo un bonus di 5 dollari per ogni gag che trovasse divertente.

Il processo di scrittura, come avrete intuito, fu particolarmente complicato, e non mancano gli aneddoti interessanti a riguardo. Pensate, ad esempio, che ben due nomi storici del fumetto incrociarono le loro strade con la lavorazione di Biancaneve: Merril De Maris, in quel periodo autore dei testi delle storiche strisce quotidiane di Topolino disegnate dal maestro Floyd Gottfredson, figura fra gli sceneggiatori del film, mentre niente po' po' di meno che Carl Barks, tra i più grandi fumettisti di sempre, entrò nel 1935 in forza alla Disney proprio grazie a degli schizzi di idee per il film che inviò allo studio. Le sue proposte non vennero considerate, ma lavorò alle dipendenze di Walt, prima come intercalatore e poi come sceneggiatore e gagman, fino al 1942, quando deciderà di dedicarsi esclusivamente al fumetto.


Una volta delineata la piega che avrebbe preso la storia, il cui soggetto venne scelto anche perché, fra le opere dei Grimm, era considerato il più adatto a coprire una durata di un'ora e venti, restava la fase più complessa e delicata: l'animazione.

Come per l'aspetto narrativo, anche il livello delle animazioni doveva essere superiore, per fare da traino alla maggior serietà della trama. Lo staff di creativi, spinti del veterano Art Babbitt, parteciparono a delle lezioni private tenute dall'insegnante d'arte Donald Graham, che insegnò agli artisti dello studio come migliorare e ottimizzare la loro tecnica, specialmente riguardo l'animazione dei personaggi umani, tra gli aspetti più difficoltosi all'epoca. Fondamentale in quest'ottica fu il corto delle Silly Symphony del 1934 La dea della primavera, rappresentazione del mito di Ade e Persefone che per la prima volta sperimentò con figure umane realistiche. Nonostante i risultati non ancora eccezionali, rappresentò un punto di partenza imprescindibile da cui partì l'animatore Grim Natwick, famoso per il suo lavoro ai Fleischer Studios sul personaggio di Betty Boop e responsabile della protagonista Biancaneve. Per facilitare un minimo il lavoro (e in parte anche per velocizzarlo), gli animatori optarono con riluttanza per l'utilizzo del rotoscopio, strumento inventato proprio dai Fleischer che rendeva possibile ricalcare i movimenti da filmati live action in modo da ottenere animazioni più convincenti: fu la tecnica impiegata parzialmente per animare Biancaneve, il principe e la regina Grimilde, e fu uno dei più efficaci utilizzi del mezzo mai visti fino ad allora.

Ma le innovazioni tecniche che rendono incredibile questo film non finiscono qui: Biancaneve introdusse infatti anche la multiplane camera, tra gli strumenti più rivoluzionari per la tecnica dell'animazione. Creata nel 1933 dal leggendario Ub Iwerks, tra i primi e più importanti collaboratori di Disney, e testata con successo nel bellissimo corto premiato con l'Oscar Il vecchio mulino (1937), si trattava di un tipo di telecamera che permetteva di sovrapporre vari piani di disegni l'uno sopra l'altro, per poter così creare inquadrature più complesse e ricche di dettagli e soprattutto rendere il senso della profondità degli ambienti in cui i personaggi si muovevano.
L'uso massiccio di questo strumento fu una delle armi segrete che resero questa pellicola un miracolo tecnico: lo dimostrano scene da antologia come quella in cui il cacciatore osserva da lontano un'inconsapevole Biancaneve che raccoglie i fiori, dove la figura del cacciatore, inserita come parte dello sfondo e pertanto immobile, assume così la funzione di un sinistro presagio alla rottura di quell'innocente, idilliaco equilibrio, cosa che avverrà di lì a pochi minuti.
Come non parlare poi della scena immediatamente successiva, che vede una terrorizzata Biancaneve scappare nel bosco, in un turbinio di immagini terribili che la mente spaventata della ragazza proiettano tutt'attorno a lei. Ma tutto questo dura poco, e presto, con l'attenuarsi delle sue emozioni, si attenua anche il terrore, e quel bosco che appariva tanto minaccioso si trasforma presto un rifugio sicuro e sereno, in cui la natura accoglie letteralmente la nostra eroina appianando le sue paure. Un vero capolavoro di tecnica e tensione, reso possibile dall'utilizzo della multiplane camera all'apice del suo potenziale. Da manuale di cinema.

Sono davvero un'infinità le minuzie tecniche da apprezzare. Una delle più interessanti riguarda il lavoro svolto dall'inchiostratrice Helen Ogger, che per dare colore alle guance della protagonista applicò a mano su ogni singolo fotogramma del trucco rosso utilizzando dei batuffoli di cotone posti in cima a delle matite. Un lavoro che richiese una perizia e un impiego di tempo tali che non venne mai più adoperato per i lavori futuri dello studio, anche perché Ogger lasciò quest'ultimo nel 1941, e nessun altro che vi lavorasse era in grado di svolgerlo. Pazzesco.

A rivederlo con occhi moderni, è interessante notare come questo film, il primo dei cosiddetti “classici Disney”, introducesse già tutti gli elementi che costituiranno la “formula” a cui lo studio verrà associato per i decenni a seguire: prima di tutto, il musical, con i personaggi che esprimono i loro sentimenti cantando. Qualcosa con cui tutti oggi
abbiamo familiarità in ambito animazione, e che all'epoca rappresentò per Disney l'apice delle possibilità creative del sonoro, con cui egli aveva cominciato a sperimentare fin dai tempi di Steamboat Willie, una decina di anni prima. Le canzoni, scritte da Frank Churchill e dal co-regista Larry Morey, sono parte irremovibile dell'immaginario collettivo, e accompagnano alcune delle sequenze più iconiche del film, come i sette nani che tornano dalla miniera cantando Hey-oh. Ma oltre alle canzoni, le musiche in generale, di Paul J. Smith e Leigh Harline, sono parte integrante dell'esperienza sensoriale dello spettatore, un elemento fondamentale ancora oggi considerato tra i più importanti. A sottolineare la sua iconicità, basti pensare che la colonna sonora di Biancaneve, tra le altre cose candidata agli Oscar, fu la prima in assoluto ad essere messa in vendita in America.

Dopo questi quattro anni di produzione, che definire intensi sarebbe riduttivo, toccava ora a Disney affrontare il banco di prova più difficile: quello del pubblico. Per via dei vorticosi costi e dell'enorme manodopera impiegata, il flop era dietro l'angolo, e avrebbe comportato indubbiamente il fallimento dell'intera azienda.

La leggendaria prima del film il 21 dicembre 1937 al sontuoso Carthay Circle Theatre di Los Angeles, tra i cinema più popolari dell'epoca, vide la sentita partecipazione personalità come Judy Garland, Charles Laughton e Marlene Dietrich. Una volta terminati quei maestosi 83 minuti, l'intero pubblicò reagì con una standing ovation. Walt ce l'aveva fatta.

Il film aveva conquistato tanto la critica quanto il pubblico, totalizzando circa 7 milioni di dollari di incassi alla sua prima uscita nei cinema, avvenuta in maniera capillare a partire dal gennaio 1938, e ancora di più guadagnerà con i continui ritorni in sala nei decenni successivi, fino al 1993. Fu il film sonoro di più grande successo all'epoca e, al netto dell'inflazione, il film d'animazione dal più alto incasso della storia ancora oggi.

La critica dell'epoca paragonò l'importanza di Biancaneve e i sette nani a quella di Nascita di una nazione, venne elogiato da un grande artista come Charlie Chaplin, mentre Sergei Eisenstein lo proclamò addirittura “il più grande film mai fatto”.

Ai premi Oscar del 1939 Disney fu premiato con un Oscar speciale come riconoscimento di questo grande traguardo. O meglio, sette piccoli Oscar e uno a grandezza normale, a imitazione degli otto protagonisti del film.

Questo inaspettato successo fu decisivo nel mettere in moto l'industria dell'animazione a livello mondiale, rendendola più simile a quella che conosciamo oggi: i fratelli Fleischer decisero finalmente di seguire la scia producendo il loro primo lungometraggio, I viaggi di Gulliver del 1939, distribuito dalla Paramount, che si rivelò un successo e spinse lo studio a produrre due anni dopo Hoppity va in città, secondo e ultimo lungometraggio dei Fleischer, che chiusero baracca e burattini a causa di un catastrofico risultato al botteghino, complice anche lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Nel frattempo, in Italia, Mussolini, appreso nel 1935 dell'idea di Disney, ordinò la fondazione della C.A.I.R. (Cartoni Animati Italiani Roma) con la quale tentò di battere gli americani sul tempo producendo quello che sarebbe dovuto essere il primo film d'animazione italiano, Le avventure di Pinocchio, mai completato a causa degli scarsi mezzi a disposizione e della generale disorganizzazione del progetto. Ironia della sorte, Walt Disney acquisì i diritti del romanzo di Collodi per realizzarne la sua versione nel 1940. Ma di questo vi parlerò in futuro...

E, a proposito di Italia, il film uscì alla fine del 1938 anche nel nostro territorio, colonie comprese, con un adattamento italiano profondamente diverso dal tono originale dei dialoghi inglesi. In linea con il gusto melodrammatico e solenne dell'Italia fascista, i dialoghisti italiani Vittorio Malpassuti e Alberto Simeoni si servirono di termini aulici e dialoghi in rima per conferire un'aura di liricità in più.

Tali scelte risultarono ben presto obsolete, e nel 1972, anche per volontà della Disney stessa, si realizzò un nuovo adattamento, curato dal veterano Roberto De Leonardis, e di conseguenza un nuovo doppiaggio, con Melina Martello a sostituire l'originale Rosetta Calavetta (colei che nel 1961 diede la voce a Crudelia De Mon in La carica dei 101) per la voce di Biancaneve.

Ma naturalmente la prova più ardua, ancora più di quella del pubblico, è quella del tempo. Come appare oggi il primo classico Disney, a distanza di esattamente 85 anni?

Può sembrare incredibile, ma questa semplice fiaba per ragazzi del 1937 risulta ancora attuale, e non ha perso un briciolo di smalto. Le emozioni base con cui essa gioca e che costituiscono la sua linfa vitale, sono quelle che ancora oggi ognuno di noi ha fin da bambino: chi di noi da piccolo non ha provato terrore nella già citata scena del bosco? Chi non ha provato sollievo in quella immediatamente successiva? Chi non si è terrorizzato alla scena della trasformazione della strega cattiva? Chi non ha pianto durante la scena del funerale, ancora oggi uno dei maggiori impatti emotivi mai visti in animazione?

E, infine, chi non ha provato un immenso senso di felicità e sollievo nel finale? Un finale idilliaco, canonico, che ad alcuni cinici e disillusi fruitori dei nostri tempi potrà risultare scontato e datato, ma che rimarrà in realtà per sempre universale. Del resto, lo scopo primario e primigenio di ogni essere umano non è forse quello di vivere “per sempre felici e contenti”?

Per questi e mille altri motivi, Biancaneve e i sette nani è un capolavoro senza tempo, una pietra miliare della storia del cinema quanto di quella dell'animazione, oltre che un pezzo d'infanzia di più di una generazione, da quella dei nostri nonni a quelle a venire.

Si chiude dunque la prima puntata di quella che sarà una monografia talmente lunga e impegnativa che non potrò fare a meno di alternarla con altre, che aggiornerò con la calma e la procrastinazione che contraddistinguono tutto quello che faccio. Dandovi appuntamento alla recensione di Pinocchio (se mai arriverà), vi ringrazio con sincero entusiasmo per essere passati su questi lidi. A presto!


Dati tecnici

  • Regia: David Hand (supervisore), Perce Pearce, William Cottrell, Larry Morey, Wilfred Jackson, Ben Sharpsteen
  • Anno: 1937
  • Paese di produzione: Stati Uniti d'America
  • Casa di produzione: Walt Disney Pictures
  • Musiche: Frank Churchill, Leigh Harline, Paul J. Smith