"La gente normalmente ignora ciò che è strano e oscuro."
Basterebbe questa semplice frase per riassumere l'intera poetica di un artista come Tim Burton. Una frase messa in bocca a una giovanissima Winona Ryder nei panni di un'annoiata e disillusa adolescente nel secondo lungometraggio del regista di Burbank. Secondo, sì, ma primo dei suoi sforzi cinematografici ad essere al 100% una sua creatura. Non nella sceneggiatura, di cui Burton si occuperà rarissimamente nel corso della sua carriera, ma nella forma, nella sostanza, nello spirito profondamente anarchico. L'opera in questione è Beetlejuice, ma prima di tuffarci a pesce nell'analisi del cinema di Tim Burton, è d'uopo una premessa storico-culturale.
Gli
anni '80 rappresentano il periodo culmine dell'edonismo della classe
medio-alta, la sfrenatezza del lusso permessa dall'ascesa di Ronald
Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher in Regno Unito,
sfrenatezza sotto la quale, come sempre, le classi operaie, i poveri,
gli emarginati, le minoranze, rimanevano schiacciati. Gli anni '80
sono stati il decennio del boom televisivo, di MTV, della
reaganomics,
della perestrojka,
ma
anche dell'AIDS, di Chernobyl, della fallita lotta alla droga, nonché
delle tensioni razziali mai sopite che porteranno a sanguinose
ripercussioni nel decennio successivo.
Una contraddizione di
questa portata non poteva che generare forti reazioni, che dal basso
fecero rimbombare l'eco delle nuove generazioni.
Nella musica,
già dalla fine degli anni '70 e soprattutto in Inghilterra, questo
spirito
anticonformista prese forma nel macromovimento post-punk,
nato dalle ceneri, o meglio, naturale proseguimento del punk rock
generazione 1977. Tra le svariate ed eterogenee ramificazioni del
post-punk, il goth rock fu forse la più riconosciuta a livello
mainstream:
prima che matite nere, giacche di pelle e piercing diventino una
moda, privata in quanto tale di qualsiasi impronta politico-sociale,
realtà come Bauhaus, The Cure e Joy Division traducono in musica
influenze e suggestioni all'opposto della facciata solare e sicura
esposta dai media. Alla bianca frenesia pop fatta di divertimento e
spensieratezza, i goth rispondevano con la malinconia più nera di
canzoni lente e in accordi minori, alla maniacale ossessione
dell'apparire contrapponevano un'immagine anticonvenzionale e spesso
androgina, al fervente conservatorismo si scagliavano con il più
sincero rigurgito anti-autoritario.
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Tim Burton |
Mentre,
per quanto riguarda il cinema, pochi autori incarnano questa verve
anticonformista, attraverso uno sguardo allo stesso tempo
causticamente ironico e inguaribilmente romantico, come Timothy
Walter Burton. Nato nel 1958 e avviatosi giovanissimo verso
l'animazione, Tim non trova all'interno dello Studio Disney presso
cui viene assunto la dimensione che gli appartiene. Lo testimoniano
cortometraggi come Vincent,
1982, distribuito dalla Disney ma che ha più in comune con Mary
Shelley e
con l'espressionismo tedesco che con Walt e Topolino. O
Frankenweenie,
realizzato stavolta in live action ed ennesima riproposizione in
salsa familiare della storia di Frankenstein.
L'abbandono della Casa del Topo fu inevitabile, ma chiusa questa
porta, il proverbiale portone non si fece attendere: la Warner Bros.
assunse Burton per la regia di Pee-Wee's
Big Adventure,
primo film dedicato al personaggio televisivo di Pee-Wee Herman, che
fece in quegli anni di Paul Reubens una star della programmazione per
bambini. Questo
primo lavoro, per quanto su commissione, conteneva già piccole
anticipazioni dello stile che diventerà tipico del regista, e segnò
inoltre la prima collaborazione di quest'ultimo con Danny Elfman,
compositore di colonne sonore, nonché leader, non a caso, della
formazione new-wave degli Oingo Boingo. Un sodalizio che si rivelerà
subito particolarmente felice, destinato a durare fino ad oggi e a
contribuire sostanziosamente al successo di quasi tutti i lavori del
regista.
Naturalmente, non fa eccezione Beetlejuice, come accennato il primo lungometraggio che porta al 100% la firma di Tim Burton. I temi più caratteristici delle sue opere ci sono tutti: la borghesia che nasconde la sua mediocrità spendendo i suoi soldi in inutili status symbol, l'adolescente o la bambina pura, per cui nichilismo e isolamento rappresentano la miglior difesa contro la vuotezza del mondo adulto, la morte e il soprannaturale come normali prolungamenti della vita quotidiana, altrettanto mondani ma forse ben più divertenti.
Beetlejuice
è una commedia che ha il coraggio di uccidere i due protagonisti,
simpatici e con i volti di due attori estremamente popolari
all'epoca, nei primi dieci minuti, e rimane costantemente sulla
soglia del disturbante e dell'orrorifico fino alla fine. Qualcosa
che, in un film per famiglie, non appariva troppo strano al pubblico
dell'epoca, ma che oggi scatenerebbe orde di genitori indignati, come
se i bambini non volessero essere messi alla prova e sentirsi un po'
adulti. Burton, insieme a molti cineasti della sua generazione, sa (o
sapeva) perfettamente come dosare il black
humour
e, soprattutto, sapeva usarlo in modo creativo, satirico e tutt'altro
che banale. I personaggi di questo film muoiono, evocano demoni,
vengono posseduti, eppure anche un bambino intuirebbe dove si insinua
il vero orrore in questa folle vicenda.
La famiglia Deetz, o più
che altro la sua sgradevole matriarca, incarna quello spirito
borghese votato alla vacua apparenza, alla superficialità di chi è
disposto a profanare la purezza di qualcosa solo perché ha i soldi
per farlo. Un tipo di status sociale che Burton, all'epoca un
trentenne amante di Edgar Allan Poe fuggito dall'iperpositività
disneyana, vede con disgusto e ridicolizza senza pietà. Non a caso,
i personaggi che più il film ha in simpatia, i defunti coniugi
Maitland, vivono e muoiono isolati, nel loro nido d'amore costruito e
accudito affettuosamente, per poi lottare con tutte le loro nuove
risorse per non vederlo stravolto. E non è un caso che sia proprio
la giovane Lydia Deetz a scoprire e fare amicizia con gli spiriti dei
due protagonisti, come se persino la morte risultasse agli occhi suoi
e della sua generazione ben più invitante dello stile di vita dei
propri genitori.
Micheal Keaton nel ruolo di Beetlejuice, in tutto il suo splendore |
Burton, stavolta libero di sbizzarrirsi, ne approfitta per sfoggiare una forma non ancora matura (per quello basterà attendere un paio d'anni), ma che irrompe in tutta la sua creatività nella gestione degli effetti speciali, che in una commedia fanta-horror sono un elemento fondamentale: gli effetti sono fatti di plastica, gomma, cartone, plastilina, praticamente qualsiasi materiale immaginabile, il trucco è straordinario e ha ispirato generazioni di maschere di Halloween, e le scenografie, soprattutto quelle che vediamo nell'aldilà, omaggiano tanto il surrealismo quanto l'espressionismo di pellicole come Il gabinetto del Dottor Caligari, chiaramente impresse nel DNA artistico del regista. Il tutto è ancora più notevole se ci si ricorda che questo film è uscito nel 1988, e soprattutto che la CGI è completamente assente, lasciando campo libero alla fantasia degli straordinari artigiani effettisti dell'epoca.
Non meno importante, con questa sua opera seconda Burton ha il merito di regalare all'immaginario collettivo il primo dei suoi tanti, memorabili personaggi: Beetlejuice, appunto (alternativamente Betelgeuse), la vera star del film, spettro disgustoso e approfittatore senza un briciolo di margine di redenzione, eppure icona istantanea della cultura pop anni '80. Sotto quel trucco diventato immediatamente iconico si nasconde un Michael Keaton in stato di grazia, che da eccellente caratterista si sarebbe trasformato, è proprio il caso di dirlo, in star mondiale grazie ad un altro certo ruolo in un altro certo film che avrebbe fatto faville di lì a un anno, guarda caso sempre farina del sacco del buon Tim.
Nella stagione cinematografica 1988-89 Beetlejuice sbancò al botteghino, e non è difficile capire il motivo. Tim Burton confeziona una delle commedie americane più interessanti, creative e innovative del periodo, la cui influenza è facilmente individuabile ancora oggi. La commedia nera/soprannaturale, pensate al bellissimo La morte ti fa bella di Zemeckis, non sarebbe quella che oggi conosciamo senza serpentoni assassini, vermi delle sabbie su sfondi in green screen, possessioni demoniache al ritmo di calypso, gamberetti animati con le dita, poltergeist che vogliono impossessarsi di ragazzine minorenni e teste rimpicciolite. E il cinema americano, di commedia e non, senza l'apporto di uno di uno degli autori più originali degli ultimi quarant'anni ci apparirebbe oggi decisamente più povero e meno fantasioso.
- Regia: Tim Burton
- Anno: 1988
- Paese di produzione: Stati Uniti d'America
- Casa di produzione: Geffen Company, Warner Bros.
- Fotografia: Thomas E. Ackerman
- Musiche: Danny Elfman