giovedì 15 dicembre 2022

FRESCO DI CELLULOIDE: PINOCCHIO, DI GUILLERMO DEL TORO

Amici e amiche, benvenuti ad un nuovo appuntamento con fresco di celluloide, la rubrica in cui vi parlo brevemente di titoli appena usciti. Il film di oggi è uno di quelli prodotti da Netflix che fortunatamente sono riuscito a vedere nel modo che di merita: in sala.
Sto parlando del Pinocchio di Guillermo Del Toro, ennesima trasposizione del romanzo di Collodi. 

Inutile citare le innumerevoli versioni di questo capolavoro dell'infanzia che abbiamo visto in passato, che variano tra il notevole (il film Disney del 1940) e l'imbarazzante (il remake della Disney del suo stesso classico affidato al povero Robert Zemeckis). Basta solo dire che quest'ultima incarnazione riesce ad avere un'identità tutta sua nonostante l'enorme, ingombrante bagaglio che si porta dietro.
I pregi di questa versione deltoriana sono molti ed evidenti. Innanzitutto quello che più balza all'occhio, l'aspetto tecnico: il film è realizzato con la tecnica della clay motion, l'animazione a passo uno con la plastilina, e il risultato è notevole. Del Toro, alla sua prima esperienza con l'animazione, si affida alla leggendaria Jim Henson Productions, e se questo nome non vi dice nulla sappiate solo che si tratta della compagnia dietro a personaggi come i Muppets e produzioni come Labyrinth e Dark Crystal. Non stupisce, alla luce di ciò, che i modelli, le animazioni e i set siano di un livello altissimo, e contribuiscono a stabilire un tono molto chiaro e personale fin dai primi minuti. 

La sceneggiatura è semplice ma non banale, e si discosta più volte dal soggetto originale di Collodi, stravolgendone forse in parte lo spirito, ma aggiungendo nuove implicazioni: l'aspetto forse più interessante del film è il fatto di essere ambientato nell'Italia del periodo fascista, e ciò serve da spunto per una palese critica nei confronti del regime, a tratti satirica, a tratti drammatica. Una componente politica che sfigura se paragonata a quella simile vista in altre opere dell'autore come Il labirinto del fauno, ma che in un film pensato principalmente per l'infanzia come questo volge adeguatamente al suo scopo educativo. 
L'unica cosa che non mi ha convinto sono le canzoni, scritte, come la colonna sonora in generale, dall'ottimo Alexandre Desplat. Non sono certamente brutte, ma al di là della prima, diegetica e giustificata narrativamente, la loro inclusione suona a mio parere piuttosto forzata. Personalmente ne avrei fatto a meno.

Pinocchio di Guillermo Del Toro è comunque un ottimo prodotto da far vedere a un bambino, non banale, con momenti a tratti profondi e una buona dose di cupezza che non dovrebbe mai mancare in una trasposizione come si deve del racconto di Collodi. Personalmente, continuerò a preferire la versione disneyana del 1940, ma è una semplice questione di gusto personale.

Vi consiglio pertanto di recuperarvi quest'ultima fatica del buon Del Toro, sperando che riesca presto a realzizare la sua trasposizione delle Montagne della follia di Lovecraft. Nel frattempo, vi auguro buone feste e vi do appuntamento con la lista dei migliori film dell'anno!

martedì 1 novembre 2022

SPECIALE HALLOWEEN: HALLOWEEN - THE BEGINNING, DI ROB ZOMBIE


Amici e amiche... BUONA FESTA DI OGNISSANTI!

Ah già, nessuno di voi festeggia più Ognissanti, ormai si parla solo di Halloween. Vorrà dire che farò esattamente quello che ho fatto l'anno scorso, e andando contro alla mia naturale predisposizione per l'andare contro, anche quest'anno, come tutti gli altri recensori, tratterò un film horror.
I miei lettori più affezionati (tutti e 4) sicuramente si ricorderanno che il 31 ottobre dell'anno scorso postai su questo blog la recensione di un autentico cult, quell'Halloween con cui John Carpenter lanciò definitivamente il filone dello slasher seguendo la lezione di illustri predecessori (non ultimo il nostro Mario Bava con capostipiti come Reazione a catena). Ebbene, quest'oggi per celebrare la notte delle streghe con voi ho deciso di non andare troppo lontano. Nel 2007 il cantante metal prestato alla regia Rob Zombie affronta la più grande sfida della sua carriera: quella di scrivere e dirigere un remake del capolavoro carpenteriano. Di remake di classici dell'horror ne avevo già parlato non molto tempo fa con la mia recensione del Nosferatu di Herzog, e già allora avevo sviscerato tutti i problemi e le difficoltà che implica una pratica del genere. Ma se sto parlando di questo film in questa sede, va da sé che ci troviamo di fronte anche in questo caso a un'operazione felicemente riuscita. Quando la Dimension Films commissionò al cantante dei White Zombie, che in vita sua aveva diretto solo due opere, tra l'altro accolte non troppo positivamente dalla critica, qualcosa di delicato come un remake di Halloween, fece una mossa azzardata, e le perplessità da parte del pubblico più appassionato non mancarono.

Rob Zombie

Eppure, Halloween – The Beginning, se vogliamo usare la denominazione italiana, funziona perfettamente non solo come sincero tributo all'originale, ma come opera a sé. Il grande Rob non si limita a ricreare passivamente gli elementi salienti più iconici del film di Carpenter, ma piuttosto (concedetemi di prendere in prestito un termine dai miei studi di traduzione) li addomestica, lì filtra attraverso la lente del suo stile, inconfondibile e ben stabilito fin dal suo esordio al cinema, quella viscerale dichiarazione d'intenti La casa dei 1000 corpi, e ancora prima dalla sua carriera discografica, disseminata di citazioni a B-movie fra i solchi di quei fantastici dischi alternative metal.

Questa riedizione della sanguinolenta storia di Michael Myers non è un reboot, non è un sequel ed è solo a malapena un remake. È quello che sarebbe stato se un grande capolavoro della storia del cinema fosse uscito una trentina di anni dopo e fosse stato dato in mano a un regista con influenze diverse e più moderne. Lo stile di Rob Zombie rimane perfettamente intatto, e la tecnica si è decisamente affinata rispetto ai suoi lavori precedenti: regia, montaggio e fotografia sono impeccabili, e anche quando si rifanno espressamente all'originale, rievocato più di una volta dalle musiche inconfondibili (rimaneggiate da Tyler Manes) e dalle splendide inquadrature autunnali che ricordano da vicino quelle girate da Carpenter nel suo periodo di grazia, riescono sempre a conferire un'atmosfera che ci ricorda qualcosa che amiamo, ma non la imita.

Michael adulto e bambino.

Il rischio più grosso, però, era quello che si presentava dal punto di vista della narrazione: Zombie, sceneggiatore unico del film, decide di raccontare l'irraccontabile, quello che Carpenter aveva lasciato al non detto, ovvero le origini di Michael Myers. Non più dunque una fantomatica entità senza volto e personalità, non più “l'ombra della strega”, ma un ragazzo con un passato in una famiglia disagiata, con madre spogliarellista e padre alcolizzato e violento, specchi di un'America squallida e intollerate che, si intuisce, l'autore non ha mai potuto sopportare. L'introspezione di Myers attraverso la sua traumatizzante infanzia è toccante e disturbante allo stesso tempo (merito anche dell'ottimo attore bambino Daeg Faerch), e se toglie forse un po' di sintomatico fascino alla figura di Michael Myers l'assassino, getta nuova luce su Michael Myers la persona, di cui l'unico spiraglio intravedibile nell'originale era quel volto distrutto del piccolo Michael subito dopo l'iconico piano sequenza iniziale.

Anche il nuovo cast rende pienamente giustizia a questi personaggi, e sebbene a Scout Taylor-Compton manchi forse il talento di una Jamie Lee Curtis, e Malcolm McDowell non brilli quanto il grande Donald Pleasence nel ruolo del dottor Loomis, riescono tutti a risultare molto convincenti nei rispettivi ruoli, e a qualsiasi amante del genere non potranno che fare piacere i cameo di volti familiari come Brad Dourif e Dnny Trejo. Il gigantesco Tyler Mane, ex wrestler nonché già Sabretooth nel primo X-Men di Bryan Singer, veste i panni del Michael adulto, e la sua fisicità non ha nulla da invidiare a quella del mitico Nick Castle, l'originale uomo dietro la maschera.

Scout Taylor-Compton e Malcolm McDowell
nei ruoli di Laurie Strode e Sam Loomis

Non posso poi non apprezzare la scelta delle musiche. Come già accennato, Tyler Bates rimaneggia gli indimenticabili temi scritti dallo stesso Carpenter, ma la musica diegetica è altrettanto splendida, e fra Kiss, Blue Oyster Cult, Alice Cooper e Nazareth rende appieno quell'atmosfera lurida e patinata allo stesso tempo tipicamente anni '70 e tanto cara al regista (e al sottoscritto... ogni volta che sento partire God of Thunder le mie orecchie non possono che andare in estasi).

Con questo remake incredibilmente riuscito Rob Zombie si porta a casa uno dei suoi film migliori, a cui darà un sequel due anni dopo, nel 2009... e di quello magari parleremo in questi lidi in futuro. Per adesso, concludo col dire che se Halloween di John Carpenter del 1978 è un capolavoro e un must irrinunciabile ogni ottobre, Halloween di Rob Zombie ne è una perfetta rielaborazione, un sentito omaggio dall'allievo al maestro.
E se lo stesso Carpenter gli ha dato la sua benedizione, con quel “Vai, Rob, e fa' il tuo film!”, chi sono io per contraddire il maestro?

Auguri a tutti!


Dati tecnici

Regia: Rob Zombie

Anno: 2007

Paese di produzione: Stati Uniti d'America

Casa di produzione: Dimesion Films, Weinstein Company

Fotografia: Phil Parmet

Musiche: Tyler Bates

sabato 15 ottobre 2022

FRESCO DI CELLULOIDE: ANNA FRANK E IL DIARIO SEGRETO, DI ARI FOLMAN

Salve, amici e amiche! Rieccomi con una nuova puntata di Fresco di celluliode, la rubrica in cui vi parlo di film appena usciti in sala. 

Avete presente quando a scuola, ogni 27 gennaio, vi trascinavano al cinema a sorbirvi qualche noiosissimo film sulla shoah che sembrava non finire mai? O, peggio ancora, vi costringevano a vederli in classe, dove non avevate nemmeno la possibilità di fare un po' di sano casino facendo battute col vostro vicino di posto? Ebbene, Anna Frank e il diario segreto non è quel tipo di film.

Ari Folman, regista israeliano già autore del pluripremiato Valzer con Bashir, affronta per la prima volta il tema del genocidio ebraico, e lo fa senza retorica e senza pretese di crudezza o patetismo: quello che lo spettatore si trova davanti è un film d'animazione dall'estetica fine e alla portata di tutti, meno sperimentale del precedente exploit animato di Folman proprio per ampliarne il raggio d'azione. Il regista coglie perfettamente l'importanza di far interfacciare più gente possibile a un tema come quello dell'olocausto, e lo fa attraverso una storia di cui chiunque abbia frequentato almeno le elementari è perfettamente a conoscenza, quella di Anna Frank.

Folman svolge un ottimo lavoro nel delineare la persona dietro quel nome, descrivendola per quello che era, senza necessità romanzare o mistificare. La carta vincente è quella di farlo attraverso il personaggio di Kitty, l'amica immaginaria di Anna a cui questa indirizza il suo diario: Kitty viene umanizzata e diventa un personaggio in tutto e per tutto, mentre quel famoso diario di cui tutti abbiamo sentito parlare, ma che la maggior parte di noi non ha mai letto (me compreso), non è che il punto di partenza per un discorso che più che una lezione di storia è una lezione di vita.

Folman ci sbatte in faccia la tragicità della storia di Anna e della sua famiglia nel modo più efficace possibile, cioè portandola a confronto con le tante storie tristemente moderne vissute da profughi, immigrati, clandestini, e di cui, esattamente come per i campi di concentramento negli anni '40,in pochi sembrano interessarsi. Andiamo avanti con le nostre vite a occhi chiusi e orecchie tappate, non accorgendoci, o fingendo di non accorgerci, di quello che avviene sotto i nostri occhi, ogni giorno.

Ed ecco che il nome di Anna Frank colpisce finalmente per quello che dovrebbe essere. Non qualcosa di vuoto e puramente nominale, ma come un monito, non tanto contro qualsiasi forma di fascimo in sé (il quale comunque, è il caso di ricordarlo, è in netta ascesa ovunque mentre sto scrivendo), ma contro ogni tipo di ingiustizia, contro ogni azione leggittimata da un governo che calpesta i diritti di esseri umani come lo siamo noi. Come lo era Anna, come lo era la sua famiglia, come lo erano 6 milioni di ebrei sterminati durante la guerra, come lo sono tutte le vittime di crimini razziali, come lo sono tutti coloro che non hanno uno Stato a proteggerli.

Per quanto mi riguarda, Anna Frank e il diario segreto è davvero un film da proiettare nelle scuole, che non annoia, non fa moralismo spiccolo e si impone, a mio parere, come uno dei migliori film d'animazione dell'anno.

giovedì 22 settembre 2022

FRESCO DI CELLULOIDE: CRIMES OF THE FUTURE, IL GRANDE RITORNO DI DAVID CRONENBERG



Signore e signori, non sono morto.

Dopo la patentesi estiva, per la quale spero non mi biasmiate, ritorna la rubrica Fresco di celluloide. E quale modo migliore per ritornare se non con uno dei film che io e tutti i veri amanti del cinema attendevano di più quest'anno? Crimes of the Future segna il ritorno sul grande schermo del maestro David Cronenberg dopo otto anni di assenza. Quasi un decennio dopo il meraviglioso Maps to the Stars, il re indiscusso del body horror torna sui suoi passi, e ci regala una perla rara reminescente dei suoi primi lavori (il titolo, non a caso, è lo stesso di una delle sue prime pellicole, della quale però non costituisce un remake). Descrivere un'opera come Crimes of the Future è impresa ardua, com'è arduo rendere a parole la maggior parte della filmografia cronenberghiana. Forse il modo migliore per parlarne senza rivelare troppo è proprio in relazione ai lavori che l'hanno preceduta. Cronenberg torna al cinema nel modo migliore, cioè tornando contemporaneamente allo stravolgimento del corpo, più dichiarazione filosofico-sociale che mero mezzo per disgustare e inquietare. I tempi sono dilatati, l'azione è ridotta al minimo, e a trasmettere la poetica cara all'autore canadese sono, come sempre, la straordinaria costruzione delle immagini, dove regia e scenografie si compenetrano e si fanno l'una completamento dell'altra, e le musiche, ennesimo felice risultato della collaborazione tra il maestro e il grande compositore Howard Shore, presente fin dai tempi del magnifico The Brood. Le straordinarie interpretazioni di Viggo Mortensen e Léa Seydoux fanno il resto, e persino un'attrice come Kristen Stewart, che ho sempre trovato insopportabile persino in Café Society di Woody Allen, riesce a fare un buon lavoro. Per concludere, vi ripeto che come al solito le parole con Cronenberg servono a poco, e il modo migliore per assaporare la sua ultima fatica è quella di invsdere le sale (le poche in cui il film è stato distribuito...) e goderne appieno. Vi ritroverete tutti gli stilemi e le suggestioni tipiche di uno dei più grandi maestri dell'horror viventi. A presto!

venerdì 8 luglio 2022

NOSFERATU, PRINCIPE DELLA NOTTE, DI WERNER HERZOG


Fare un remake è sempre un'arma a doppio taglio. Per loro stessa natura, i remake rappresentano in quasi ogni caso una grande contraddizione, ponendo il regista nella scomoda posizione di dover scegliere se allontanarsi dall'opera originale, rischiando di renderla irriconoscibile, o attenersene troppo, vanificando l'intento stesso dell'operazione.

E finché si tratta di dare una seconda possibilità a vecchi tentativi non completamente riusciti, in cui è comunque possibile rintracciare del potenziale su cui costruire, può avere senso riprenderli in mano e tornare a lavorarci sopra, anche dopo tanto tempo (penso a La fabbrica di cioccolato, di cui, lo dico rischiando di far infuriare qualcuno, preferisco il remake di Tim Burton). I problemi arrivano quando si mette mano a film che sono già di per sé opere di ottima fattura, se non addirittura capolavori che hanno forgiato la storia del cinema.

È esattamente il caso di Nosferatu, principe della notte, remake di Werner Herzog della pietra miliare espressionista del 1922 di Friedrich Wilhelm Murnau Nosferatu il vampiro.

L'opera di Murnau, liberamente tratta dal Dracula di Bram Stoker, ha un'importanza troppo enorme per essere riassunta e banalizzata in due righe, ragion per cui eviterò di dilungarmi a riguardo e mi limiterò a consigliare a chiunque non l'abbia già fatto di correre a guardarla al più presto. Basti sapere che Herzog, tra i registi più interessanti della nuova corrente cinematografica tedesca sviluppatasi a partire dagli anni '60, considera l'originale Nosferatu il miglior film tedesco di sempre, e chi siamo noi per contraddirlo? Il suo remake è infatti un tributo, un atto d'amore non verso un singolo film, ma verso un intero movimento, l'espressionismo tedesco, che alla settima arte ha dato molto più di quanto lo spettatore medio possa intuire. Gli innumerevoli spunti tematici e stilistici di pellicole come questa e altre di Murnau, di Fritz Lang, di Robert Wiene, di Paul Wegener, si sono protratte ininterrottamente nel corso dell'ultimo secolo, andando a influenzare tutto e tutti: sono evidenti i richiami espressionisti nei film dei primi veri autori horror americani, nati in seno alla Universal (Whale, Browning...), nelle poesie moderne di gente come Tim Burton o Guillermo del Toro, passando addirittura per certe commedie (mi viene in mente Woody Allen con il suo Ombre e nebbia).

Werner Herzog

E persino all'interno del semplice e diretto nuovo cinema tedesco, i cui maggiori esponenti si ispiravano alla nouvelle vague francese e al neorealismo italiano, gli echi dei maestri del passato non poterono che farsi sentire, come dimostra l'omaggio che un giovane autore come l'Herzog degli anni '70 ha voluto riservare a quello che è probabilmente, insieme a Metropolis di Lang, il testamento più importante lasciato dall'espressionismo.

Il regista bavarese parte dal riappropriarsi della fonte letteraria originale, che Murnau tentò di nascondere per evitare ripercussioni sui diritti d'autore, cambiando i nomi dei personaggi e trasportando l'azione dall'Inghilterra alla Germania. La rappresaglia legale da parte degli eredi di Bram Stoker che rischiò di condannare il film di Murnau era ormai un pericolo scongiurato dal tempo, visto che negli anni '70 i diritti sul romanzo erano già diventati di dominio pubblico. Adesso, dunque, il conte Orlok è libero di essere chiamato Dracula e Hutton riprende la sua identità di Jonathan Harker. Mentre per qualche strano motivo i personaggi di Mina e Lucy vengono scambiati, ed è quest'ultima a svolgere il ruolo di maggior rilievo, mentre la seconda viene relegata quasi a una comparsa. L'elemento principale mantenuto nell'aggiornamento herzoghiano è naturalmente l'ambientazione tedesca, essenziale per l'affermazione dell'orgoglio teutonico che rappresenta buona parte della motivazione del regista, che costruisce con questo remake un ponte ideale tra la vecchia Germania cinematografica, quella pre-nazista, e quella nuova, ormai da tempo rinata eppure dilaniata dagli esiti post-bellici e dai conseguenti giochi di potere dettati dalle rigide logiche della guerra fredda.

I temi figurativamente riscontrabili nel Nosferatu del '22 possono infatti essere considerati ancora attuali 50 anni dopo, per non dire eterni. L'arrivo in Germania di un elemento misterioso, crudele, seminatore di morte e panico può ed è stato interpretato in tantissimi modi. Negli anni è stato visto tanto come un'allegoria dell'ascesa degli ideali di estrema destra fra le spire della Repubblica di Weimar quanto come un'antisemitica analogia con la diffusione sempre maggiore delle genti ebraiche immigrate dall'est. Ma ciò che rende in particolare quello della peste un elemento rilevante non solo nel tessuto narrativo delle due opere, ma anche in quanto forte simbologia, è la sua facoltà di applicarsi, a distanza di decenni, alla situazione di un Paese fortemente cambiato dopo la guerra, esattamente come era cambiato quello stesso Paese nei primi anni '20, all'indomani della prima guerra mondiale. La paura dell'ignoto, il timore per il futuro, il terrore nei confronti di un mondo esterno in continuo conflitto sono rappresentati dal personaggio del vampiro Dracula, che, nelle sue “vesti” di Nosferatu, irrompe nel villaggio come una sinistra, subdola forza estranea.

Klaus Kinski nei panni di Nosferatu

Questa naturale trasfusione di temi e sensazioni è messa in atto con grande gusto estetico da Herzog, che, sfruttando i mezzi che il tempo gli ha messo a disposizione (il colore e il sonoro), impreziosisce l'esperienza visiva con paesaggi splendidi, quasi dei personaggi veri e propri, catturati tra l'Olanda e la Cecoslovacchia, visto che il regista non poté girare dove girò Murnau, ovvero a Wismar.
Nonostante ciò, la pellicola mantiene per tutto il tempo un'aura di inquietante realismo, pur tenendo sempre un piede nel grottesco. Esemplare, in questo senso, la scena in cui Lucy vaga smarrita per la piazza del paese afflitto dalla peste, incontrando gente danzante, animali da pascolo lasciati liberi per le strade e i commensali di un'emblematica “ultima cena” nel mezzo della piazza, seduti a mangiare e degustare vino mentre i ratti li circondano, con le tombe delle vittime alle loro spalle. Un'immagine a dir poco grottesca, ma altrettanto poetica, che richiama un po' Leonardo Da Vinci, un po' il teatro dell'assurdo.

Le musiche sono curate dai Popul Vuh, gruppo della corrente Krautrock fondato da Florian Ficke già responsabile di altre colonne sonore per film di Herzog, come Aguirre, furore di Dio e, in seguito, Fitzcarraldo. Le atmosfere new age e psichedeliche della band, che a tratti adattano classici della musica colta, si sposano perfettamente con le immagini, amplificando la possenza e il mistero dei paesaggi dell'est Europa che il protagonista si trova a vagare, di una bellezza intimidatoria dal sapore quasi lovecraftiano.

E a proposito del protagonista, il cast è perfettamente azzeccato, e svolge un ottimo lavoro

nel trasmettere la drammaticità della vicenda. Ma, senza nulla togliere a interpreti del calibro di Bruno Ganz (Harker) e Isabelle Adjani (Lucy), a spiccare su tutti è ovviamente Klaus Kinski: sotto la cupa maschera, letterale e figurata, di Nosferatu, Kinski, alla sua terza collaborazione con l'amico Herzog, tira fuori una delle interpretazioni migliori della storia dell'horror, che non sfigura affatto di fianco a quella ancora più leggendaria del fantomatico Max Schreck, carismatico interprete del Nosferatu originale. Il pesante e complesso trucco applicato sul suo volto, per quanto eccezionale, fa solo una parte del lavoro, e Kinski, esattamente come Schreck, è talmente intenso nella sua recitazione da sembrare realmente una creatura ultraterrena.

Con il suo Nosferatu Herzog impartisce una perfetta lezione su come si dovrebbe realizzare un remake, prendendo spunto dalla fonte di riferimento, adattandola alla propria sensibilità e dimostrando in tal modo l'attualità di un'opera immortale della cinematografia tutta, di genere e non, europea e non, di nicchia e non.
E infine, attendendo con curiosità la versione di Robert Eggers, a mio parere forse l'autore contemporaneo che più si presta a un secondo remake di questo film, invito tutti gli amanti del cinema che non si sono mai avvicinati a Nosferatu, che siano neofiti o appassionati di lunga data, a godere appieno di queste due perle, l'una remake dell'altra eppure, caso più unico che raro, entrambe dei capolavori indiscussi.


Dati tecnici

Regia: Werner Herzog

Anno: 1979

Paese di produzione: Germania Ovest, Francia

Casa di produzione: Werner Herzog Filmproduktion, Gaumont

Fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein

Musiche: Popul Vuh

lunedì 27 giugno 2022

FRESCO DI CELLULOIDE: LIGHTYEAR - LA VERA STORIA DI BUZZ


Ritorna la rubrica Fresco di celluloide!

Oggi non potevo che parlare dell'ultimo film Pixar, uscito nelle sale da un paio di settimane.
Togliamocelo subito dai piedi: come recita la scritta iniziale, Lightyear (la "vera" storia di Buzz) è il film che Andy vide nel 1995 e su cui fu basato il giocattolo che vediamo in Toy Story.
E se pensate che questa premessa sia solo una scusa forzata per spremere un altro po' un franchise che ha da tempo esaurito il suo potenziale, non vi sbagliate.

Ma almeno, a differenza dell'inutile e a tratti imbarazzante Toy Story 4 (che non è mai esistito, ricordiamolo), l'esordiente regista e sceneggiatore Angus MacLane, libero di operare al di fuori della stringente gabbia del sequel canonico, riesce a divertire con una piccola storia di fantascienza che mischia suggestioni da 2001 e Interstellar con un'innocente aura di film per famiglie sicuro e tranquillo, con la tipica morale sul gioco di squadra, le tipiche spalle comiche e una minaccia che è tutt'altro che quello che sembra, con una rivelazione che, a detta tutta, rischia di sollevare più domande che risposte, non solo per il pubblico giovane.

Per quanto riguarda l'edizione italiana, il doppiaggio è tutto sommato competente, e una volta superata la diffidenza che potrebbe generare il trailer l'interpretazione di Alberto Malanchino nel ruolo del protagonista risulta sicuramente azzardata, ma a mio parere vincente. Soprassederò sulla palese non professionalità di alcuni doppiatori (o presunti tali) in ruoli terziari, perché, per quanto distraggano, hanno veramente troppe poche battute per ledere all'esperienza del film.

Film che tutto sommato è una divertente parentesi adatta ad intrattenere per un'ora e quaranta e buona a poco altro se non a fornire una visione diversa e più seriosa di un personaggio di cui non ci sembra di aver imparato di più a visione compiuta.

Quest'ultima uscita sancisce finalmente il ritorno in sala della Pixar, dopo essere stata relegata per due volte di fila su Disney+, il quale sta sempre più rivelando la sua natura di malvagio strumento multinazionale quale è. Purtroppo, però, Lightyear non sta attualmente andando bene al botteghino, e questo potrebbe forse rivelarsi una spia d'allarme in casa Disney, che spero torni a puntare su idee più originali e sperimentali, come ha fatto spesso in più punti della sua storia, e come siamo stati abituati dallo studio di Pete Docter e soci.

lunedì 20 giugno 2022

MONOGRAFIA DISNEY EP. 1 - BIANCANEVE E I SETTE NANI

La prima cosa che viene in mente quando si sente la parola “animazione” è senza dubbio la Disney. Certo, c'è chi preferisce altri tipi di animazione, c'è persino chi odia la Disney, ma nemmeno i detrattori più agguerriti possono negare l'importanza che questo studio, e il suo fondatore in particolare, hanno avuto per lo sviluppo di questa arte. Un'arte nata col cinema stesso, a fine '800, con i lavori di pionieri come Émile Cohl e Windsor McKay, i cui semi si possono rintracciare in realtà addirittura secoli prima, con l'invenzione della lanterna magica.

Fantasmagorie, cortometraggio di Cohl del 1908, è considerato il primo vero cartone animato della storia, mentre nel 1917 l'italo-argentino Quirino Cristiani realizzò El Apóstol, il primo lungometraggio d'animazione, realizzato con la tecnica della cut-out animation e andato purtroppo perduto. Sempre in cut-out sono le opere di Lotte Reiniger, animatrice tedesca che, con Achmed, principe fantastico, 1926, realizza il lungometraggio animato più antico giunto fino a noi.

Tutte opere fondamentali per la storia del cinema in generale, ma la prima vera grande svolta nella storia di questa tecnica si ha alcuni anni dopo, nel 1937, e si deve proprio a Walt Disney.

Questo è il primo appuntamento con quella che spero di trasformare in una serie, qui sul blog.

Una serie in cui recensisco, uno dopo l'altro, ogni classico Disney, dalle origini fino a oggi. Tuttavia, considerando la mia scarsa abilità nell'essere costante in qualsiasi cosa, specialmente questo blog (l'ultimo post risale a un mese fa, ops), non mi prefiggerò alcuna frequenza o deadline specifica per la pubblicazione di queste recensioni, prendendomi ogni volta il tempo per scrivere nel miglior modo che posso. Questa stessa recensione mi ha preso circa due mesi di lavoro, e in futuro vorrei restare libero di parlare anche di altri film, e non solo (ho già in cantiere qualche progetto...).

Detto questo, cominciamo, com'è d'uopo, dall'inizio di tutto.

Walt Disney nel trailer di Biancaneve

Prima che il suo nome diventasse un marchio sinonimo di capitalismo, Walter Elias Disney era un semplice ragazzo del midwest, che, dopo aver svolto decine di lavori diversi e dopo innumerevoli e ammirevoli tentativi e fallimenti, era riuscito a centrare il cuore degli spettatori con i suoi cortometraggi, realizzati insieme all'amico e infaticabile collaboratore Ub Iwerks. Un'impresa già di per sé non da poco, considerando che tutto ciò, con la creazione di Topolino e il varo delle Silly Simphonies, avviene a cavallo fra gli anni '20 e '30, il periodo considerato la golden age dell'animazione, in cui la concorrenza era variegata e spietatissima.

Walt, come tutti noi, era un uomo dai mille difetti, e su di lui se ne sono dette di cotte e di crude, ma se c'è una cosa a cui di certo si può credere è questa: era un sognatore. E quando si trattava di tradurre in realtà quello che sognava era una forza inarrestabile, pronto a inimicarsi qualunque cosa e persona che lo ostacolasse. Fu proprio la sua testardaggine, la sua voglia di superarsi e di spingere il mezzo animazione oltre i suoi limiti che lo portò, nel 1934, a partorire un'idea assurda: produrre un lungometraggio interamente animato. Non con le sagome ritagliate nella carta, come nei lavori di Cristiani o di Reiniger, ma completamente disegnato a mano, dall'inizio alla fine, con la tecnica nota nell'ambiente come cel animation. Ai tempi tutti considerarono questo progetto una follia, un'utopia irrealizzabile, tanto che sia la moglie che il fratello di Walt tentarono di fargli cambiare idea, la stampa dell'epoca lo derise, Disney divenne praticamente una barzelletta sulla bocca di tutti, ma nonostante tutto lui non si arrese mai. E così, nel giugno 1934 annunciò al suo staff l'intenzione di mettere in scena uno dei racconti della sua infanzia, Biancaneve e i sette nani dei fratelli Grimm, mosso anche dal ricordo, di quando aveva 15 anni, della versione muta del 1917 di J. Searle Dawley.

Lo staff dello studio Disney nel 1932

È difficile, con la mentalità di oggi e i mezzi a disposizione, cogliere veramente l'imponenza di un lavoro del genere negli anni '30. A partire dall'aspetto finanziario: il budget del film ammontò a quasi un milione e mezzo di dollari. Una cifra inconcepibile per l'epoca, laddove il costo per realizzare una normale
Silly Symphony si aggirava intorno ai 25.000 dollari, tanto che Walt dovette ipotecare la propria casa e chiedere un prestito alla Bank of America, che ottenne mostrando al presidente Joseph Rosenberg una versione non ancora finita del film. Pare infatti che Rosenberg, rimasto impassibile per tutta la proiezione, alla fine si girò e dichiarò: “Walt, questa cosa incasserà una marea di soldi!”.

E questo è niente in confronto al vero e proprio processo di scrittura e animazione, un'odissea creativa che richiese tre anni di sviluppo e lo sforzo collettivo dell'intero team in forza allo studio Disney. Si parla di circa 750 persone, tra animatori, sceneggiatori, inchiostratori e assistenti vari, e migliaia e migliaia di disegni realizzati. Nomi che in pochi oggi ricordano, come David Hand, Ward Kimball, Art Babbitt, Joe Grant, Larry Morey e tantissimi altri, rimarranno indelebilmente nella storia dell'intrattenimento per immagini, così come quelli di coloro che lavorarono al soggetto e alla sceneggiatura, forse l'aspetto che richiese più tempo e sforzi. E il motivo di ciò è presto detto.

Disney e il suo team erano abituati a lavorare a pellicole umoristiche che dovevano esaurirsi in massimo 10 minuti, in cui erano più che altro le gag o al massimo la creatività artistica e visiva

a costituirne l'ossatura. Per un film vero e proprio si capì presto che la spina dorsale narrativa doveva essere ben più resistente: vennero dunque eliminate le tantissime scene pensate ma non realizzate che davano molto più spazio al principe e ai nani, inizialmente protagonisti di numerose parentesi comiche che deviavano dal conflitto principale fra Biancaneve e la regina Grimilde e, di conseguenza, dalla drammaticità della situazione. Alcune di queste scene tagliate che oggi definiremmo “riempitivi” furono addirittura completamente animate, come quella in cui i nani costruiscono un letto come regalo per Biancaneve, col dispiacere di Ward Kimball, animatore di quella sequenza, che Walt convinse a non lasciare lo studio dandogli l'importante incarico di supervisore per l'animazione del Grillo Parlante in Pinocchio, seconda fatica dello studio in termini di lungometraggi.
Insomma, piuttosto che una sequela scollegata di situazioni comiche la sceneggiatura doveva avere la struttura di qualsiasi altra sceneggiatura della Hollywood del periodo, con un inizio, uno svolgimento e una conclusione. Ma, d'altra parte, l'umorismo era comunque fondamentale per dare respiro alla storia, tanto che Walt stimolò i suoi artisti promettendo un bonus di 5 dollari per ogni gag che trovasse divertente.

Il processo di scrittura, come avrete intuito, fu particolarmente complicato, e non mancano gli aneddoti interessanti a riguardo. Pensate, ad esempio, che ben due nomi storici del fumetto incrociarono le loro strade con la lavorazione di Biancaneve: Merril De Maris, in quel periodo autore dei testi delle storiche strisce quotidiane di Topolino disegnate dal maestro Floyd Gottfredson, figura fra gli sceneggiatori del film, mentre niente po' po' di meno che Carl Barks, tra i più grandi fumettisti di sempre, entrò nel 1935 in forza alla Disney proprio grazie a degli schizzi di idee per il film che inviò allo studio. Le sue proposte non vennero considerate, ma lavorò alle dipendenze di Walt, prima come intercalatore e poi come sceneggiatore e gagman, fino al 1942, quando deciderà di dedicarsi esclusivamente al fumetto.


Una volta delineata la piega che avrebbe preso la storia, il cui soggetto venne scelto anche perché, fra le opere dei Grimm, era considerato il più adatto a coprire una durata di un'ora e venti, restava la fase più complessa e delicata: l'animazione.

Come per l'aspetto narrativo, anche il livello delle animazioni doveva essere superiore, per fare da traino alla maggior serietà della trama. Lo staff di creativi, spinti del veterano Art Babbitt, parteciparono a delle lezioni private tenute dall'insegnante d'arte Donald Graham, che insegnò agli artisti dello studio come migliorare e ottimizzare la loro tecnica, specialmente riguardo l'animazione dei personaggi umani, tra gli aspetti più difficoltosi all'epoca. Fondamentale in quest'ottica fu il corto delle Silly Symphony del 1934 La dea della primavera, rappresentazione del mito di Ade e Persefone che per la prima volta sperimentò con figure umane realistiche. Nonostante i risultati non ancora eccezionali, rappresentò un punto di partenza imprescindibile da cui partì l'animatore Grim Natwick, famoso per il suo lavoro ai Fleischer Studios sul personaggio di Betty Boop e responsabile della protagonista Biancaneve. Per facilitare un minimo il lavoro (e in parte anche per velocizzarlo), gli animatori optarono con riluttanza per l'utilizzo del rotoscopio, strumento inventato proprio dai Fleischer che rendeva possibile ricalcare i movimenti da filmati live action in modo da ottenere animazioni più convincenti: fu la tecnica impiegata parzialmente per animare Biancaneve, il principe e la regina Grimilde, e fu uno dei più efficaci utilizzi del mezzo mai visti fino ad allora.

Ma le innovazioni tecniche che rendono incredibile questo film non finiscono qui: Biancaneve introdusse infatti anche la multiplane camera, tra gli strumenti più rivoluzionari per la tecnica dell'animazione. Creata nel 1933 dal leggendario Ub Iwerks, tra i primi e più importanti collaboratori di Disney, e testata con successo nel bellissimo corto premiato con l'Oscar Il vecchio mulino (1937), si trattava di un tipo di telecamera che permetteva di sovrapporre vari piani di disegni l'uno sopra l'altro, per poter così creare inquadrature più complesse e ricche di dettagli e soprattutto rendere il senso della profondità degli ambienti in cui i personaggi si muovevano.
L'uso massiccio di questo strumento fu una delle armi segrete che resero questa pellicola un miracolo tecnico: lo dimostrano scene da antologia come quella in cui il cacciatore osserva da lontano un'inconsapevole Biancaneve che raccoglie i fiori, dove la figura del cacciatore, inserita come parte dello sfondo e pertanto immobile, assume così la funzione di un sinistro presagio alla rottura di quell'innocente, idilliaco equilibrio, cosa che avverrà di lì a pochi minuti.
Come non parlare poi della scena immediatamente successiva, che vede una terrorizzata Biancaneve scappare nel bosco, in un turbinio di immagini terribili che la mente spaventata della ragazza proiettano tutt'attorno a lei. Ma tutto questo dura poco, e presto, con l'attenuarsi delle sue emozioni, si attenua anche il terrore, e quel bosco che appariva tanto minaccioso si trasforma presto un rifugio sicuro e sereno, in cui la natura accoglie letteralmente la nostra eroina appianando le sue paure. Un vero capolavoro di tecnica e tensione, reso possibile dall'utilizzo della multiplane camera all'apice del suo potenziale. Da manuale di cinema.

Sono davvero un'infinità le minuzie tecniche da apprezzare. Una delle più interessanti riguarda il lavoro svolto dall'inchiostratrice Helen Ogger, che per dare colore alle guance della protagonista applicò a mano su ogni singolo fotogramma del trucco rosso utilizzando dei batuffoli di cotone posti in cima a delle matite. Un lavoro che richiese una perizia e un impiego di tempo tali che non venne mai più adoperato per i lavori futuri dello studio, anche perché Ogger lasciò quest'ultimo nel 1941, e nessun altro che vi lavorasse era in grado di svolgerlo. Pazzesco.

A rivederlo con occhi moderni, è interessante notare come questo film, il primo dei cosiddetti “classici Disney”, introducesse già tutti gli elementi che costituiranno la “formula” a cui lo studio verrà associato per i decenni a seguire: prima di tutto, il musical, con i personaggi che esprimono i loro sentimenti cantando. Qualcosa con cui tutti oggi
abbiamo familiarità in ambito animazione, e che all'epoca rappresentò per Disney l'apice delle possibilità creative del sonoro, con cui egli aveva cominciato a sperimentare fin dai tempi di Steamboat Willie, una decina di anni prima. Le canzoni, scritte da Frank Churchill e dal co-regista Larry Morey, sono parte irremovibile dell'immaginario collettivo, e accompagnano alcune delle sequenze più iconiche del film, come i sette nani che tornano dalla miniera cantando Hey-oh. Ma oltre alle canzoni, le musiche in generale, di Paul J. Smith e Leigh Harline, sono parte integrante dell'esperienza sensoriale dello spettatore, un elemento fondamentale ancora oggi considerato tra i più importanti. A sottolineare la sua iconicità, basti pensare che la colonna sonora di Biancaneve, tra le altre cose candidata agli Oscar, fu la prima in assoluto ad essere messa in vendita in America.

Dopo questi quattro anni di produzione, che definire intensi sarebbe riduttivo, toccava ora a Disney affrontare il banco di prova più difficile: quello del pubblico. Per via dei vorticosi costi e dell'enorme manodopera impiegata, il flop era dietro l'angolo, e avrebbe comportato indubbiamente il fallimento dell'intera azienda.

La leggendaria prima del film il 21 dicembre 1937 al sontuoso Carthay Circle Theatre di Los Angeles, tra i cinema più popolari dell'epoca, vide la sentita partecipazione personalità come Judy Garland, Charles Laughton e Marlene Dietrich. Una volta terminati quei maestosi 83 minuti, l'intero pubblicò reagì con una standing ovation. Walt ce l'aveva fatta.

Il film aveva conquistato tanto la critica quanto il pubblico, totalizzando circa 7 milioni di dollari di incassi alla sua prima uscita nei cinema, avvenuta in maniera capillare a partire dal gennaio 1938, e ancora di più guadagnerà con i continui ritorni in sala nei decenni successivi, fino al 1993. Fu il film sonoro di più grande successo all'epoca e, al netto dell'inflazione, il film d'animazione dal più alto incasso della storia ancora oggi.

La critica dell'epoca paragonò l'importanza di Biancaneve e i sette nani a quella di Nascita di una nazione, venne elogiato da un grande artista come Charlie Chaplin, mentre Sergei Eisenstein lo proclamò addirittura “il più grande film mai fatto”.

Ai premi Oscar del 1939 Disney fu premiato con un Oscar speciale come riconoscimento di questo grande traguardo. O meglio, sette piccoli Oscar e uno a grandezza normale, a imitazione degli otto protagonisti del film.

Questo inaspettato successo fu decisivo nel mettere in moto l'industria dell'animazione a livello mondiale, rendendola più simile a quella che conosciamo oggi: i fratelli Fleischer decisero finalmente di seguire la scia producendo il loro primo lungometraggio, I viaggi di Gulliver del 1939, distribuito dalla Paramount, che si rivelò un successo e spinse lo studio a produrre due anni dopo Hoppity va in città, secondo e ultimo lungometraggio dei Fleischer, che chiusero baracca e burattini a causa di un catastrofico risultato al botteghino, complice anche lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Nel frattempo, in Italia, Mussolini, appreso nel 1935 dell'idea di Disney, ordinò la fondazione della C.A.I.R. (Cartoni Animati Italiani Roma) con la quale tentò di battere gli americani sul tempo producendo quello che sarebbe dovuto essere il primo film d'animazione italiano, Le avventure di Pinocchio, mai completato a causa degli scarsi mezzi a disposizione e della generale disorganizzazione del progetto. Ironia della sorte, Walt Disney acquisì i diritti del romanzo di Collodi per realizzarne la sua versione nel 1940. Ma di questo vi parlerò in futuro...

E, a proposito di Italia, il film uscì alla fine del 1938 anche nel nostro territorio, colonie comprese, con un adattamento italiano profondamente diverso dal tono originale dei dialoghi inglesi. In linea con il gusto melodrammatico e solenne dell'Italia fascista, i dialoghisti italiani Vittorio Malpassuti e Alberto Simeoni si servirono di termini aulici e dialoghi in rima per conferire un'aura di liricità in più.

Tali scelte risultarono ben presto obsolete, e nel 1972, anche per volontà della Disney stessa, si realizzò un nuovo adattamento, curato dal veterano Roberto De Leonardis, e di conseguenza un nuovo doppiaggio, con Melina Martello a sostituire l'originale Rosetta Calavetta (colei che nel 1961 diede la voce a Crudelia De Mon in La carica dei 101) per la voce di Biancaneve.

Ma naturalmente la prova più ardua, ancora più di quella del pubblico, è quella del tempo. Come appare oggi il primo classico Disney, a distanza di esattamente 85 anni?

Può sembrare incredibile, ma questa semplice fiaba per ragazzi del 1937 risulta ancora attuale, e non ha perso un briciolo di smalto. Le emozioni base con cui essa gioca e che costituiscono la sua linfa vitale, sono quelle che ancora oggi ognuno di noi ha fin da bambino: chi di noi da piccolo non ha provato terrore nella già citata scena del bosco? Chi non ha provato sollievo in quella immediatamente successiva? Chi non si è terrorizzato alla scena della trasformazione della strega cattiva? Chi non ha pianto durante la scena del funerale, ancora oggi uno dei maggiori impatti emotivi mai visti in animazione?

E, infine, chi non ha provato un immenso senso di felicità e sollievo nel finale? Un finale idilliaco, canonico, che ad alcuni cinici e disillusi fruitori dei nostri tempi potrà risultare scontato e datato, ma che rimarrà in realtà per sempre universale. Del resto, lo scopo primario e primigenio di ogni essere umano non è forse quello di vivere “per sempre felici e contenti”?

Per questi e mille altri motivi, Biancaneve e i sette nani è un capolavoro senza tempo, una pietra miliare della storia del cinema quanto di quella dell'animazione, oltre che un pezzo d'infanzia di più di una generazione, da quella dei nostri nonni a quelle a venire.

Si chiude dunque la prima puntata di quella che sarà una monografia talmente lunga e impegnativa che non potrò fare a meno di alternarla con altre, che aggiornerò con la calma e la procrastinazione che contraddistinguono tutto quello che faccio. Dandovi appuntamento alla recensione di Pinocchio (se mai arriverà), vi ringrazio con sincero entusiasmo per essere passati su questi lidi. A presto!


Dati tecnici

  • Regia: David Hand (supervisore), Perce Pearce, William Cottrell, Larry Morey, Wilfred Jackson, Ben Sharpsteen
  • Anno: 1937
  • Paese di produzione: Stati Uniti d'America
  • Casa di produzione: Walt Disney Pictures
  • Musiche: Frank Churchill, Leigh Harline, Paul J. Smith



lunedì 16 maggio 2022

FRESCO DI CELLULOIDE: DOCTOR STRANGE NEL MULTIVERSO DELLA FOLLIA

Doctor Strange nel multiverso della follia è il ventottesimo film del Marvel Cinematic Universe. Ma soprattutto, ed è per questo che sono andato a vederlo, è il primo film di Sam Raimi in nove anni.

Nove. Anni. Un periodo esasperatamente lungo in cui uno degli autori di genere più influenti degli ultimi quarant'anni non ha toccato macchina da presa. È per questo che, nonostante le numerose perplessità, nate dalle delusioni avute da molti film precedenti e da quanto mostrava il trailer, sono andato nonostante tutto a vedermi il sequel di Doctor Strange al cinema, sperando quantomeno di trovarmi davanti a un dignitoso film supereroistico con punte di psichedelia, come fu per il primo capitolo diretto da Scott Derrickson.

Perché anche se mi sono sinceramente stancato della formula Marvel, che richiede un'attenzione e una dedizione a mio parere eccessive e il dispendio di tempo che richiederebbe un'intera serie TV dall'inizio alla fine, quando Sam Raimi torna a girare un film dopo quasi un decennio mi sento quasi obbligato a recarmi in sala a vederlo.
E devo dire che tutto sommato non me ne sono completamente pentito. Perché, nonostante i difetti evidenti che ovviamente i fan duri e puri come al solito negheranno fino alla morte, incredibilmente ci sono stati dei momenti, seppur sporadici, in cui sono riuscito, udite udite, a divertirmi. Non certo per la consueta sovrabbondanza di effetti visivi, ormai la norma in film di questo tipo, non certo per la sceneggiatura, incasinatissima, piena zeppa di fan-service fine a se stesso e impossibile da seguire se non si hanno visto i film (e le serie!!!) precedenti, ma perché, fortunatamente, si vede che dietro il tutto c'è la mano di qualcuno che sa dove mettere la macchina da presa, a differenza di gente come i fratelli Russo.

Non urlate subito di gioia, però, perché di Sam Raimi, almeno da quanto mi è parso alla prima visione, c'è solamente l'elevato aspetto tecnico, evidente in alcune scene d'azione ben realizzate e a tratti persino creative.
Ma se vi aspettate di rivivere le atmosfere della trilogia della Casa o di quella di Spider-Man, c'è una buona probabilità che rimarrete delusi. Io, che avevo già preventivamente abbassato le mie aspettative, sono riuscito a passare un paio d'ore relativamente intrattenenti, al netto dei numerosi momenti di smarrimento.

Chiudo, dunque, dicendo che se siete curiosi di assistere al ritorno di un maestro come Raimi, sperando che il successo commerciale di questo film torni a farlo lavorare spesso, potreste rimanere abbastanza soddisfatti.
Quello che è certo, è che a questo nuovo Doctor Strange un 50% in più di fattore Raimi avrebbe senza dubbio giovato.

mercoledì 4 maggio 2022

ADDIO, LUCA BOSCHI.


Oggi avrei dovuto pubblicare una recensione musicale, ma credo che dovrà aspettare. Adesso, nel mezzo della stesura di due articoli che usciranno spero presto su questo blog, i miei pensieri vanno solamente a Luca Boschi, che ci ha appena lasciati all'età di 66 anni. 

Non molti riconosceranno questo nome, forse nemmeno troppi appassionati di fumetto, ma lasciatemi dire che di critici, storici, esperti e soprattutto amanti del fumetto come lui non ce ne saranno mai abbastanza.

Se, da piccolo, ho iniziato ad amare la nona arte, partendo dal Topolino settimanale e arrivando a scoprire la storia di questo magnifico mezzo di comunicazione, lo devo in larga parte al suo lavoro di divulgazione.

Se adesso so qualcosa sulla scuola Disney italiana, se so qualcosa su Elzie C. Segar, se so qualcosa su Benito Jacovitti, se ho potuto adorare le opere di Carl Barks, di Floyd Gottfredson, di Don Rosa, tanto da riempire i miei scaffali con i loro fumetti, lo devo a lui. A tutti quegli articoli che accompagnavano le splendide edizioni da collezione di quei fumetti, articoli interessanti, esaustivi, frutto di sincera passione e instancabile ricerca. 

La stessa passione che io, nel mio piccolo, cerco di mettere in tutto quello che scrivo.

Grazie, Luca.

lunedì 18 aprile 2022

BEETLEJUICE: IL VERO ORRORE È LA BORGHESIA

"La gente normalmente ignora ciò che è strano e oscuro."

Basterebbe questa semplice frase per riassumere l'intera poetica di un artista come Tim Burton. Una frase messa in bocca a una giovanissima Winona Ryder nei panni di un'annoiata e disillusa adolescente nel secondo lungometraggio del regista di Burbank. Secondo, sì, ma primo dei suoi sforzi cinematografici ad essere al 100% una sua creatura. Non nella sceneggiatura, di cui Burton si occuperà rarissimamente nel corso della sua carriera, ma nella forma, nella sostanza, nello spirito profondamente anarchico. L'opera in questione è Beetlejuice, ma prima di tuffarci a pesce nell'analisi del cinema di Tim Burton, è d'uopo una premessa storico-culturale.

Gli anni '80 rappresentano il periodo culmine dell'edonismo della classe medio-alta, la sfrenatezza del lusso permessa dall'ascesa di Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher in Regno Unito, sfrenatezza sotto la quale, come sempre, le classi operaie, i poveri, gli emarginati, le minoranze, rimanevano schiacciati. Gli anni '80 sono stati il decennio del boom televisivo, di MTV, della reaganomics, della perestrojka, ma anche dell'AIDS, di Chernobyl, della fallita lotta alla droga, nonché delle tensioni razziali mai sopite che porteranno a sanguinose ripercussioni nel decennio successivo.
Una contraddizione di questa portata non poteva che generare forti reazioni, che dal basso fecero rimbombare l'eco delle nuove generazioni.

Nella musica, già dalla fine degli anni '70 e soprattutto in Inghilterra, questo spirito
anticonformista prese forma nel macromovimento post-punk, nato dalle ceneri, o meglio, naturale proseguimento del punk rock generazione 1977. Tra le svariate ed eterogenee ramificazioni del post-punk, il goth rock fu forse la più riconosciuta a livello
mainstream: prima che matite nere, giacche di pelle e piercing diventino una moda, privata in quanto tale di qualsiasi impronta politico-sociale, realtà come Bauhaus, The Cure e Joy Division traducono in musica influenze e suggestioni all'opposto della facciata solare e sicura esposta dai media. Alla bianca frenesia pop fatta di divertimento e spensieratezza, i goth rispondevano con la malinconia più nera di canzoni lente e in accordi minori, alla maniacale ossessione dell'apparire contrapponevano un'immagine anticonvenzionale e spesso androgina, al fervente conservatorismo si scagliavano con il più sincero rigurgito anti-autoritario.

Tim Burton

Mentre, per quanto riguarda il cinema, pochi autori incarnano questa verve anticonformista, attraverso uno sguardo allo stesso tempo causticamente ironico e inguaribilmente romantico, come Timothy Walter Burton. Nato nel 1958 e avviatosi giovanissimo verso l'animazione, Tim non trova all'interno dello Studio Disney presso cui viene assunto la dimensione che gli appartiene. Lo testimoniano cortometraggi come Vincent, 1982, distribuito dalla Disney ma che ha più in comune con Mary Shelley e
con l'espressionismo tedesco che con Walt e Topolino. O
Frankenweenie, realizzato stavolta in live action ed ennesima riproposizione in salsa familiare della storia di Frankenstein. L'abbandono della Casa del Topo fu inevitabile, ma chiusa questa porta, il proverbiale portone non si fece attendere: la Warner Bros. assunse Burton per la regia di Pee-Wee's Big Adventure, primo film dedicato al personaggio televisivo di Pee-Wee Herman, che fece in quegli anni di Paul Reubens una star della programmazione per bambini. Questo primo lavoro, per quanto su commissione, conteneva già piccole anticipazioni dello stile che diventerà tipico del regista, e segnò inoltre la prima collaborazione di quest'ultimo con Danny Elfman, compositore di colonne sonore, nonché leader, non a caso, della formazione new-wave degli Oingo Boingo. Un sodalizio che si rivelerà subito particolarmente felice, destinato a durare fino ad oggi e a contribuire sostanziosamente al successo di quasi tutti i lavori del regista.

Naturalmente, non fa eccezione Beetlejuice, come accennato il primo lungometraggio che porta al 100% la firma di Tim Burton. I temi più caratteristici delle sue opere ci sono tutti: la borghesia che nasconde la sua mediocrità spendendo i suoi soldi in inutili status symbol, l'adolescente o la bambina pura, per cui nichilismo e isolamento rappresentano la miglior difesa contro la vuotezza del mondo adulto, la morte e il soprannaturale come normali prolungamenti della vita quotidiana, altrettanto mondani ma forse ben più divertenti.

Beetlejuice è una commedia che ha il coraggio di uccidere i due protagonisti, simpatici e con i volti di due attori estremamente popolari all'epoca, nei primi dieci minuti, e rimane costantemente sulla soglia del disturbante e dell'orrorifico fino alla fine. Qualcosa che, in un film per famiglie, non appariva troppo strano al pubblico dell'epoca, ma che oggi scatenerebbe orde di genitori indignati, come se i bambini non volessero essere messi alla prova e sentirsi un po' adulti. Burton, insieme a molti cineasti della sua generazione, sa (o sapeva) perfettamente come dosare il black humour e, soprattutto, sapeva usarlo in modo creativo, satirico e tutt'altro che banale. I personaggi di questo film muoiono, evocano demoni, vengono posseduti, eppure anche un bambino intuirebbe dove si insinua il vero orrore in questa folle vicenda.
La famiglia Deetz, o più che altro la sua sgradevole matriarca, incarna quello spirito borghese votato alla vacua apparenza, alla superficialità di chi è disposto a profanare la purezza di qualcosa solo perché ha i soldi per farlo. Un tipo di status sociale che Burton, all'epoca un trentenne amante di Edgar Allan Poe fuggito dall'iperpositività disneyana, vede con disgusto e ridicolizza senza pietà. Non a caso, i personaggi che più il film ha in simpatia, i defunti coniugi Maitland, vivono e muoiono isolati, nel loro nido d'amore costruito e accudito affettuosamente, per poi lottare con tutte le loro nuove risorse per non vederlo stravolto. E non è un caso che sia proprio la giovane Lydia Deetz a scoprire e fare amicizia con gli spiriti dei due protagonisti, come se persino la morte risultasse agli occhi suoi e della sua generazione ben più invitante dello stile di vita dei propri genitori.

Micheal Keaton nel ruolo di Beetlejuice,
in tutto il suo splendore

Burton, stavolta libero di sbizzarrirsi, ne approfitta per sfoggiare una forma non ancora matura (per quello basterà attendere un paio d'anni), ma che irrompe in tutta la sua creatività nella gestione degli effetti speciali, che in una commedia fanta-horror sono un elemento fondamentale: gli effetti sono fatti di plastica, gomma, cartone, plastilina, praticamente qualsiasi materiale immaginabile, il trucco è straordinario e ha ispirato generazioni di maschere di Halloween, e le scenografie, soprattutto quelle che vediamo nell'aldilà, omaggiano tanto il surrealismo quanto l'espressionismo di pellicole come Il gabinetto del Dottor Caligari, chiaramente impresse nel DNA artistico del regista. Il tutto è ancora più notevole se ci si ricorda che questo film è uscito nel 1988, e soprattutto che la CGI è completamente assente, lasciando campo libero alla fantasia degli straordinari artigiani effettisti dell'epoca.

Non meno importante, con questa sua opera seconda Burton ha il merito di regalare all'immaginario collettivo il primo dei suoi tanti, memorabili personaggi: Beetlejuice, appunto (alternativamente Betelgeuse), la vera star del film, spettro disgustoso e approfittatore senza un briciolo di margine di redenzione, eppure icona istantanea della cultura pop anni '80. Sotto quel trucco diventato immediatamente iconico si nasconde un Michael Keaton in stato di grazia, che da eccellente caratterista si sarebbe trasformato, è proprio il caso di dirlo, in star mondiale grazie ad un altro certo ruolo in un altro certo film che avrebbe fatto faville di lì a un anno, guarda caso sempre farina del sacco del buon Tim.

Nella stagione cinematografica 1988-89 Beetlejuice sbancò al botteghino, e non è difficile capire il motivo. Tim Burton confeziona una delle commedie americane più interessanti, creative e innovative del periodo, la cui influenza è facilmente individuabile ancora oggi. La commedia nera/soprannaturale, pensate al bellissimo La morte ti fa bella di Zemeckis, non sarebbe quella che oggi conosciamo senza serpentoni assassini, vermi delle sabbie su sfondi in green screen, possessioni demoniache al ritmo di calypso, gamberetti animati con le dita, poltergeist che vogliono impossessarsi di ragazzine minorenni e teste rimpicciolite. E il cinema americano, di commedia e non, senza l'apporto di uno di uno degli autori più originali degli ultimi quarant'anni ci apparirebbe oggi decisamente più povero e meno fantasioso.


Dati tecnici
  • Regia: Tim Burton
  • Anno: 1988
  • Paese di produzione: Stati Uniti d'America
  • Casa di produzione: Geffen Company, Warner Bros.
  • Fotografia: Thomas E. Ackerman
  • Musiche: Danny Elfman